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Gli esorcismi della solidarietà

09-10 1993

Come per la moneta, c’è un’inflazione anche per il valore delle parole, che le logora e le svaluta a mano a mano che aumenta la loro circolazione. Ci sono parole o espressioni divenute ormai praticamente impronunciabili, o pronunciabili solo rischiando sarcasmi che hanno il sapore dell’inevitabile: la lotta, le masse, le conquiste, la società reale, il progresso e il nuovo, il trend, il mix, gli spazi di libertà, l’evento epocale, la solidarietà. Già, proprio la solidarietà. Cioè il totem politico-sociale di maggiore e trascinante successo dopo il verificarsi di un’altro degli awenimenti «che non si possono più dire in pubblico», cioè «la fine delle ideologie». Solidarietà ed egoismo Uno dei metodi più semplici ed efficaci per smascherare le minori e maggiori truffe partigiane praticate nel lessico politico quotidiano è sempre consistito nel porre in raffronto una formula convenzionale con il suo contrario. Che il «partito degli onesti» fosse una invenzione tendenzialmente losca risultava, e dovrebbe risultare, chiaro semplicemente pensando che gli eventuali awersari di questo partito, cioè tutti gli altri, avrebbero costituito nei fatti il «partito dei disonesti». Che il pacifismo a oltranza risultasse in una insopportabile falsificazione si poteva capirlo semplicemente ragionando su chi fossero gli avversari dei «pacifisti»: forse i «guerrafondai»? Nel caso della solidarietà si implica come evidenza primaria che il suo opposto è l’egoismo. E di conseguenza, rispetto allo stuolo pressoché infinito dei generosi fautori della solidarietà, dovrebbe essere come minimo precisato chi sono gli eventuali «egoisti». Il manicheismo intrinseco nelle definizioni strumentali, di comodo, è di tale scoperta evidenza da rendere in sé impraticabile questo gioco di dicotomie. Tuttavia per ciò che riguarda le visioni solidaristiche il caso contiene una complessità maggiore. Innanzi tutto perché la solidarietà viene definita, percepita e soprattutto affermata come un «valore», in quanto tale sostanzialmente indiscutibile (oppure discutibile solo con un atto di malafede), una stella fissa di qualsiasi proposta politica presentabile, con un contenuto squisitamente apodittico. Ma in secondo luogo perché il suo alone ha permeato tutta la riflessione politico-sociale di ciò che continua a definirsi «sinistra». Ne risulterebbe, come puro derivato, che il contrario della solidarietà, cioè della sinistra, è la «destra»: riversando nel calderone della destra il liberismo economico, la reaganomics, il monetarismo à la Milton Friedman, il radicalismo di Margaret Thatcher e quant’altro. Ora, è tutto da dimostrare che i sostenitori della destra liberale siano più egoisti per una specie di necessità antologica. Si può sostenere in piena legittimità, ed è stato fatto innumerevoli volte, che l’impulso all’assunzione individuale di responsabilità e la spinta a un assetto meritocratico costituiscano una forma di aiuto o di incentivo al prossimo più razionale dell’erogazione di aiuti in denaro o in servizi di assistenza. Nella loro strenua fede nell’asserzione per cui ciascuno è l’artefice della propria fortuna, Ronald Reagan e la signora Thatcher sostenevano che gli homeless di New York e i barboni dell’Inghilterra contemporanea volevano fare quella vita miserabile, e che quindi tutti gli sforzi per dar loro un tetto o un’occupazione erano contigui all’irragionevolezza. Una delle bibbie del liberismo economico, l’ «Economist», si dichiara programmaticamente contrario alle forme di sostegno al Terzo Mondo, anche in forma caritativa, nella convinzione che gli aiuti danneggiano soprattutto chi li riceve: «Se diamo da mangiare all’Africa, come impareranno gli africani a nutrirsi da soli?». Tuttavia, anche senza estremizzare il ragionamento, senza trasferirlo cioè in una dimensione che risulterebbe paraideologica, rimane comunque una domanda di fondo che appare difficile evitare: si è più solidali distribuendo risorse o sollecitandone la creazione? è un esempio migliore di solidarietà tutelare i più deboli oppure metterli in grado di essere responsabilmente autosufficienti? Se si accettano queste domande come plausibili ne deriva che non è affatto semplice individuare, in politica, gli «egoisti». Al massimo esistono concezioni di antropologia politica che muovono dalla considerazione realistica dell’uomo come animale non necessariamente altruistico, e che contano di produrre un bene (una convivenza migliore, un benessere maggiore) facendo leva su un male. Ma non esistono, se non nelle caricature di parte, filoni di pensiero liberale che teorizzino e programmino un obiettivo definibile come «egoismo» e non esistono movimenti politici iscritti nella concezione liberale che lo promuovano come ipotesi d’arrivo su cui plasmare la società. Esisteranno individui empiricamente egoisti, ci saranno fasce sociali tese a proteggere egoisticamente le posizioni raggiunte, anche a scapito di altri, ma un progetto generale che voglia affermare il privilegio di alcuni a scapito altrui lo si può trovare probabilmente solo in alcune semplificazioni ottocentesche. Così come governi faziosamente schierati a tutela del grande capitale, della grande industria o della grande finanza, e propensi a schiacciare intenzionalmente i ceti meno abbienti, non si registrano nelle democrazie avanzate. I sistemi democratici industriali e postindustriali si caratterizzano semmai per avere creato estesissimi ceti medi, e per avere fortemente attenuato le differenze di reddito e di status fra la generalità dei cittadini. Si può obiettare, ed è un’obiezione praticamente automatica, che questo processo distributivo ormai non riesce a intaccare lo zoccolo delle vecchie e nuove povertà e delle classiche o inedite marginalità. Ha avuto successo negli anni scorsi la formula di Peter Glotz sulla «società dei due terzi», in cui una maggioranza sociale sostanzialmente compatta e soddisfatta di sé non si preoccupa delle condizioni di vita del terzo restante, confinato in condizioni di insignificanza politica, di subalternità o esclusione culturale e di acuto disagio sociale. Secondo questo schema di interpretazione, l’alternarsi al governo di partiti di centro-destra, propensi all’accumulazione e alla stabilizzazione della ricchezza, e partiti di centro-sinistra, più inclini alla redistribuzione, non influisce sulla situazione del terzo marginale, e alla fine dei conti la società opulenta risulta nei fatti quella blockierte Gesellschaft descritta dai critici post-francofortesi, capace tutt’al più di modificare in misura inessenziale i rapporti fra le ampie fasce sociali privilegiate, ma del tutto incapace di offrire opportunità di riscatto ai deprivilegiati. Già sarebbe di qualche interesse discutere se la «società dei due terzi» sia effettivamente tale (o non piuttosto una società dei quattro quinti), ma anche prendendo alla lettera il modello di Glotz, che esplicitamente o no è divenuto una specie di vulgata della coscienza sociale della sinistra post-ideologica, se ne dovrebbero trarre alcune conseguenze piuttosto rilevanti. Vale a dire, in primo luogo una riflessione sui sistemi di Welfare e sulla loro capacità di incidere sulle condizioni di vita dei cittadini; e in seconda istanza sull’azione dei partiti di centro-sinistra. A quanto pare, né lo stato sociale riesce ad annullare le situazioni di disagio, né i partiti socialdemocratici sono riusciti a promuovere le condizioni di vita proprio dei cittadini che maggiormente hanno bisogno di rappresentanza politica. Il Welfare è una macchina che premia chi la paga (cioè i ceti medi), e i partiti di centro-sinistra tradiscono almeno in parte le loro ispirazioni, o perlomeno falliscono in qualche misura rispetto agli obiettivi conclamati. Fallimento anche questo parziale, visto che concerne una minoranza della società, ma comunque fallimento, tanto più vistoso e imbarazzante quanto più riguarda proprio lo zoccolo di esclusione maggiormente «scandaloso»: i più poveri dei poveri, i più estranei degli estranei, i più devianti dei devianti. E dal momento che non è immaginabile, o non è razionalmente praticabile, una politica di redistribuzione radicale, in grado di sostenere i livelli di vita della maggioranza dei cittadini e contemporaneamente di trasferire risorse significative agli esclusi dal benessere, ne deriva una conseguenza piuttosto significativa: vale a dire che la soluzione del dilemma dei due terzi non può risiedere né in un imponente programma di assistenza sociale né in una velleitaria radicalizzazione dei programmi di politica tributaria. Poiché il disagio sociale è un fenomeno complesso, le soluzioni non sono semplici e soprattutto non sono automatiche. È più facile che l’impostazione meglio adeguata e più opportuna risieda in un programma di investimenti pubblici (a partire dalla scuola in quanto fattore di integrazione sociale) che non in una voluminosa politica assistenzialistica. Si tratta certamente anche in questo caso di una classica ricetta solidaristica, che prevede un accrescimento del peso fiscale per la realizzazione di consistenti investimenti pubblici oppure l’indirizzo del flusso di risorse in una direzione diversa rispetto al passato. Ma dal momento che non esiste un disagio sociale semplice, è lecito pensare che per alcuni aspetti sarebbe opportuno ricorrere a una gamma di interventi differenziati. Ad esempio, alla disoccupazione o alla non occupazione si può rispondere certamente con strumenti di ammortizzazione standardizzati (come i sussidi attinti da una cassa comune), ma anche con incentivi alla creazione di lavoro, attraverso tipici strumenti di deregolazione: sgravi fiscali per la creazione di imprese, agevolazioni per la produzione di lavoro. Se un immigrato maghrebino, che non trova lavoro nella grande o nella piccola industria, decidesse di mettere in piedi con due connazionali un’impresa di pulizie, sembrerebbe singolare costringerlo al sovraccarico di tasse, adempimenti formali, norme sindacali che gravano sul settore. Se lo si fa, applicando in modo ottusamente automatico gli standard solidaristici in vigore per gli operai dei due terzi «privilegiati», lo si costringe di fatto a precipitare nel sommerso, oppure a chiedere l’elemosina agli incroci fingendo di lavare i parabrezza. Se non a spacciare eroina negli slums. Lo stesso discorso può valere per il laureato in lettere che anziché tentare la lotteria dei concorsi pubblici o cercarsi un protettore politico per un’assunzione in comune volesse provare ad aprire un’agenzia di relazioni pubbliche o di servizi culturali. Non sempre, quindi, uno spezzone di politica di laissez-faire si può identificare come «di destra», e non sempre una politica «di sinistra» risulta automaticamente funzionale agli obiettivi che la sinistra è solita agitare. Solidali con tutti? In Italia, dire solidarietà è divenuto un luogo comune per un’amplissima gamma di soggetti politici. Egoista è soltanto, in una definizione di cui si coglie facilmente l’intenzione discriminatoria, soltanto la Lega Nord. Si appellano alla solidarietà non solo i vari tronconi della Dc, ma anche il Pds, e perfino ormai Rifondazione comunista. Potenza degli «avvenimenti epocali» e della «fine delle ideologie»: si dovrebbe ricordare che non c’è, nella tradizione che discende dal comunismo, e nell’esperienza storica concreta del socialismo marxista, la minima concessione a una solidarietà generale e in differenziata. Il principio che ha strutturato i partiti della sinistra ideologica era la lotta di classe, non il solidarismo. La solidarietà, per i partiti comunisti, era al massimo solidarietà proletaria. La stessa esperienza storica della solidarietà socialista, con il movimento cooperativo e il mutuo soccorso, contiene in sé l’indicazione di un ambito di cooperazione circoscritto, di norma e di fatto. Si direbbe che al termine di una parabola durata per tutto il nostro secolo, scomparse le certezze massimaliste, anche i più riottosi epigoni del marxismo hanno scoperto il Welfare State, cioè la costruzione più socialdemocratica e revisionista che sia stata creata dalle società occidentali. Perduto il dogma, cioè la sicurezza che nel mondo ulteriore del socialismo realizzato ai «capitalisti» sarebbero stati strappati, per socializzarli, gli strumenti del loro privilegio, la sinistra, anche quella che continua ad autodefinirsi antagonistica, si aggrappa alla più borghese delle invenzioni sociali, a uno strumento concepito e realizzato proprio per sterilizzare, ammorbidire, limitare il conflitto di classe. In sostanza, la solidarietà proletaria incorporava in se stessa il conflitto, la propria opposizione a un potere, ma comunque aveva in sé la chiarezza di indicare verso chi fosse rivolto l’atteggiamento solidale. E in modo simmetrico, il primo grande movimento di rivolta e di insurrezione contro la struttura di potere comunista, Solidarnosc, esprimeva con il suo nome una solidarietà popolare in evidente e drammatico contrasto con l’apparato «socialista». Oggi invece la rivendicazione della solidarietà come principio politico-sociale si guarda bene dallo specificare i propri confini e i propri interlocutori. Chi dovrebbe essere solidale, e con chi? I grandi imprenditori, capitalisti, finanzieri verso tutti gli altri? I ceti medi integrati nel benessere verso gli esclusi? Gli occupati verso i disoccupati? Il Nord industriale verso il Sud assistito? L’impiego pubblico «protetto» verso l’impiego privato esposto ai rischi della concorrenza? I cittadini verso coloro che non hanno cittadinanza? I commercianti legali verso i venditori extracomunitari di chincaglieria in nero? Nei suoi termini di slogan per tutte le stagioni, la solidarietà è un appello convenzionale e distratto, una specie di tributo che non costa niente versare a parole per sentirsi e dimostrarsi dalla parte giusta. Si paga il ticket verbale della solidarietà e si ottiene la tessera d’iscrizione al club dei «buonisti», dei fervidi «anticattivisti». Ma accettiamo pure, almeno per qualche momento, che si possa discutere, molto generalmente, di un atteggiamento di solidarietà di fondo da parte di chi gode del benessere verso chi non ne può godere. Sta di fatto che i cardini della solidarietà italiana, le prestazioni previdenziali e assistenziali, hanno giocato un ruolo decisivo nell’indebitamente dello Stato. Se si introduce nella riflessione la dimensione temporale, la presunta solidarietà hic et nunc si rovescia così, in modo virtualmente catastrofico, in una totale e dissennata assenza di solidarietà verso le generazioni future, a cui toccherà il compito di riequilibrare i conti, cioè di pagare i nostri debiti e le nostre cambiali facili. Come si può vedere, si tratta di riflessioni non particolarmente originali. Tuttavia anch’esse mettono in luce che auspicare un alto livello di cosiddetta solidarietà non significa nulla, è un perfetto ideologismo, un cascame illusionistico, se non si capisce che la solidarietà ha un costo, è quindi un bene scarso, che prima di essere distribuito deve essere prodotto. Chiunque parli in termini ispirati della solidarietà, magari alludendo a una società migliore e più «giusta», avrebbe anche l’obbligo morale di specificare che ciò significa: tasse più alte; oppure stipendi pubblici più bassi; meno insegnanti o ferrovieri occupati; eccetera. Oppure, nel caso che si voglia comunque spendere solidaristicamente più di quanto si ha, maggiore debito pubblico o inflazione più alta. E bisognerebbe anche sapere, quando si sente parlare con qualche malcelata nostalgia delle «conquiste sociali» dei regimi anticapitalistici, come si continua a sentire nel caso della dissolta Ddr, che quelle conquiste (il lavoro, o meglio il posto di lavoro, per tutti, la scuola gratuita, l’assistenza sanitaria generalizzata ecc.) sono state pagate con la bancarotta di una intera collettività, cioè con una tragedia materiale e psicologica immane. Per restare dalle nostre parti, si affaccia oltretutto un sospetto, e piuttosto maligno per giunta: che dietro il termine che oggi viene speso sul mercato politico come «solidarietà» si nasconda più concretamente quell’intrico di pratiche che è servito soprattutto ad acquisire – a comprare – il consenso dell’elettorato: le erogazioni clientelari, la tutela dei posti di lavoro nelle aziende pubbliche non competitive, le pensioni di invalidità accomodanti, le assunzioni per simpatia e appartenenza politica, il rigonfiamento corporativo degli organici. E se questo sospetto fosse vero, significherebbe che gran parte dei lamenti orchestrati dai partiti italiani contro «lo smantellamento dello stato sociale» (come si è sentito non di rado durante l’azione del governo Amato, perfino da parte delle forze politiche che lo appoggiavano) erano più che altro l’espressione del disagio di chi si vedeva togliere di mano gli strumenti che permettevano di controllare i voti. Distribuire la povertà Una delle ultime elaborazioni coerenti e politicamente impegnative del principio di solidarietà fu argomentata in Italia dall’entourage rodaniano di Enrico Berlinguer. Nell’Italia degli anni Settanta, mentre serpeggiava l’idea che la società industriale fosse giunta al suo termine e la linea dello sviluppo capitalistico si fosse spezzata per sempre, la visione di una società «austera», preoccupata di distribuire equamente la povertà, poteva avere un suo fascino: ma era un fascino insidiosamente aristocratico, alimentato da una profonda sfiducia nelle capacità collettive e individuali di trovare una strada che riportasse verso lo sviluppo. Presupponeva una società immobile e propensa ad accettare la propria immobilità, portata alla rinuncia più che alla promozione di se stessa. Inutile dire che questa concezione di sapore millenaristico, che esasperava l’eguaglianza fino a darle un senso implicito di tendenziale coazione collettiva, era ancora il frutto di una concezione «progettuale», pianificatoria, della realtà sociale. Ma perlomeno additava un obiettivo sociale che metteva nel conto un sacrificio da parte di alcuni a vantaggio di altri. Si svolgeva insomma ancora nell’ambito di un calcolo economico, per quanto applicato a una realtà ritenuta statica, formulando le condizioni di una redistribuzione molto profonda delle risorse disponibili. Di fronte a un’ipotesi del genere, si poteva ricordare che immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, in un’Inghilterra drammaticamente impoverita dal conflitto, i programmi lanciati dal partito laburista si opponevano alle proposte di equidistribuzione della povertà, e scommettevano con un certo eroismo su una traiettoria di sviluppo, sottolineando che il vero problema era quello di prepararsi a gestire volumi crescenti di ricchezza. Invece, solo chi è legato alla visione di una realtà sociale stazionaria può pensare che il compito della politica consista nel ritagliare quote uniformi delle risorse e distribuirle egualitariamente. Oggi invece, tramutatasi in una parola passe-partout, nell’eco di una religione sclerotizzata, la solidarietà è diventata una pura essenza, patrimonio di tutti e mai verificata sul registro delle compatibilità. Si dice solidarietà e si intende in concreto stato sociale, sembra di capire: ridotto ai minimi termini, il discorso consiste nell’accettare consapevolmente una riduzione del proprio reddito al fine di allestire gli strumenti per alleviare le occasioni di disagio dei più deboli. Se fosse così, ci sarebbero ben poche poche obiezioni da mettere in campo. Obiezioni quantitative, da un lato, tese a definire le quote di risorse da impiegare sul totale del reddito, e dall’altro un’obiezione qualitativa e radicale, secondo cui il valore morale del contributo coatto alla solidarietà istituzionalizzata è zero. Un’obiezione che potremo riprendere in seguito – anche se costituisce una sfida fortissima e implacabile – dal momento che potremmo dare per assodato che la nostra adesione a un contratto sociale e politico, mediato dai partiti e dai criteri a cui essi hanno dichiarato si ispirarsi, «comprende» nel suo insieme anche il consenso a politiche di tipo redistributivo, incorpora cioè anche la pratica in cui si concreta la suggestione alla solidarietà. Tuttavia, come è stato dimostrato ampiamente, lo stato sociale può essere discusso anche sotto un profilo strettamente utilitaristico: proprio perché serve in larga misura per mantenere le condizioni di vita di chi lo alimenta e a produrre strutture burocratiche ipertrofiche, vale a dire in quanto sbaglia bersaglio. C’è un esempio sintomatico di come lo stato del benessere venga inteso mediamente come un congegno tautologico, che serve per dare a chi ha dato: nel nostro paese la maggioranza dei percettori di pensione è convinta di avere maturato un diritto attraverso il versamento e la capitalizzazione nel tempo dei contributi previdenziali; e non sa o non vuole rendersi conto invece che la pensione attuale viene pagata da coloro che lavorano adesso. Così come non ci sono diritti sganciati da doveri, l’appello alla solidarietà non dovrebbe mai essere separato da un richiamo stringente alla responsabilità. Altrimenti si potrebbe anche pensare che dietro la retorica sul malessere e sulla povertà degli altri si nascondano assai meno nobili riflessioni sull’interesse proprio. Dovremmo avere imparato che, di solito, i più enfatici discorsi pronunciati per conto terzi (per gli operai, per i disoccupati, per gli immigrati … ) costituiscono uno dei più tradizionali strumenti di imprenditoria politica. Se vogliamo parlare di solidarietà, parliamone pure, ma sarà opportuno riconoscere in parallelo che essa non risiede solo in una serie di procedure meccaniche di redistribuzione del reddito. C’è sempre qualcuno più solidale C’è un brusio vagamente «cattolico», comunitario, quasi ecclesiale, nella parola solidarietà, al punto che risulta suggestivamente ironico che il termine sia divenuto l’ultima bandiera dei partiti ex comunisti o ancora comunisti e comunque «di sinistra». Ma, se è lecito opporre retorica a retorica, questa solidarietà secolarizzata, che viene cristallizzata nelle pieghe indurite dello stato sociale, è in realtà la parodia di una solidarietà autentica. L’atteggiamento solidale presupporrebbe una vicinanza concreta fra le persone, un faccia a faccia fra chi dà e chi riceve. Folle di professionisti in prestigiose località di villeggiatura, che ingorgano di fuoristrada le vie d’accesso alla preziosa località di villeggiatura, possono dirsi fautori della solidarietà perché pagano le tasse, se le pagano, e magari votano a sinistra? Si può parlare di solidarietà sdraiati sulla propria barca a Capalbio? Certamente, dal momento che se ne parla, e che anzi richiamarsi a essa diventa un principio di affinità politica, di reciproco riconoscimento e di riassicurazione sugli scopi ultimi dei propri programmi. Ciò nonostante è una solidarietà «orizzontale», priva di qualsiasi impegno vincolante. Si versa il dovuto allo Stato, e quello provveda a mantenere i disgraziati che non hanno di che vivere. Loro, i disgraziati, altrimenti definiti con degnata magnanimità «i più deboli», facciano però il piacere di non disturbare. Il massimo di solidarietà espressa a parole consiste insomma in una meccanizzazione redistributiva, macchinosa e impegnativa nelle procedure ma assolutamente disimpegnata sotto il profilo del coinvolgimento dei singoli. Non si vede con chiarezza in che cosa consista il valore umano o spirituale dell’accettare un prelievo fiscale da destinare alla redistribuzione. Lo si potrebbe accettare anche per motivi assai meno sentimentali e più «egoisti», ad esempio per uno striminzito calcolo di convenienza: è interesse di molti, infatti, che il disagio e l’infelicità di alcuni non turbino l’agiatezza soddisfatta di tutti gli altri. E quali sono le ragioni che inducono i paesi sviluppati a inviare dollari nel Terzo Mondo? Sono tutte riassumibili sotto la voce della generosità? Quando sfumano i punti di riferimento, riemergono gli echi di parole e sentimenti difficili da descrivere e altrettanto difficili da declinare. I valori, gli ideali. Ma si vorrebbe sapere quale contenuto di moralità posseggano i valori e gli ideali se non sono integrati in un contesto di compatibilità. Promettere enfaticamente una società «più giusta» non costa nulla, tanto più che il mio avversario politico potrà facilmente prometterne un’altra ancora più giusta, innescando una rincorsa potenzialmente senza fine. Alla fine di questa spirale velleitaria, non rimangono valori, non c’è una gerarchia o un equilibrio di diritti e doveri, c’è soltanto il vuoto delle parole a cui è stato sottratto il loro referente concreto, un «grande sogno» spogliato dei suoi caratteri di realtà a cui chiunque può opporre un sogno ancora più grande. Da qualche tempo, il dibattito sui temi politico-sociali in Italia si appoggia come una deriva ineluttabile ai pronunciamenti della Chiesa cattolica e dei suoi esponenti. Allorché papa Wojtyla negli Stati Uniti lancia il suo messaggio quasi visionario contro una struttura di scambi che conterrebbe l’umiliazione dell’uomo, oppure quando in Lituania estrae dai sedimenti melmosi della politica effettuale del regime comunista, con il gesto trionfale del vincitore sullo sconfitto, il «nocciolo di verità» del marxismo, questo diviene l’occasione per clamorosi titoli di giornale. In altri tempi, più rozzi e ineducati, il profetismo papale sarebbe stato rapidamente passato in giudicato come una copertura simbolica, una fuga atemporale, un alibi, un atteggiamento teso a riscattare sul piano della retorica quella che una volta veniva considerata una sostanziale acquiescenza della Chiesa ai processi capitalistici. Oggi, solo una colpevole grossolanità culturale potrebbe individuare nelle visioni di Giovanni Paolo II il pendant verbale all’atteggiamento pratico di una Chiesa che invece affida le sue chances politiche al doroteismo del cardinale Ruini. In realtà, l’atteggiamento della Conferenza episcopale rispetto, per dire, alla Dc, la difesa strenua di un modesto e residuale strumento secolare dell’unità dei cattolici, è molto meno rilevante rispetto alla tonalità dei messaggi che la Chiesa manda all’intera società italiana sui problemi concreti. Potrà interessare alla Curia, ai circoli vaticani, all’establishment democristiano. Allorché il vescovo di Modena, monsignor Santo Quadri, sponsorizza con parole molto sentimentali il tema cislino della redistribuzione del lavoro («lavorare meno per lavorare tutti»), non solo offre argomenti pesanti a una concezione esclusivamente difensiva del lavoro e dell’occupazione, ma offre l’imprimatur ecclesiastico a un messaggio che si rivolge a tutta la collettività italiana. E questo vale a ragione ancora maggiore per la posizione assunta da monsignor Agostino sul caso dell’Enichem di Crotone. Gli argomenti messi sul terreno sono sempre riconducibili in ultima istanza alla deprecabilità di un sistema che collocherebbe al primo posto della scala di valori il profitto. Conta poco che in realtà il profitto non ci sia affatto, e che il capitalismo di Stato sia in molti casi un generatore di perdite: ciò che importa è segnalare un’entità ostile verso cui indirizzare immediatamente le più accorate deplorazioni e indicare retoricamente una prospettiva su cui è possibile far convergere meccanicamente una vastissima gamma di consensi. Eh no, troppo facile. Allo stesso modo in cui dopo anni di strepiti contro il consumismo si è subito passati al lamento per il cedimento del consumo. Troppo facile prima di tutto perché nelle recriminazioni contro il profitto (questo profitto fantomatico di cui permarrebbero i metodi anche in assenza dei risultati) scompare qualsiasi coscienza della durezza, della necessità intrinseca nel processo economico, delle molteplici e vincolanti responsabilità a cui dovrebbero attenersi tutti i soggetti iscritti nel circuito dell’economia. E troppo facile, corrivo, manipolatorio anche in quanto, così facendo, si accredita surrettiziamente l’esistenza di due entità separate, un «noi» solidale e preoccupato degli altri, e un «loro» costituito da individui misteriosamente uniti nella mistica del profitto e in suo nome disposti a ogni accanimento, anche il più irragionevole, contro l’uomo. Se vuole il cielo, il mondo non si divide in un regno delle fate e nel covo del male. Non ci sono nemici invisibili, burattinai che per sadismo tirano i fili di un maleficio contro gli infelici. Eppure, è proprio questo schema che viene fatto passare. Si afferma e si stabilisce un’oggettiva opposizione fra i sostenitori della solidarietà e tutti gli altri. E a questo punto dovremmo essere daccapo: perché in un momento successivo, alorché la misura della solidarietà dovrà trovare una sua articolazione politica, le gradazioni della solidarietà risulteranno necessariamente infinite. Se tutti siamo solidali, le differenze fra noi verranno scandite esclusivamente dal livello di intenzioni solidaristiche che siamo propensi a proclamare: io sono solidale con i disoccupati, ma io sono solidale anche con gli immigrati, io di più, sono solidale con i reclusi, gli ammalati, i tossicodipendenti, i segregati, in una iperbole solidaristica il cui destino, in fondo, è di gonfiarsi in una grandissima bolla di parole, che aumenta prodigiosamente di volume più vi si soffia dentro fiato, e la cui sorte probabile, anzi inevitabile, è di dissolversi in una iridescente pioggerellina fatta di niente. Che importa, avremo altri devianti, marginali, dropouts, a cui ammannire il miracolo così a buon mercato delle bolle di sapone, altri solerti cultori dell’ideale capaci di mostrare come realtà di un domani migliore la lievissima superficie in cui si riflette in colori brillanti un mondo più giusto e il cui contenuto, purtroppo, è aria. Povertà delle ricette Viene da chiedersi a che cosa siano servite tutte le discussioni, molto pensose e molto partecipi, sull’enciclica Centesimus Annus (emanata nel 1991 a un secolo dalla Rerum Novarum), nella cui trama si coglievano facilmente i contributi di riflessione degli economisti cattolici: l’accento posto sul ruolo dello Stato soltanto in funzione «sussidiaria», come strumento di armonizzazione e guida dello sviluppo, esercitante una funzione di «supplenza» di fronte ai fallimenti del mercato, alla presenza soffocante di concentrazioni monopolistiche o all’inadeguatezza di settori industriali in via di formazione; e soprattutto l’accettazione esplicita del profitto come indicatore di efficienza, il riconoscimento che al cuore dell’impresa devono esserci capacità d’iniziativa e imprenditorialità. D’accordo, l’economia non è tutto, e la riduzione economicistica dei processi sociali è un peccato di determinismo. Tuttavia, il rispetto di alcuni criteri di fondo dovrebbe essere richiesto come base per qualsiasi confronto. Altrimenti, di fronte a ogni nuovo «caso Crotone», si assisterà alla replica dello sketch delle due fazioni, l’una che chiederà il rispetto, occhiuto ancor più che rigoroso, dei vincoli di bilancio, estremizzando le proprie concezioni fino a renderle un inevitabile bersaglio polemico, l’altra che sposerà ogni genere di protesta nel nome del solidarismo più vaniloquente. Nel mezzo, gli operai veri, che talvolta vengono presi da un disperato mutismo, e assistono senza reagire alle più rocambolesche operazioni di ristrutturazione industriale, e talvolta invece precipitano in una parodia delle parole d’ordine che raccolgono qua e là, sostenendo per esempio di essere contro l’assistenzialismo ma di volere nello stesso tempo il mantenimento di posti di lavoro in disastrosa perdita; che «lottano» per ottenere il rilancio di un’azienda fallita e contemporaneamente distruggono strutture, magazzini, centri direzionali provocando danni per miliardi. Dovremmo sapere che non esiste una ricetta di parte per la soluzione dei problemi materiali delle collettività. O meglio: esistono ricette a tempo, da verificare e da cambiare quando cominciano a rivelarsi insoddisfacenti. Tutte, però, le ricette suddette, almeno in teoria sono iscritte in un quadrante di compatibilità. Il ciclo keynesiano prevedeva da un lato l’aumento della spesa pubblica, il deficit spending, come leva per sostenere l’occupazione, e quindi la domanda, e quindi la produzione, affinché in un secondo tempo all’incremento del reddito complessivo conseguisse un aumento dell’introito tributario per riportare lo Stato in pareggio. L’economia sociale di mercato, cioè l’invenzione istituzionale di Ludwig Erhard nella Germania di Adenauer, vincolava il mercato alla socialità, e dunque incorporava la solidarietà diffusa in un calcolo economico stringente. Potrà apparire mediocre, a questo punto, riproporre soluzioni parziali, pallidamente miglioratrici, approssimazioni imprecise ed empiriche. Eppure, così come non è accettabile che qualsiasi discussione sui problemi concreti, storicamente accertabili, immanenti alla sfera delle scelte e decisioni quotidiane, venga risolta attraverso la retorica di un common sense solidarista, che non paga pedaggi e rinvia ogni soluzione nell’infinito del mondo più buono secondo la consumatissima tecnica del benaltrismo, allo stesso modo non c’è nessuna ragione per accettare a priori le formule più taglienti degli idéologues del liberismo. E non perché banalmente in medio stat virtus. Ma più propriamente perché l’intransigenza dei fautori più estremi della Mano invisibile è una semplice posizione di parte, comprensibile fin che si vuole, talvolta elaborata in modo provocatoriamente elegante, ma niente affatto assolutizzabile. La faziosità intellettuale, che talvolta assume un aspetto di straordinaria eleganza, si può accettare soltanto se non pretende di essere verità universale. Difficilmente capiterà di osservare una persona appartenente a un ceto inferiore inneggiare al libero mercato, alla mobilità del lavoro, alla privatizzazione dell’economia, alla bellezza intrinseca del rischio. Sarà molto più facile sentirla chiedere protezione, tutela, assistenza, sicurezza. Dicendo questo, forse si potrà cogliere la dimensione più sostanziale dell’intera questione: la solidarietà, così come la sua negazione, è un tema essenzialmente politico. Sottoposto quindi in modo vincolante alle regole della politica. E nell’arena politica non possiamo immaginare semplificatoriamente che ci siano a un estremo ringhio si assertori della libertà economica e all’estremo opposto un volgo neghittoso che chiede con proterva spensieratezza dissipazione e indebitamento. Dobbiamo pensare piuttosto a un campo di forze in cui collidono interessi e si contrappongono idee, in una tensione continua di alterazioni e di mutamenti in cui l’equilibrio non è mai dato una volta per tutte. Se non si intende capire questo, si perde di vista un aspetto decisivo: e cioè il nucleo di reale drammaticità che è intrinseco alla vita sociale, incluso, naturalmente, l’aspetto economico. Drammaticità che va rispettata, compresa, assunta a problema dell’agire politico. Raccontare a un operaio sulla via della disoccupazione che non è la sua posizione individuale quella che conta, bensì il sublime e vertiginoso attuarsi degli scambi nell’economia di mercato è qualcosa che aggiunge al danno materiale la beffa intellettuale. Ma illustrargli che la perdita del suo posto di lavoro dipende da maligne intenzioni e oscure manovre di chi pensa solo al profitto, alla struttura perfida dell’economia di mercato, e poi andare sulle piazze per lanciare il più vibrante degli appelli alla solidarietà, non è un’infamia minore. Proprio perché abbiamo la consapevolezza che la drammaticità delle esistenze individuali e del vivere collettivo è un dato ineliminabile, ne dovrebbe discendere l’obbligo a non usare, se non in casi estremi e con estremo pudore, la parola solidarietà. Poiché ci accorgiamo in ogni momento, anche senza ricorrere a filosofie sull’umanità, che la solidarietà non è un impulso innato, non è un imperativo morale accettato a priori, non è una legge etica immediatamente condivisibile, l’unico modo per paterne parlare è scomporla, suddividerla in una serie di azioni politiche: considerarla, e non sembri paradossale, non un fine, bensì un mezzo1 . Anzi, un insieme di mezzi determinati politicamente, conformati in base alla contrattazione fra le parti in causa, costruiti per improntare un certo equilibrio sociale in un certo modo. Declamare la necessità di una società solidale non serve a niente, se non-a creare aspettative quasi sempre fallaci, e quindi intimamente responsabili di frustrazioni e infelicità successive. Ciò che serve, è la disponibilità a specificare con quali strumenti, e in vista di quali obiettivi, nelali regole si intende agire politicamente per approssimare l’equilibrio sociale che si dichiara di volere. Non sarà la soluzione, ma è comunque un criterio che dovrebbe essere consegnato all’opinione pubblica e al suo giudizio: offrendole in definitiva la possibilità di discernere quanto è pesantezza intrinseca della realtà e ciò che è il tradimento, di quella realtà – con il suo nucleo di dolore – espresso e praticato attraverso un lieve flatus vocis. Note 1 Dopo avere scritto questo articolo, trovo la stessa espressione nel recentissimo pamphlet di Sergio Ricossa, I pericoli della solidarietà, Rizzoli, 1993, p. 103. Il contesto, come forse si può intuire, è diverso. Composto di dodici «epistole sul dosaggio di una virtù», il libro di Ricossa è un divertissement basato sull’emendamento proposto da Milton Friedman per la Costituzione americana: «Ciascuno è libero di fare del bene, ma a sue spese», e in cui l’aspetto paradossale è al servizio di un individualismo portato all’estremo che risulta alla fine semplificatorio.

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