gli articoli PANORAMA/

DEMOCRAZIA ELETTRONICA FA BENE O MALE ALLA POLITICA?

25.04.1996
IDEA DELLA SETTIMANA
ELETTORI E SPETTATORI / IL VILLAGGIO GLOBALE VA ALLE URNE

Politica, sfera della polis, città dell’uomo. Ma che cosa succede se la città viene smaterializzata dalla comunicazione, se le procedure mediatiche del villaggio globale di Marshall McLuhan svuotano le relazioni umane e le proiettano nell’ artificiale come irrealtà spettrali, olografie prive di densità psicologica? Il tentativo più curioso e naïf di rimaterializzare la politica si è avuto con la trovata del pullman di Prodi, e con il suo tour a contatto diretto con il popolo dell’Ulivo. Ma anche i colpi di scena di Berlusconi e Fini, che portano nelle platee l’Italia del Polo, immergendo i leader fra la loro "gente", rappresentano uno sforzo per mantenere alla politica la sostanza corporea che aveva nel passato. Si cerca insomma a tentoni di evitare la dissoluzione nell’ etere e nel cavo, la perdita di fisicità provocata dalla nebulizzazione elettronica della polis. Per ora il processo di mutazione della politica in comunicazione pura è mediato quasi esclusivamente dalla televisione. Ma anche così il confronto politico è già divenuto immagine virtuale. Le "masse" le porta ancora in piazza un soggetto politico antico e "pesante" come Rifondazione comunista, la borghesia conservatrice viene pilotata nei cortei da un partito radicato nel pensiero pesante del Novecento come Alleanza nazionale; mentre le forze leggere come Forza Italia e l’Ulivo sono già proiettate in una dimensione immateriale, costellata di immagini e tracce postideologiche più che strutturata su complessi forti di idee. Inevitabile che cedano tutti i riferimenti classici, il principio di classe, l’asse destra / sinistra, la dialettica conservazione / innovazione. Il destino della politica è di essere centrifugata e inviata direttamente nell’ immaginario. Ma sarà ancora politica? Che cosa resta dell’agorà, del dialogo pubblico che secondo Hannah Arendt costituisce anche nella modernità il lievito della democrazia liberale? Negli ultimi quindici anni la filosofia politica americana ha prodotto una consistente reazione intellettuale contro i peccati d’ astrazione del liberalismo, sottolineando la funzione della "comunità" come agenzia che plasma l’identità politica e morale degli individui. Ma allora che cosa bisognerebbe dire di fronte all’ astrazione totale, al buio ipertecnologico che ci fronteggia? Secondo Nicholas Negroponte, il profeta del Massachusetts institute of technology autore della bibbia del cybermondo, Essere digitali, la rottura di paradigma è già avvenuta e la rivoluzione è scattata: gli atomi si trasfigurano in bit, le cose e gli avvenimenti in unità elementari di comunicazione. La grande trasformazione porta a un verdetto senza appello: "Nel mondo digitale il mezzo non è più il messaggio". L’ azzeramento dello slogan di McLuhan significa che chi riceve può elaborare l’informazione "resettandola" nella forma che più gli piace (come suono, grafico, testo e così via); il controllo formale sul messaggio si sposta, si individualizza. Già, ma il controllo sostanziale? Appagati dalla soddisfazione vicaria di "processare" informazioni non ci si preoccuperà più di chi e perché le fornisce? Ne potrebbe derivare facilmente una struttura secondo cui a un numero limitato di produttori di informazione si affiancherebbe un numero illimitato di utilizzatori, formalmente attivi ma sostanzialmente passivi. Siamo in attesa di un millennio neobarocco in cui nel circuito comunicativo l’unica facoltà praticabile sarebbe la gestione dell’ornamento, della forma, dell’artificio, della modalità? Nel suo libro Confucio nel computer, Furio Colombo sottolinea che in trent’ anni negli Stati Uniti si è disperso un quarto del corpo elettorale, che non partecipa più al rito civile del voto. Di fronte a questa entropia della partecipazione politica, quali contromisure si possono attivare? Si chiede Colombo: "Tutti in piazza o tutti in Internet?". Vale a dire: sarà inevitabile scegliere se ridare vitalità alle spoglie della politica classica, con pullman e teatri, comizi e bagni di folla, oppure se conviene introdursi politicamente nella Rete, per creare un sistema di informazioni che sia comunque pluridirezionale. Le nuove masse devono virtualizzarsi, se vogliono esprimere una qualche loro ribellione. Il "contratto con l’America" proposto dall’ estremista repubblicano Newt Gingrich incorpora forme di esclusione sociale, temperate dalla partecipazione alla terra promessa del cyberspazio. Il darwinismo sociale della nuova destra americana mette in bilancio maggiori investimenti in polizia e carceri per arginare gli effetti di una disuguaglianza sociale in crescita geometrica, ma offre come succedaneo il sogno di una cittadinanza virtuale da cui nessuno è tendenzialmente escluso, neppure lo "homeless" che passa le notti sotto un cartone: un computer portatile e un modem lo reintegreranno nella comunità artificiale. A una cittadinanza in crisi si può sostituire una cittadinanza virtuale, la cittadinanza di Internet, in cui il "netizen" non soffre le esclusioni della vita reale. Si apre la strada al populismo elettronico. Prima della politica on line, erano gli operatori, dalle imprese ai singoli individui, ad adattarsi continuamente alle decisioni del governo. Nel mondo di Negroponte, sarebbero fatalmente i governanti ad adattarsi opportunisticamente in tempo reale ai sentimenti dei cittadini interpellati direttamente sulle "issues" politiche principali. Catapultati nel cosmo sintetico E allora ecco l’ irruzione di alcune domande capitali: in collettività virtuali, transnazionali e transpolitiche, in cui si raccolgono alla rinfusa fan del romanzo di William Gibson Neuromante, cultori di Blade runner, anarchici di destra, libertari di sinistra, abbonati a Wired (la rivista vangelo del mondo cablato e digitalizzato), imprenditori virtuali, esploratori di enciclopedie ipertestuali, cyberpornografi, predicatori multimediali, e tutta la folla solitaria che naviga senza confini nella Rete, di che morte muoiono certe categorie come lo Stato-nazione e tutta la serie di istituzioni, entità e identità politiche sedimentate dalla storia dell’ Occidente? E che sorte toccherà all’ animale politico aristotelico, catapultato in questo cosmo sintetico, ma amputato psicologicamente e ridotto a una sola dimensione (questa volta davvero, altro che Marcuse), quella comunicativa? Ma in attesa che Internet si fissi definitivamente come lo spazio della fine della storia, in cui non esistono accadimenti ma soltanto flussi ininterrotti di comunicazione, vale la pena di chiedersi se la cyberutopia non ci aiuti a decifrare intanto anche qualche processo in corso nella nostra modernità quotidiana dominata dalla tv. E non solo nei termini in cui lo ha fatto Giovanni Sartori, segnalando in un capitolo dei suoi Elementi di teoria politica (intitolato "Videopotere") i pericoli di una politica-show, basata sul "degno di essere visto" e non sul "degno di essere saputo". Perché è vero, come dice il maestro della Columbia, che "mentre la realtà si complica, le menti si semplicizzano", che l’audience sostituisce il consenso, con quel che ne consegue sulla qualità della democrazia. Ma forse c’ è anche qualche considerazione meno antropologica e più connessa alle tecniche attuali della democrazia. Può bastare un esempio, relativo al collegio uninominale. La premessa fondante del collegio uninominale (che è nato in Inghilterra per selezionare rappresentanti delle "constituency" locali da mandare a Londra a temperare il potere del sovrano) consiste nel radicamento del candidato nel suo territorio. Ora, si trascuri pure il fatto che, lo si è appena visto nella fase preelettorale, le candidature vengono gestite centralisticamente, con personale politico paracadutato sulla periferia, smentendo alla radice la logica primaria dell’uninominale; ma sarà poi il caso di valutare che la televisione è quanto di più nazionale esista, e che l’informazione locale viene in assoluto subordine. Date queste condizioni, che cos’ è l’uninominale: una soluzione adeguata alla realtà del nostro tempo o un metodo che territorializza in modo anacronistico un confronto che invece non ha più nulla di territoriale, e quindi risulta sfasato rispetto alle modalità della comunicazione contemporanea? Insomma, si può pensare di far funzionare la democrazia senza commisurare i suoi congegni tecnici al sistema di produzione delle informazioni che sta sullo sfondo? In attesa delle solitudini ipertecnologiche della cyberpolitica, ci si può anche permettere qualche dubbio sull’ architettura istituzionale che dobbiamo completare hic et nunc. Mentre "tutto ciò che è solido si scioglie nell’ aria", come diceva Karl Marx a proposito del mondo febbrile della borghesia trionfante, mentre l’intero universo della comunicazione è sismico, in attesa dell’imminente "Big One" della virtualità occorrerebbe capire se è opportuno bloccare la politica su fondamenta di pietra. Oppure se non convenga lasciarla fluttuare più elasticamente, dal momento che nessuno sa dov’ è, e se c’ è, un punto di equilibrio fra la costruzione standard della democrazia bipartitica e la vertiginosa pluralità della partecipazione alla polis digitale.

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