Sarà il venticello di profezie, ma per qualcuno su Roma grava una maledizione. Si riassume in una formula, il "carattere sacro" della città eterna, sancito dall’articolo 1 del Concordato del 1929. Un’espressione equivoca, vuota giuridicamente e destinata a produrre grattacapi infiniti, anche dopo che il carattere "sacro" sarebbe stato declassato a "significato particolare" con la revisione concordataria del 1984. È questo il leitmotiv del saggio che Francesco Margiotta Broglio ha pubblicato nel sedicesimo annale della "Storia d’Italia" di Einaudi, "Roma, città del papa" (oltre 1.200 pagine curate da Luigi Fiorani e Adriano Prosperi). Il contributo di Margiotta Broglio, posto a conclusione del volume, si intitola "Dalla Conciliazione al Giubileo 2000". L’autore non è solo un analista, ma un protagonista delle vicende concordatarie: per diciotto anni, dal governo Spadolini in poi, è stato consulente di Palazzo Chigi per i rapporti con il Vaticano (con una sola interruzione, i sette mesi di Berlusconi, a cui rivolse un disincantato "non possumus"). Romano di razza, insegna diritto ecclesiastico a Firenze, è una singolare figura di laico che ha un paio di santi in genealogia, oltre a una processione di porpore. Dietro la sobrietà del titolo c’è una storia intera: quella dell’intricato rapporto fra la "civitas" cattolica e la capitale profana, fra la religione e la laicità, fra la Chiesa e lo Stato. Infatti il malaugurio comincia presto: alla vigilia della Conciliazione, il gesuita padre Tacchi Venturi si rivolse a Mussolini a nome del segretario di stato cardinal Gasparri, per segnalare che l’impudico "tabarin" si era preso una rivincita insidiosa, dato che in certi cinema di Roma, negli intervalli dei film, si esibivano sul palco donne discinte, "incentivo piuttosto che schermo alle impure brame della concupiscenza". È una curiosità d’epoca che torna ironicamente d’attualità dopo le iniziative vaticane contro il World Gay Pride e l’"epopea frocia" di Imma Battaglia e Vladimir Luxuria. Ma che il "carattere sacro" di Roma fosse una rogna da subito lo ebbe ben chiaro Mussolini: che difatti cercò ben presto di contrastare la primazia papale e di svaporare l’aroma di incenso sparso dal Concordato sulla città santa. Siglati i Patti lateranensi, e celebrati i matrimoni "concordatari" di Umberto di Savoia con Maria José e di Ciano con la primogenita del duce Edda, Mussolini si preoccupò soprattutto di ripristinare le fascistiche priorità: "Roma è sacra perché fu la capitale dell’impero". Anzi, il capo del regime cercò di consacrare altri luoghi come santuari del culto fascista: il Vittoriano diventa l’"Altare della patria", con il Milite Ignoto a rivaleggiare con la sacralità dei papi, mentre piazza Venezia, "cuore del fascio e della patria", entra in diretta e "oceanica" competizione con piazza san Pietro. Questa sorda lotta per il primato sarebbe durata a lungo, punteggiata ora dagli sdegni di Pio XI nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler, per avere visto "inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l’insegna di un’altra croce che non è la Croce di Cristo", ora invece dal sostegno di padre Gemelli nel decennale della Conciliazione, che aveva celebrato il "ritorno alla tradizione e alla missione cattolica da parte dello Stato italiano". A fascismo caduto, il "carattere sacro" di Roma doveva proporre altre insidie. È vero che dopo la fuga a Pescara il papa resta l’unica autorità metropolitana, il "defensor civitatis"; ma nella città aperta gli alleati portano l’insidia dei loro protestantesimi, e la liberazione fa riemergere impulsi anticlericali, se è vero che il referendum del 2 giugno 1946 fu interpretato anche in chiave anticonfessionale. Nenni annotò nei "Diari": "Abbiamo fatto la Repubblica non solo contro il Quirinale, ma anche contro il Vaticano". In realtà, commenta Margiotta Broglio, "il Vaticano si mantenne fondamentalmente neutrale". Piuttosto, la preoccupazione della Santa Sede era la nuova Costituzione. Ma la Costituente trasferì nell’articolo 7 i Patti lateranensi, costituzionalizzando la grana del "carattere sacro". La sconfitta del Fronte popolare il 18 aprile 1948 fu un’altra grande rassicurazione. La cosiddetta scomunica ai comunisti completò il quadro: Roma era stata riconsacrata. Due milioni e mezzo di pellegrini accorsero per il giubileo del 1950, culminato con la proclamazione del dogma dell’assunzione della Madonna. Eppure questa Roma clericale non nascondeva un fondo di disincanto. Commenta Margiotta Broglio: «Chissà se la città è mai stata veramente cristiana. C’era una fede di facciata; e una religione che aveva funzionato come strumento di controllo sociale». Un paganesimo romanesco, un’indifferenza truccata dalle genuflessioni? Fatto sta che all’inizio degli anni Sessanta, quando "sulla città sacra sta per planare l’enorme cappello da prete di Anita Ekberg nella "Dolce vita" di Fellini", la Roma dei caffè e di via Veneto ha già assistito al primo striptease, quello della turca Aiché Nanà al "Rugantino", che infrange il divieto degli spettacoli lascivi, istituito in ossequio al "carattere sacro" (naturalmente, il locale venne chiuso). All’indomani dell’elezione di papa Roncalli, Giovanni Spadolini aveva auspicato un "Tevere più largo", fra la Roma papale e la Roma repubblicana. Ma più ancora della distinzione fra lo Stato italiano e la "teocrazia ierocratica" di cui aveva parlato il giurista Pietro Agostino D’Avack, era piuttosto la modernizzazione violenta della città che provvedeva a spegnere il brusio della sacralità. In una ricerca sulla religiosità dei romani, il gesuita Émile Pin aveva rilevato che le processioni erano state ormai espulse dal traffico automobilistico, mentre i trentasei mesi del Concilio erano scivolati via nell’indifferenza: del Vaticano II "i romani non hanno capito nulla; del resto non vi hanno partecipato che albergando e nutrendo i padri e il loro seguito". Malgrado questo "lento divorzio", l’anatema del "carattere sacro" aveva colpito ancora nel 1965, quando il prefetto vietò la rappresentazione del dramma di Rolf Hochhuth "Il Vicario", un’opera che riapriva il dilemma dei silenzi di Pio XII di fronte all’Olocausto. E di nuovo si fece sentire nel 1970, allorché la Santa Sede trasmise al governo italiano una nota secondo cui l’approvazione della legge Fortuna sul divorzio avrebbe vulnerato gravemente «una solenne convenzione internazionale». Erano già cominciati i lavori della commissione per la revisione del Concordato presieduta da Guido Gonella. Da sacro che era, il carattere di Roma veniva degradato a "particolare". Tuttavia la sconsacrazione di Roma sarebbe stata messa allo scoperto più vistosamente dal voto dei romani al referendum sul divorzio del 1974. Ricorda Margiotta Broglio: «In Italia, l’elettorato disse "no" all’abrogazione con il 59 per cento dei voti; a Roma, nella diocesi del papa, venne raggiunto un dirompente 68 per cento». Proprio alla vigilia del Giubileo del 1975, indetto da papa Montini dopo molte perplessità vaticane. Il tormento del "carattere sacro" avrebbe toccato un diapason drammatico nel 1981, con l’inaudita violenza dell’attentato di Ali Agca a Karol Wojtyla, alla persona del pontefice "sacra e inviolabile" secondo il Trattato del Laterano. Sarebbero poi occorse sette "bozze", dal 1976 al 1983, per arrivare alla revisione concordataria, conclusa nel 1984 sotto il governo Craxi. Prima il carattere sacro divenne "particolare", poi sbiadì nel "particolare significato" di Roma. «Ma è un significato», commenta Margiotta Broglio, «che non riguarda tutti, bensì solo la cattolicità: il legislatore lo dice con chiarezza». E tuttavia, il "carattere sacro" era destinato a colpire ancora. È vero che quando il cardinale Poletti promuove nel 1987 un’indagine sulla diocesi capitolina, Roma, come le altre metropoli italiane, è una città a-religiosa. Ma c’è Wojtyla, con il suo carisma. Si può parlare della rievangelizzazione di Roma come frontiera del papato di Giovanni Paolo II? Dice Margiotta Broglio, dopo avere messo in luce il ruolo di Wojtyla nel riportare Roma al ruolo di "caput mundi": "Se non è riuscito a ri-sacralizzare Roma, è certamente stato capace di ri-battezzare il Primo Maggio, con una messa rock per centomila persone, con seicento concelebranti e settanta cardinali nella piana di Tor Vergata". Al punto che dentro il sindacato si sono sentiti scippati. Storie di un "giubileo senza città", aperto dal papa «con qualche concessione (di troppo) felliniana nei paramenti in stile Missoni». In cui però, all’inizio del 2000, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, chiede di impedire durante l’anno santo il World Gay Pride, nel nome della "città sacra, o città particolare, come si dice oggi", quasi che la formula integralista del ’29 e quella relativizzatrice attuale fossero equiparabili. Il Tevere torna a farsi più stretto. Iscritto dal papa in un disegno mariano e provvidenziale, Ali Agca è stato graziato da Carlo Azeglio Ciampi, e ha ringraziato il potere vaticano: il segretario di Stato Sodano, il sostituto Giovan Battista Re e il cardinale Ratzinger. Piero Badaloni si è giocato la rielezione alla presidenza della Regione Lazio per i dissapori seguiti alla decisione del Consiglio regionale di accettare le unioni di fatto. La scadenza del Giubileo dei detenuti è diventato il fulcro della polemica politica fra Polo e centro-sinistra sull’amnistia. Ma al di là del conflitto innescato dalla festa dell’orgoglio omosex, rimane l’immagine di una città che anche durante il Giubileo non è riuscita a trovare una lineare convivenza istituzionale fra lo stato laico e il Vaticano. In cui è stato notato che, tra forzature, pressioni decisionistiche, contrasti fra i poteri statali, "gli interessi della città del papa sono ancora una volta superiori alle leggi dello Stato". Sotto la regia, come annota Alberto Ronchey riportando una frase di Alberto Asor Rosa, del sindaco Rutelli, "protagonista epocale, zelante non meno che sorridente come si conviene al suo destino storico di "sindaco del Giubileo". Nella testa, rintocchi di campane celesti". E sullo sfondo resta anche, ancora più drammatica, la separatezza fra la città degli establishment religiosi e laici, da una parte, e dall’altra, lontana, dimenticata, la città delle borgate pasoliniane. Il "luterano" Pasolini, conclude il laico Margiotta Broglio, che addita lo scandalo di una fede borghese vissuta «nel segno di ogni privilegio, di ogni resa, di ogni servitù», e che fa pronunciare al disperato poeta l’estrema condanna, per cui «la Chiesa è lo spietato cuore dello Stato». Un verdetto che dentro il sortilegio del "carattere sacro" identificava con la sua eticità ereticale l’instrumentum regni, il volto irriformabile del potere. Un giudizio apocalittico, ormai inattuale. Eppure, osservando da un lato il tripudio liberatorio della festa gay, e dall’altro l’"amarezza" di Karol Wojtyla per "l’affronto" subito dal Giubileo, colpisce perlomeno l’incomunicabilità fra due mondi, e quindi fra le due città: come se l’incombere permanente della sacralità impedisse a Roma di divenire davvero moderna, cioè tollerante più che indifferente, laica invece che solo scettica.
20/07/2000