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Due Italie, forse. A proposito delle elezioni del 9-10 04

03-04 2006

Il laboratorio politico italiano continua a lavorare a pieno ritmo, aprendo scenari in direzioni sempre nuove. A cinque anni dalle elezioni del 2001 l’approdo a una sorta di normalità bipolare appariva evidentemente troppo banale. A queste elezioni siamo arrivati, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, al termine di una legislatura che aveva visto al governo una sola maggioranza, un solo presidente del Consiglio, un solo esecutivo, salvo alcuni avvicendamenti dovuti a vicissitudini e infortuni personali o a tensioni interne alla maggioranza. Con il favore dei risultati delle elezioni di mezzo termine (regionali e amministrative) e ritrovato il suo leader in Romano Prodi tornato da Bruxelles, il centrosinistra si è attrezzato per darsi una più compiuta architettura attraverso le primarie, che avevano il duplice compito di conferire un’investitura al leader e di far avanzare il progetto del partito democratico. Solo che nel frattempo le regole del gioco erano cambiate. La prospettiva di una sconfitta infatti aveva convinto Berlusconi a varare una riforma del sistema elettorale pensata su misura per annullare il vantaggio competitivo di cui godeva il centrosinistra (la preminenza dei suoi candidati nei collegi uninominali). Il leader che prima e più degli altri aveva compreso le potenzialità del «Mattarellum», realizzando in due mesi il capolavoro della discesa in campo e della vittoria del 1994, scopriva i vantaggi del proporzionale, lo presentava come il sistema elettorale meno bugiardo, apriva l’opportunità di un ulteriore proliferare di liste e affidava la prospettiva di governare a un esile premio di maggioranza alla Camera, associato alla lotteria dei diciassette mini-premi regionali al Senato. Si segnalava poi, a rendere più variato il menù, la novità assoluta del voto degli italiani all’estero, destinata a provocare qualche sorpresa, come si sarebbe visto. Dopo una campagna elettorale attraversata da un’intensità polemica che il nostro Paese e l’intero sistema politico sembrava avere dimenticato, l’esito è stato un’affermazione risicatissima dell’Unione di Prodi, conseguita al Senato proprio con la pattuglia degli italiani d’oltralpe e d’oltreoceano, e alla Camera con 25 mila voti di scarto, che valgono il tesoro dei 340 deputati garantiti dal premio di maggioranza. Si apre così una nuova fase dell’infinita transizione, quella di una maggioranza omogenea nelle due Camere, ma con soli quattro seggi di vantaggio nella Camera alta: prospettiva ben distante dalle attese della vigilia e davvero ardua, vista l’assoluta necessità di un esecutivo e di una maggioranza capaci di governare la difficile congiuntura in cui versa il Paese. Il primo aspetto da considerare è quello della partecipazione. In termini relativi la partecipazione è cresciuta, dall’81,4% all’83,6%. Al momento della chiusura dei seggi il dato è stato interpretato come l’interruzione di una tendenza negativa ormai decennale e un successo della mobilitazione berlusconiana delle ultime settimane. In realtà il dato relativo alla partecipazione è ancora più rilevante, e costituisce il cardine intorno a cui ruota tutto l’esito della competizione, oltre che l’origine della clamorosa smentita dei vaticini dei sondaggi. Infatti rispetto al 2001 gli elettori iscritti alle liste erano oltre due milioni in meno. Gli aventi diritto al voto quest’anno 47.258.305, contro i 49.256.295 del 2001. Dunque le liste del 2001 erano appesantite da cittadini defunti e trasferiti, per cui la percentuale di votanti sopra riportata sottostimava l’effettiva partecipazione alle urne. Ma l’aumento della partecipazione non è affatto un fenomeno statistico, da ricondurre solo alla bonifica delle liste. Il dato chiave può essere meglio espresso dai numeri assoluti: si sono registrati oltre 850 mila voti validi in più rispetto a un corpo elettorale ridotto di circa due milioni. Merito della facilità della nuova scheda, che ha ridotto a un terzo le schede non valide; ma non è da sottovalutare la chiarezza cristallina della posta in gioco, dal momento che non per caso si è parlato di referendum. Quindi sono andati a votare anche cittadini che non c’erano mai andati negli anni precedenti, e ha scelto un simbolo sulla scheda anche chi prima non riusciva o non voleva dare un’indicazione di voto valida. Se si perde di vista questa drastica riduzione dell’area del non voto non si può poi comprendere il quadro dei risultati, che attesta un aumento di voti sia per la Casa delle libertà, sia per l’Unione. La prima è passata da 18.542.209 voti a 18.976.4601; la seconda è cresciuta in maniera molto più consistente, balzando da 17.313.836 voti nel 2001 a 19.001.684 il 9-10 aprile scorso. In termini percentuali ciò significa che le due coalizioni hanno conseguito il 49,73% e il 49,80%, lasciando alle altre liste non apparentate la miseria di 170.000 voti, pari a meno di mezzo punto percentuale. Nel caso del centrodestra è avvenuto un evidente travaso interno di voti. Forza Italia perde quasi due milioni di voti che vanno a vantaggio degli alleati storici, in particolare dell’Udc, che passa da poco più di un milione di voti a oltre due e mezzo. La Lega guadagna 300 mila voti mentre An risulta l’alleato meno avvantaggiato, con un contenuto aumento di poco più di 200 mila voti. Nettamente inferiore il contributo offerto dalle liste minori, nessuna delle quali si avvicina ai 300 mila voti. Nel complesso dunque Forza Italia perde vistosamente rispetto allo spettacolare risultato del 2001 (29,4%), drogato dalla «cannibalizzazione» degli alleati, peraltro ampiamente risarciti in anticipo a suon di seggi maggioritari. Il partito equivale ancora all’insieme dei tre alleati, e il Cavaliere mantiene saldamente nelle sue mani il ruolo di capo della coalizione, non solo in forza dei numeri, pur in calo, ma soprattutto per il merito esclusivo di aver mobilitato come mai prima l’elettorato d’area (su questo tema ci soffermeremo più avanti). Nel centrosinistra la crescita del numero assoluto dei voti è stata particolarmente elevata. Anche se tutti i radicali e i dipietristi avessero confermato nel 2006 la scelta del 2001, i voti al centrosinistra avrebbero superato di poco, come si è visto, i diciassette milioni. Dunque è innegabile il grande successo conseguito da Prodi rispetto alle condizioni di partenza, successo che segue quello conseguito sull’altro, ma altrettanto rilevante, piano delle primarie. Viene da dire che era effettivamente difficile fare di più. Più complessa invece appare l’articolazione interna del voto tra i diversi alleati. La lista-cardine dell’Ulivo ha ottenuto un risultato a prima vista buono ma non entusiasmante: alla Camera la crescita della lista unitaria rispetto ai voti che Ds e Margherita avevano conseguito nel 2001 è stata inferiore ai 400 mila voti (+0,2% sui voti validi), riproducendo a distanza di due anni lo stesso risultato delle europee del 2004 (10.092.499 voti, pari al 31,08%)2. A uno sguardo più ravvicinato gli indizi sono di segno positivo: nel 2004 erano confluiti nella lista Prodi anche i socialisti di Enrico Boselli e i repubblicani europei; inoltre – e soprattutto – il 9 aprile la lista dell’Ulivo ha conseguito più voti della somma di Ds e Margherita al Senato (31,3% contro 28,2%) – a riprova che la spinta unitaria ha un effetto significativo in termini di attrazione del consenso3. Giova inoltre ricordare che la neutralizzazione del «Mattarellum» mediante il «Porcellum» (greve quanto eloquente appellativo coniato dall’onorevole Calderoli per designare il proporzionale corretto) aveva anche lo scopo di rendere difficile il decollo di una lista unitaria dell’Ulivo, scopo perseguito eliminando del tutto gli incentivi all’aggregazione. Dunque i dirigenti del centrosinistra non possono che insistere sull’unica prospettiva di ampio respiro che le condizioni della politica italiana impongono: la costruzione di una sinistra riformista che sia in grado di colmare il vuoto di governo che il centrodestra ha clamorosamente lasciato. Accanto all’Ulivo, si segnala il successo di Rifondazione comunista, che è arrivata oltre il 7% al Senato e quasi al 6% alla Camera. Segue poi il quartetto del 2%: una soglia che premia Verdi e Comunisti italiani ma quasi dimezza L’Italia dei valori. La Rosa nel pugno costituiva in partenza una delle più rilevanti novità di questa campagna elettorale. La costituzione di una forza che fondava la sua proposta sull’appello alla laicità sul piano dei valori costituiva una risorsa preziosa per l’Unione, se non altro perché era in grado di intercettare i transfughi dalla componente laico-radicale di Forza Italia, mortificati dallo strumentale spostamento imposto da Berlusconi su posizioni più conformisticamente consonanti con il mondo cattolico. Il risultato non è stato particolarmente positivo, nonostante l’alleanza con i socialisti di Boselli (991 mila voti, pari al 2,6%): solo 150 mila voti in più rispetto al 2001, quando la Lista Pannella-Bonino si era presentata fuori dai poli. Occorre però segnalare, come commento conclusivo di questa breve panoramica dei risultati elettorali, che lo spirito del tempo non è particolarmente favorevole alle posizioni più laiciste e libertarie. Il clima di disorientamento, insicurezza e paura che si respira in questi anni non può essere velleitariamente ignorato nell’elaborazione dell’agenda politica – magari per andare incontro a inutili sconfitte, come avvenuto nel caso del referendum sulla fecondazione assistita, con il risultato di consolidare le posizioni avverse. Al contrario, le condizioni in cui è maturata la risicata vittoria elettorale della sinistra dovrebbero costituire un caveat da non perdere di vista neppure per un attimo. Gli avversari, agguerriti e ricchi di intelligenza e di risorse, sono lontani solo poche migliaia di schede. Eppure le premesse delle elezioni dell’aprile 2006 sembravano del tutto diverse, così come le aspettative sui risultati. Reduce da alcune consultazioni elettorali intermedie che avevano registrato vistosi se non plateali insuccessi, la Casa delle libertà sembrava essersi acconciata all’idea di subire una sconfitta netta. La legislatura era stata segnata dal trauma del siluramento, nel luglio 2004, della più importante personalità di governo, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Tutti i sondaggi pre-elettorali mostravano un differenziale netto fra le due coalizioni, a vantaggio dell’Unione. Le élite economiche e intellettuali avevano da tempo decretato il loro pollice verso. Insomma, viene quasi da dire, in sintesi, che un Paese largamente immaginario e convinto delle proprie immaginazioni aveva decretato a priori la sconfitta del centrodestra. C’è voluta una forza quasi disumana, da parte di Silvio Berlusconi, per tentare una rimonta a cui nessuno credeva, cercando di parlare a un Paese reale. Partiva indubitabilmente da una posizione cattiva, nel riconoscimento largamente condiviso, soprattutto nei ceti culturalmente più consapevoli, di un serio fallimento politico. Ha dovuto inventare uno scarto di lato, che gli consentisse di imporre all’opinione pubblica i temi che aveva scelto e su cui era convinto di poter produrre la mobilitazione dell’elettorato, e di drenare consenso anche in quelle categorie di cittadini che con il voto amministrativo avevano ripetutamente espresso delusione nei confronti del suo governo. Fra le tecniche della politica populista ce n’è una che gli scienziati politici (fra cui un classico come William Riker, Liberalismo contro populismo) definiscono «manipolazione dell’agenda». Funziona più o meno così. Si presenta un programma elettorale, dopo di che si selezionano i temi giudicati soggettivamente più rilevanti, che vengono imposti in via propagandistica all’opinione pubblica, e su cui alla fine si chiede il giudizio degli elettori (è la tecnica usata, come si intuisce, con il Contratto con gli italiani). Ciò consente di spedire in secondo piano una larga serie di punti programmatici controversi. Tanto per esemplificare, a molti pendolari non importa granché delle grandi opere, se i trasporti normali sono degradati; qualcun altro giudica la riforma unilaterale della Costituzione qualcosa di molto più rilevante e meritevole di riflessione del taglio delle tasse; altri ancora pensano che il ritorno al sistema proporzionale sia un attacco cinico alla tenuta del Paese, e guardano invece con sufficienza o diffidenza alle promesse (peraltro non mantenute) sulla riduzione dei reati. L’abilità spettacolare di Silvio Berlusconi è consistita proprio nel portare la discussione pubblica sul terreno scelto da lui. Sulle 36 riforme prodotte dal suo governo, e sui 1.700 provvedimenti approvati dal Parlamento nel quinquennio, come se fosse importante il numero delle leggi e non la loro qualità, il loro varo legislativo e non la loro attuazione concreta. Ad esempio, è difficile non giudicare regressiva la riforma della scuola realizzata dal ministro Letizia Moratti, senza aggiungere che è sufficiente entrare in un qualsiasi istituto scolastico per osservare in quali condizioni deve lavorare un insegnante di buona volontà. Ma questa mossa del cavallo non era sufficiente: non bastava distogliere l’attenzione dai risultati del governo, occorreva qualcos’altro, qualcosa di più spettacolare e mobilitante. Berlusconi non poteva più promettere prodigi, viste le condizioni degradate in cui versano l’economia italiana e i conti pubblici, e quindi ha deciso di investire tutte le sue risorse, simboliche e mediatiche, sull’idea di due società messe l’una contro l’altra, che si fronteggiano in nome di valori, culture e interessi del tutto antagonisti. Due Italie, insomma, separate da un sospetto e addirittura un’animosità addirittura impensabili per chi ha in mente un Paese deideologizzato, secolarizzato politicamente. In un parola «moderno». Chi ha ascoltato qualche discorso di Berlusconi durante la campagna elettorale non può non essere rimasto colpito. Secondo il lessico fluviale del Cavaliere, Romano Prodi, anzi «il signor Prodi», è un poveraccio, e Piero Fassino potrebbe fare «il testimonial delle pompe funebri». Francesco Rutelli è stato definito «il miglior dei peggiori», con l’accento sui peggiori. L’attacco anche personale alla sinistra, ai portatori di «miseria, terrore e morte», è stato incessante. Inoltre si è potuto assistere a diversi exploit del leader estremista ed estremo, spesso nella parte dello scalmanato, del Masaniello irridente, del capopopolo che esaspera fino al grottesco i sentimenti del popolo o al popolo attribuiti, li eccita, li aizza, li lancia in orbita nel cielo azzurro dell’ideologia «forzaleghista» e alla fine contempla lo spettacolo con evidente soddisfazione. Osservata dal vivo, la veemenza berlusconiana, con le accuse, le spiritosaggini, le irrisioni verso gli avversari politici, una sorta di Quarantotto carnevalesco, rivelava che il capo della Casa delle libertà aveva abbandonato le sue incarnazioni precedenti. Non era più l’uomo d’ordine, l’imprenditore, il liberale, il seguace di don Sturzo, e certamente non il moderato suadente che parlava ai suoi affini. Si era definitivamente calato nei panni dello sfasciatutto, cioè dell’uomo che lacera le convenzioni, e il cui scopo sembrava in primo luogo quello di produrre provocazioni: il clamoroso «sei un coglione» rivolto allo studente genovese che inneggiava ironicamente allo stalliere mafioso Vittorio Mangano; poi la continua aggressione a magistrati, giudici e Legacoop, quest’ultima accusata di complicità con la mafia e di impunità garantita dalle toghe rosse. Infine, l’accusa di «coglioneria» a chi vota per il centrosinistra facendo il proprio «disinteresse». Sulle prima l’accanimento ossessivo con cui Berlusconi ha ricominciato a scagliarsi contro il comunismo e i comunisti è stato giudicato un atteggiamento di maniera, quasi la ripresa anacronistica di un leitmotiv che aveva avuto fortuna nel passato ma che nel 2006 appariva ai limiti della bizzarria. Ma a mano a mano che il confronto politico si intensificava, e che la competizione fra i due schieramenti diventava più violenta, si è cominciato a capire che lo strumento dell’anticomunismo era tutt’altro che un arnese fuori tempo. Infatti, sventolando quella vecchia ban diera il capo di Forza Italia riusciva a innescare nuovamente un sentimento identitario nella sua base militante, propugnando quella strana combinazione di liberalismo e populismo che riscuote un visibile successo nelle file del «popolo forzista». Quindi ha ripristinato la sua formula più classica e apparentemente infallibile: «noi» contro loro, contro i comunisti, ossia un manicheismo che investe e anzi specula sulle fratture della storia politica italiana. È venuto nell’Emilia profonda è dopo avere visto all’orizzonte un tipico tramonto padano ha ironizzato sul fatto che «qui perfino il sole è rosso»; ha ripetuto alcune accuse sugli intrecci fra giunte rosse e cooperative. Ha ripetuto una trovata non priva di genio, il «pentagono rosso», con le sue ombre e risonanze misteriche, che disegna geometrie inquietanti di poteri intrecciati fra dirigenti della sinistra, giunte locali, magistrati. Con un colpo di teatro, a Napoli ha affascinato il suo pubblico raccontando la storia dei comunisti cinesi che bollivano i bambini. Infine ha riaperto con un enorme fracasso la partita contro la procura di Milano. Tutto questo non sarebbe bastato a recuperare consenso in quella fascia di elettori che nelle tornate elettorali precedenti avevano espresso in qualche forma la disillusione per l’azione del governo. E qui allora c’è stato un salto di qualità, vale a dire l’inserzione nel discorso pubblico della questione fiscale. Non è sembrata una manovra programmata: Berlusconi si è quasi trovato in mano l’arma fiscale, regalatagli dall’Unione, e ha cominciato a usarla. Quando ha visto che sfondava, l’ha adottata come strumento strategico della sua guerra. A un certo punto della sua furibonda campagna, Berlusconi è riuscito così a fare interagire due paure: la paura dei «comunisti», valorizzando in modo quarantottesco una frattura storica e psicologica che evidentemente si fa ancora sentire nella cultura e nella psicologia degli elettori, e la paura del «furto socialista », cioè la redistribuzione del reddito attraverso il regime fiscale. Agli occhi di un’Italia che segnala un «egoismo pauroso e impaurito» (come ha scritto sul «manifesto» Rossana Rossanda subito dopo le elezioni), Berlusconi è apparso come il campione della gramsciana «plebe borghese», richiamando alle urne il popolo delle partite Iva, dei piccoli imprenditori mobilitati in chiave anticonfindustriale, contro i poteri forti, contro i salotti buoni, contro l’aristocrazia industriale e gli establishment più sofisticati. Non si è limitato a correre a Vicenza, a un convegno della Confindustria, per riprendersi con un colpo di teatro i «suoi» imprenditori. Ha anche chiamato al voto «il figlio del professionista contro il figlio dell’operaio», nel segno di una lotta di classe purissima interpretata in funzione esplicitamente regressiva. Ha evocato le intenzioni redistributive della sinistra come una pratica rivoluzionaria svolta con altri mezzi, chiarendo invece che nella sua interpretazione le tasse sono «il corrispettivo che il cittadino dà allo Stato in cambio dei servizi che lo Stato offre». Si è rivolto all’Italia sommersa. E con questo repertorio, interpretato con convinzione, il premier ha compiuto un’impresa che ha dell’incredibile. Ha convinto metà della società italiana che il Paese si trovava sul crinale di una possibile tragedia, dal momento che l’alternanza politica veniva dipinta come un salto nel buio. Ciò che forse può lasciare sorpresi è che esista davvero un’Italia che ancora considera l’avversario politico come un nemico, e i suoi programmi politico-economici come un attentato alla proprietà. Ma sotto questo profilo Berlusconi è stato aiutato, certo involontariamente, dal centrosinistra. Di fronte all’offensiva berlusconiana, infatti, l’Unione e Prodi hanno barcollato, talvolta reagendo con durezza, ma di solito contemplando con sbalordimento la violenza dell’attacco berlusconiano, e rispondendo con disagio e genericità alle accuse più demagogiche: è passata a livello popolare l’idea che l’Unione volesse tassare addirittura i titoli di stato (non soltanto i capital gain), e gli sbandamenti grotteschi sulla tassa di successione hanno spaventato molti piccoli proprietari, anche perché le fermissime quanto tardive risposte di Prodi, «tasseremo solo i patrimoni sopra parecchi milioni di euro», sono sembrate poco precise, affannate, senza contare che poco prima le ipotesi di tassazione delle successioni avanzate dai diversi esponenti del centrosinistra erano apparse contraddittorie. Ancora: il centrosinistra è perfettamente adeguato per segnalare i guasti pubblici prodotti dal governo Berlusconi, a partire dal bilancio dello Stato; mentre lui in persona è efficacissimo nel descrivere e promettere soddisfazioni private. Il Professore accusava l’azzeramento dell’avanzo primario, entità macroeconomica metafisica; il Cavaliere parlava tutto ispirato della ricchezza individuale, case, auto, telefonini, vacanze. Per rispondere all’offensiva del premier sarebbe stata necessaria una campagna propositiva, mentre le molte pagine del programma dell’Unione contenevano tutto fuorché le sintesi per indicare obiettivi aggreganti. Mentre Berlusconi parlava, e qualche volta gridava, a un Paese reale, Prodi e l’Unione avevano in mente ancora una volta il loro Paese immaginario, sobrio e rispettoso delle regole. La vittoria probabile, anzi sicura, dell’Unione era interiorizzata come un riscatto «etico» dopo la distorsione prodotta dalla Cdl in cinque anni di leggi ad personam e trucchi contabili, senza parlare delle riforme unilaterali come la revisione costituzionale e l’approvazione dello sciagurato «Porcellum», legge elettorale, come si è visto, tagliata su misura (anche se catastroficamente ritortasi contro chi l’aveva progettata e realizzata). Invece, Berlusconi è riuscito a dissolvere la concretezza dei fatti. Ha prodotto, è vero, una quantità enorme di cifre. Ma dentro il cumulo di numeri che ha esposto era difficile trovare un indizio di realtà. Fra il paradiso in terra da lui illustrato e la quotidianità italiana c’è un abisso. Dietro le strabilianti politiche per la scuola dell’età berlusconiana, con i prodigi delle tre «i», e la promessa che i diciottenni raggiungeranno una competenza nell’inglese come se fosse la «seconda madrelingua », c’è la desolazione che chiunque può riscontrare mettendo piede in una scuola qualsiasi, e la constatazione che le ore di lingua straniera sono state ridotte. Il capo del governo è entrato in difficoltà ogni volta che Prodi è riuscito a portare l’attenzione sul terreno dell’economia e dei conti pubblici. Cioè un’area in cui Berlusconi non aveva risposte molto facili e immediate da offrire: non poteva rispondere sullo scialo dell’avanzo primario, e neppure obiettare alcunché sulla crescita zero; così come non era in grado di obiettare praticamente nulla sulla spesa pubblica scappata di mano. Il fatto è tuttavia che il centrosinistra si è trovato di fronte un esercito politico e mediatico che sotto la guida di Berlusconi è riuscito a compiere un rovesciamento. Con un’operazione spregiudicata il capo di Forza Italia ha rifiutato di farsi giudicare sugli anni di governo, e ha organizzato la protesta preventiva contro il «regime» delle sinistre. La farraginosità dell’Unione, le parole in libertà sul tema fiscale, il balletto sconclusionato delle cifre indicate da alcuni dirigenti dell’Unione sulla tassa di successione hanno messo Prodi in una trappola da cui era difficile svincolarsi. Una certa evasività prodiana sulle misure fiscali derivava evidentemente dalla sfiducia nei conti pubblici lasciati da Berlusconi e Tremonti. Quindi la preoccupazione principale del leader dell’Unione consisteva nel proiettare sul futuro, sul dopo-elezioni, la qualità principale che gli viene generalmente: che non è quella del politico, bensì quella dell’uomo di governo. Com’è noto, Prodi è una figura abituata a stare dentro gli establishment, a contatto con le istituzioni, a pensare in chiave di governo. L’esatto opposto di Berlusconi e di molti esponenti della Casa delle libertà: a cui sembra interessare soprattutto il colpo gobbo, il trucco, il tentativo di pareggiare i conti di cinque anni di governo fallimentare con l’asso nella manica giocato in televisione dell’abolizione della tassa sulla prima casa. Per alcune settimane quello di Berlusconi non è apparso il linguaggio di un uomo che si appresta a governare di nuovo il Paese. Anzi: il leader forzista sembrava seguire alla lettera gli inviti dei suoi sostenitori più estetizzanti a «cercar la bella morte». Piuttosto che una sconfitta mediocre, meglio uno spettacolo di fuochi artificiali, fra gigionerie e autentiche scene madri, da scapestrato mestierante del palcoscenico. Eppure questa interpretazione, che pure ha qualche fondamento, non dice tutto su ciò che sarà Berlusconi dopo Berlusconi; e soprattutto non dice niente di che cosa sarà l’alleanza di centrodestra dopo il 10 aprile. In ogni caso Berlusconi aveva deciso che dopo di lui ci sarebbe stato ancora e soltanto lui. I suoi comprimari, ancorché premiati dal risultato elettorale, sono stati oscurati. Vincitore o più prevedibilmente sconfitto, il quasi settantenne Berlusconi aveva deciso, già prima del voto, di proiettarsi anche nella prossima legislatura, e non soltanto per attestarsi a presidio di tutti i negoziati che verranno aperti (in particolare nel risiko del Quirinale), e per cercare di trattare da posizioni di forza sui temi per lui sensibili che il centrosinistra dovesse mettere in agenda, a partire dal conflitto d’interessi e dalla riforma del sistema televisivo. Va considerato infatti anche un aspetto ulteriore: il patron di Forza Italia sapeva e sa benissimo che oggi come domani il centrodestra esiste in quanto esiste lui, con la sua capacità sfrenata di polarizzare il consenso e l’avversione, di fungere da sintesi reale, simbolica e perfino iconica del pensiero e del ceto padronal-liberista, in sostanza di essere lo specchio in cui si riflettono tutte le facce, visibili e sommerse, della destra italiana. Abbandonati a se stessi, i partiti della Cdl sono strutture acefale. L’alleanza stessa, orfana di Berlusconi, sarebbe strattonata al centro da tentazioni trasformiste, e all’estrema destra dalle riemergenti pulsioni para-secessioniste della Lega. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo, se fosse giunto al termine della sua parabola politica, Berlusconi dovrebbe sentire il bisogno di mantenere il suo impegno in politica, come coagulo del centrodestra, tolto il vantaggio di poter negoziare sulle sue questioni proprietarie. È probabile che per comprendere questo aspetto sia necessario ricorrere anche a categorie non politiche. Berlusconi infatti è un fondatore di imprese. Dopo la televisione, la maggiore impresa della sua vita è stata la creazione di Forza Italia e del centrodestra. Non può lasciare che tutto ciò si afflosci per un risultato elettorale infelice. Vale a dire che non può permettersi di lasciare dietro di sé un deserto, a meno di non affidare di sé al futuro l’immagine di chi ha costruito cattedrali andate precocemente in rovina. Invece, sul piano esplicitamente politico deve sistemarsi in una posizione strategica, in primo luogo per controllare o frenare e condizionare l’azione del centrosinistra. Ma non soltanto: per decidere in quali tempi e con quali modi dovrà avvenire la sua successione, e quale sarà il futuro della sua creatura, la Casa delle libertà. È un programma a suo modo razionale. Può stupire semmai che la razionalità del calcolo di Berlusconi sia stata messa in atto e alla prova con le esibizioni più stridenti che si siano mai viste al vertice della politica italiana. Tuttavia il messaggio dovrebbe essere chiaro a tutti: l’Estremista manda a dire a tutti, compresi i suoi soci politici, che questo leader oltraggioso è l’unico leader della destra. Altri non ce ne sono. Che l’ideologia politica dello schieramento è pur sempre quel singolare composto di liberismo forzista e sbrigatività leghista, impersonato dal Padrone. E che in fondo il centrodestra, se esiste e se esisterà lo deve solo a quel giocatore insolente che ha nome, oggi come domani, Silvio Berlusconi. Può apparire paradossale, o addirittura inspiegabile, che questo scontro fra due Italie si sia incentrato su un solo uomo, sulla esclusiva figura di Silvio Berlusconi. Eppure oggi, mentre la traiettoria berlusconiana sembra avere imboccato la parte discendente, si può riconoscere che la transizione italiana è stata modellata proprio dalla presenza politica del proprietario della Fininvest. Dal 1994 in poi, quando era considerato un perfetto outsider, l’uomo battuto di strettissima misura alle elezioni del 2006 è stato il protagonista assoluto della vita pubblica italiana, non soltanto della politica. Il suo talento è stato in grado di aggregare intorno a sé prima i partiti di centrodestra, e poi un intreccio di interessi e di pulsioni presenti nella società italiana. Si tratta di osservare in primo luogo se questo suo lavoro è stabile o no. Vale a dire se l’Italia «moderata» (che per la verità appare per molti aspetti come una somma di vari radicalismi) esiste politicamente anche in sua assenza. Ma per il momento va registrato che l’azione del capo della Casa delle libertà ha determinato o almeno approfondito vistosamente una frattura nella società italiana. L’investimento di Berlusconi in un conflitto permanente, il suo farsi imprenditore quasi di una guerra intestina, simbolica ma riconoscibile, può avere conseguenze serie nella qualità civile della nostra democrazia. Può vivere bene, può lavorare con dignità un Paese spaccato a metà, in cui le due parti si guardano con una diffidenza che spesso diventa sospetto, e talvolta rancore? Questa riflessione minaccia di riprodurre continuamente il profilo di un’Italia delle regole, quella di Romano Prodi, contrapposta ontologicamente all’Italia selvatica di quelli che, secondo il leader dell’Unione, sono abituati a «parcheggiare in doppia fila». Il faccia a faccia fra le due Italie contempla anche un capitalismo moderno, che accetta integralmente il criterio della concorrenza, rifiutato a sua volta dalla folla di imprenditori piccolissimi, piccoli e medi che rimpiangono l’era delle svalutazioni competitive. Oppure una società che rispetta le istituzioni e le considera strutture essenziali della vita collettiva, opposta a una folla solitaria e anarchica che pretende soddisfacimenti individuali nella perfetta indifferenza per le finalità comuni. È una semplificazione che sembra avere un potere descrittivo di una certa efficacia. Da una parte l’Italia del trash, dei reality show, del consumo televisivo irriflesso, dei consumi sbrigliati e vistosi, socializzata più che altro dalle tendenze e dalle mode, unificata dal gossip. Si tratta di un Paese che i sondaggi non riescono ad afferrare, che nutre oscuri risentimenti contro l’Unione europea e contro la moneta unica, e sembra disponibile a trattare le istituzioni come merce di scambio. A esso si contrappone l’Italia poco divertente e «bofonchiona» di Prodi (secondo una definizione di Giuliano Ferrara), che vuole le regole e si ribella all’idea di un Paese diviso lungo linee addirittura antropologiche, ma che considera il berlusconismo una malattia culturale e i seguaci del «Caimano», elettori compresi, come dei malviventi reali o almeno potenziali. P.S. Sempre che non si sia sbagliato nel definire Berlusconi l’imprenditore del conflitto fra le due Italie. Nella conferenza stampa convocata il giorno dopo la chiusura delle urne, dopo avere contestato il risultato del voto, dichiarando che avrebbe concesso la vittoria al «signor Prodi» solo dopo le verifiche più accurate, il Caimano, l’uomo della guerra civile quotidiana, ha lanciato l’idea della Grande coalizione: «Perché non si può governare in modo unilaterale un Paese spaccato a metà». Alla fine, viene sempre il dubbio che non si tratti di guerre, ma di baruffe: di commedie, non di tragedie. E che in ultimo, a sterilizzare il rischio delle due Italie ostili, venga in soccorso il sospetto che si tratti ogni volta di teatro. Abbiamo considerato per il 2006 tutte le liste apparentate ufficialmente nelle due coalizioni. Per il 2001 abbiamo considerato per la Cdl non solo i quattro maggiori partiti, ma anche il Nuovo Psi e la Fiamma tricolore, che in realtà si era presentata come indipendente. Per l’Unione il confronto è stato fatto con la somma dei voti conseguiti nel 2001 dai partiti ufficialmente apparentati nel maggioritario (Ds, Margherita, Girasole, Comunisti italiani), nonché da Rifondazione comunista, dalla Lista Di Pietro e dalla Lista Pannella-Bonino. È chiaro che il confronto sconta alcune asimmetrie, soprattutto nel caso del centrosinistra. Ma questo rende ancora più evidente l’aumento dei voti ottenuti da entrambe le coalizioni tra il 2001 e il 2006. Nel 2004 i voti validi furono 32.476.224, con un’affluenza alle urne del 73,1%; cfr. C. Guarnieri e J.L. Newell (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 2005, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 354. Resta da vedere se e quanto è costata in termini di seggi la decisione di presentare due liste distinte al Senato, disperdendo due elettorati che, l’esperienza insegna, possono essere sommati con facilità. Date le diciassette competizioni proporzionali con quoziente naturale, e con una soglia effettiva ben più alta di quella formale, due resti deboli possono facilmente diventare un intero o un resto che produce un seggio. Non sarà difficile accertare rapidamente questo dato.

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