gli articoli Il Mulino/

Bertinotti preso sul serio

05-06 1997

C’è un indizio che rivela qualcosa sulla figura e sul ruolo di Fausto Bertinotti, ed è che nessuno lo accusa mai di essere un comunista. Il partito che dirige porta nella sigla la parola proibita, ormai esclusa dai galatei politici vigenti. Ma lui, il segretario del Partito della Rifondazione, non è un comunista: non ne ha i tratti intellettuali e nemmeno le fattezze fisiche, come si nota a prima vista e come sottolineano i coloristi della politica. Dicono di lui invece, e ogni definizione che segue contiene un pizzico di verità, che è un anarcosindacalista, un socialista massimalista, un radical, l’esponente di un pensiero fondato sull’antagonismo sociale e politico: e fin qui le etichette non falsano troppo la realtà, nel senso che il leader di Rifondazione comunista si è assunto programmaticamente il compito di rappresentare una posizione esplicitamente anticapitalista, antiliberista, antimonetarista. Che in effetti, nell’epoca del liberalismo imperante, è una delle trasgressioni percepite come più audaci. Ma il tentativo di trasformare Bertinotti nel reprobo, nell’ultimo resistente di una concezione old style della politica, non ha funzionato, e probabilmente non poteva funzionare per mancanza di presupposti. Proprio perché il segretario di Rifondazione non è un truce commissario inviato dalla Mosca d’antan, né il sostenitore di una pianificazione socioeconomica ottusa, né il portavoce ripetitivo di un pensiero sepolto ingloriosamente dalla storia. Parole e cose Comunista non è mai stato, Bertinotti. Socialista e sindacalista sì, e in quanto tale possiede una suggestiva capacità di individuare i punti di crisi, di attrito, di contraddizione dentro la realtà, e di sfasatura fra i modelli proposti e la realtà vera. Si è provato a consegnarlo all’insignificanza inchiodandolocioè una bandiera del terrore agitato contro il mondo «moderato» dei risparmiatori, salvo poi far passare sotto silenzio che – insomma, vabbe’ – sollevare la questione della fiscalità sulla rendita finanziaria non era poi una issue eversiva, e che in effetti un problema c’è, se è vero oltretutto che il premio alla rendita penalizza gravemente il mercato mobiliare e gli investimenti produttivi. Si è anche cercato di dipingerlo come il capo del «partito degli irresponsabili», prendendo nota solo marginalmente del fatto che l’antagonista Bertinotti ha appoggiato misure economiche della portata di centomila miliardi, e che l’antieuropeismo e l’antimaastrichtismo neocomunista si sono risolti di fatto in un sostegno al governo dell’Ulivo nel programma di accesso alla moneta unica europea. Parole e cose, la distinzione è di qualche significato. Sul piano delle parole, Bertinotti è inarrivabile. È un frullatore di concetti, un costruttore inesausto di formule. L’equivoco sarebbe di considerarlo soltanto un inciampo nel cammino della storia. Chi scrive lo ha spesso definito qualcosa di simile a un cicisbeo settecentesco, orgoglioso della sua eleganza da trade union, felice di esibire provocatoriamente i suoi gadget come l’orologio al polso destro e il collarino con la custodia di pelle per gli occhiali da presbite, e perfettamente a suo agio nella superfluità parolaia dei talk show in seconda serata. Mea culpa. Nel cuore della transizione politica, mentre il bipolarismo doveva ancora stabilizzarsi (cioè era ancora più instabile e precario di adesso) mi sembrava che Bertinotti rappresentasse in chiave estetizzante una resistenza ottusa al cambiamento. Oggi, se è consentito un salto di livello analitico, mi sembra invece forzata l’idea secondo cui il cammino della storia consisterebbe in una inarrestabile e in sé virtuosa deriva liberista, a cui tutti i soggetti sociali dovrebbero uniformarsi disciplinatamente. In altre parole, determinismo puro. Sarà che ogni forma di dogmatismo, e quindi anche quello basato sulla triade globalité, marché, monnaie, risulta fastidiosa, ma allora non si capisce per quale ragione bisognerebbe considerare il bertinottismo solo come un elemento di eccentricità modaiola nella politica attuale. Rifondazione comunista è per taluni aspetti un incidente di percorso nell’evoluzione del Pci, ma sarebbe improprio ridurre la sua esistenza a un cortocircuito della vicenda politica, magari attribuendone la responsabilità alla pasticcioneria novista di Achille Occhetto. Se Rifondazione fosse rimasta un grigio partito neocomunista amministrato da funzionari politici debitamente poco fantasiosi come Armando Cossutta, probabilmente sarebbe inevitabile il giudizio che la vede come un elemento residuale, una zavorra della trasformazione politica italiana. Di tutto infatti si sentirebbe il bisogno fuorché di un partito postsovietico, tardogorbacioviano, legato psicologicamente a qualche retrospettiva e sorda nostalgia moscovita. Il fatto è invece che Bertinotti non è per nulla vetero, al massimo è post. Appare alla moda perché furoreggia in tv divertendosi a esporre concezioni percepite come provocatorie: ma quale stupido fraintendimento sarebbe considerarlo alla stregua dell’icona di un Macao della politica, «ahi ahi, ragazzocomunista, sei sempre in bella vista…». Agli occhi del benpensantismo politico d’oggigiorno, Bertinotti ha l’irritante difetto di proporre concezioni non omologate. Di fronte alle quali si può benissimo opporre un rifiuto preventivo, come se fossero tutte mozioni irricevibili, ma in questo caso accettando il rischio che quelle visioni del mondo non omologate, in quanto intercettano problemi piuttosto riottosi alle semplificazioni, si ripresentino giorno per giorno sulla strada della politica con una loro imbarazzante carica problematica. In primo luogo, dal lato dell’apparire, Bertinotti rappresenta un raro esempio di correttezza formale. Può darsi che si tratti di un espediente per captare la benevolenza del telespettatore: ma potrebbe anche essere un modo per produrre per imitazione quel rispetto della politica che negli ultimi anni è venuto a mancare. In ogni caso mentre i suoi interlocutori tendono costantemente a deragliare dai binari dell’eleganza, soprattutto quando i dogmatismi politici vengono messi alla prova da contestazioni inerenti allo sviluppo concreto della realtà, lui continua imperterrito a usare il «lei» e a chiamare Gianfranco Fini o Pierferdinando Casini «onorevole Fini» e «onorevole Casini», e a illustrare le sue ragioni. Dal lato dell’essere, invece, il segretario di Rifondazione è invece come si è già segnalato uno dei più strenui pedinatori di conflitti e di contraddizioni nello schema liberal-liberista della politica. Raramente Bertinotti ha soluzioni da proporre. Piuttosto ha ventagli di ipotesi, e soprattutto un’infinità di problemi da sollevare. Le sue soluzioni sono di solito generiche: colpire l’evasione, vogliamo una finanziaria «senza tagli né tasse». Mentre i problemi che evoca sono, quelli sì, «epocali»: nel senso che lui non ha alcuna esitazione a trasportare sul piano politico immediato i dilemmi e i drammi della situazione contemporanea. Allorché propone con plateale improntitudine «anticapitalistica » una tassa sull’innovazione tecnologica, ottiene il risultato subitaneo di fare inalberare il presidente della Confindustria Giorgio Fossa; ma a pochi viene in mente che così facendo e così dicendo Bertinotti sta agitando uno dei più aspri dilemmi dell’evoluzione dell’economia del nostro tempo: è vero o no che la tecnologia distrugge lavoro e occupazione? Di fronte al mundus furiosus e al killer capitalism descritti da Giulio Tremonti, davanti al «turbocapitalismo » tratteggiato da Edward Luttwak, gli altri uomini politici tendono a neutralizzare frettolosamente il problema con considerazioni di breve periodo; Bertinotti pone la questione nei suoi termini «drammatici», fa politica nel senso più oltranzista del termine. Lui offre risposte impertinenti, gli altri evitano di offrire qualsiasi tipo di risposta che non sia un convenzionale ottimismo by magic nei rimedi dello sviluppo che verrà. (Eppure, durante la campagna per le elezioni politiche del 1994, di fronte alle proposte di Tremonti, allora candidato centrista, sulla detassazione degli utili reinvestiti in azienda, anche un rigorista come Luigi Spaventa si sentiva autorizzato a spiegare polemicamente che la defiscalizzazione dei suddetti utili è in contrasto con un programma di sostegno dell’occupazione. E allora? Non è questo un problema decisamente critico per la sinistra? E c’è qualcuno, sempre a sinistra, che sa dire qualcosa di non stereotipato sull’argomento?).Allo stesso modo, se si pensa allo schema con cui Pierre Rosanvallon ha approfondito di recente la crisi dell’Etat-providence, le domande diventano davvero complicate. Secondo l’autore francese, lo stato sociale va in crisi anche perché su di esso si scarica il peso che in passato veniva sostenuto dentro le imprese da «microdispositivi» di ammortizzazione, da sacche di bassa produttività, da inefficienze funzionali che trattenevano occupazione. Mentre «esternalizza » questi costi, la razionalizzazione organizzativa postfordista tende fisiologicamente ad aggravare il costo del welfare. Se procede la riorganizzazione, aumenteranno anche i costi dello stato sociale, malgrado i tagli. E quindi? Purtroppo, davanti alle domande difficili la politica, soprattutto quella italiana, diventa muta. E quando riesce a parlare parla di solito secondo luoghi comuni. Il pensiero dominante è divenuto quello di un liberismo convenzionale, buono per tutti gli usi, capace di spiegare tutto e risolvere tutto a colpi di poche formule. Non si avverte mai un minimo di irritazione, un po’ di noia, una qualche stanchezza per le ricette miracolistiche del mercato, della concorrenza, della flessibilizzazione, della liberalizzazione, della scomposizione del mercato del lavoro? Prendere il pensiero liberista sul serio non dovrebbe significare accoglierne indiscriminatamente la vulgata. Altrimenti si dovrebbe accettare la tesi, difatti largamente circolata nei mezzi d’informazione italiani, che la storica e pesante sconfitta dei tories di John Major alle elezioni inglesi sia dovuta alla volubilità dell’opinione pubblica britannica, a una bizzarria dell’indole nazionale d’Oltremanica. Mentre dietro la voglia di cambiamento, direbbe Bertinotti, potrebbe anche nascondersi una certa insoddisfazione per le condizioni sociali della Gran Bretagna post-thatcheriana; e dietro gli strepitosi indici macroeconomici inglesi – inflazione, debito e deficit sotto controllo, occupazione alle stelle, crescita fragorosa – ci potrebbe anche essere un disagio sociale, un divaricarsi nella struttura delle disuguaglianze, un incremento della povertà, che viene percepito dai cittadini e si riflette sull’esito elettorale: o no? Liberali in tv Detto questo, ci sono un paio di episodi che mi sembrano piuttosto significativi per mettere a fuoco e illuminare il bertinottismo. Il primo è l’insuccesso politico, o il mancato successo, o il successo parziale, del candidato sindaco Aldo Fumagalli a Milano. Il quale, la sera del 27 aprile, dopo essere stato staccato di oltre 13 punti percentuali dal candidato del Polo Gabriele Albertini, si è premurato di specificare che non avrebbe stipulato accordi con Rifondazione comunista e che sarebbe andato «avanti con il suo programma». Bisognerebbe capire, in proposito, per quale diffusa sclerosi mentale, per quale ossificazione della politica, per quale irrigidimento delle strutture di pensiero collettive, un imprenditore paracadutatosi nel centrosinistra e che propone un programma civico-tecnocratico dovrebbe risultarepiù attraente, almeno dal punto di vista intellettuale, del medesimo imprenditore che avesse detto: ai miei occhi Rifondazione comunista rappresenta efficacemente il disagio metropolitano, la sofferenza delle periferie, il rapporto problematico con l’immigrazione, i drammi della disoccupazione; e quindi, apparentamento o no, considero un dovere politico confrontare il loro programma con il mio. Un po’ di curiosità, santo cielo, un po’ di agilità e di immaginazione. I sondaggisti sostengono che l’accordo con Rifondazione non avrebbe portato alla vittoria? In termini strettamente numerici è vero, ed è anche possibile che frange centriste si sarebbero risentite di un compromesso con i massimalisti di sinistra. Ma si dà il caso che la politica non sia fatta soltanto di numeri scolpiti sulla pietra, e su questo punto ha ragione Bertinotti a dire che Rifondazione agisce come un lievito per la sinistra: anche soltanto nel senso più banale che l’impegno dei militanti sul territorio avrebbe suscitato qualche effetto di mobilitazione e di «disciplina» nel voto che invece sono sfuggite (se è vero che al candidato dell’Ulivo è mancato più di un terzo dei voti neocomunisti). Il secondo episodio invece riguarda un faccia a faccia tra Bertinotti e Fini svoltosi all’inizio di maggio al Maurizio Costanzo Show. Sede, si dirà, non propriamente adatta a sviluppare riflessioni politicamente rigorose, dal momento che lo schema costituito dalla declamazione retorica seguita dall’automatico applauso del pubblico induce i protagonisti più alla ricerca demagogica del consenso della platea del Teatro Parioli che non all’approfondimento delle analisi. In questo caso, tuttavia, il confronto è stato lungo e piuttosto educativo. Perché ha consentito di individuare con nettezza la fisionomia dei rispettivi discorsi, insomma le culture, dei due ospiti del programma. Il presidente di Alleanza nazionale infatti elabora, con una certa efficacia retorica, una propaganda politica basata in gran parte sul ricalco degli stereotipi liberisti attualmente in circolazione. Flessibilizzazione del lavoro, ristrutturazione sbrigativa del welfare state, tagli alla spesa pubblica, introduzione di mercato e concorrenza nella sanità, apertura alla scuola privata, lo sviluppo economico come cura di tutti i mali: vale a dire l’intero catalogo della vulgata dominante. Ci sarebbe da discutere se la miscela thatcherian-gollista di Fini integra davvero una proposta politica capace di rappresentare completamente le anime postfasciste di Alleanza nazionale, se insomma la sottolineatura alla francese dell’autorità riesce a essere complementare con il neoliberismo all’inglese, oppure se tutto questo non risulti una copertura molto parziale rispetto alle ispirazioni populiste e corporative che permangono in quel partito. Ma non è questo il punto. Il punto è che di fronte alle fiduciose asserzioni di Fini, Bertinotti oppone i suoi implacabili ed elegantissimi e ironici «non è vero». Perché il presidente di An espone ideologismi liberisti che appartengono a un mondo ideale e non del tutto comprovato, una pacificata e perciò ottimistica utopia del common sense neoliberista, senza il fardello di eccessivi riscontri fattuali che dimostrino le sue opinioni. Fatto sta che di fronte alle ripetute, continue, pignole correzioni di Bertinotti, che contesta con cifre, attestazioni empiriche, confronti internazionali, le sue concezioni imparaticce, Fini si immusonisce sotto l’abbronzatura, protende le labbra strette, si incupisce, poi si irrita e si altera, alza la voce rispolverando vecchie armi polemiche tratte dal suo tradizionale repertorio ideologico: alla fine rivolge al segretario di Rifondazione l’accusa che dovrebbe essere risolutiva, quella di statalismo: strizzando implicitamente l’occhio al pubblico del talk show per segnalare che il vizio di statalismo cela l’irredimibile peccato di comunismo. Ci si potrebbe aspettare una replica stizzosa che tiri in ballo le origini di Alleanza nazionale, qualcosa di vicino alla parola «fascismo». Invece, con suprema leggerezza, Bertinotti sorride: «Mi permetta di ricordarle, onorevole Fini, che la cultura da cui lei proviene attribuiva allo Stato un’importanza notevole». Sinistra sì, e di classe. Un antidoto alle fissazioni Il senso di questi episodi dovrebbe rendere evidente che non è più lecito, e neanche elegante, continuare a trattare Bertinotti come un caso di folklore. Non è censurando con la dovuta causticità i suoi incontri con il subcomandante Marcos o le sue simpatie castriste, e neppure sorridendo con sufficienza davanti al «dissento su tutto» pronunciato davanti agli operatori della City, che si esorcizza la sua politica. Rifondazione comunista rappresenta infatti un problema politico e quindi sarebbe meglio prendere Bertinotti sul serio. Il fastidio principale che lui provoca e impersona è l’irriducibilità del suo partito alla coalizione di centrosinistra. Malgrado tutto, nonostante gli appelli e i richiami, Rifondazione non accetta in modo integrale la logica binaria degli schieramenti. I neocomunisti si rifiutano di rappresentare solo un’area di testimonianza, e di farsi cooptare e neutralizzare in chiave compromissoria nell’alleanza che sostiene il governo Prodi. Hanno dichiarato fin dall’inizio, cioè dalla data della vittoria elettorale dell’Ulivo (o più esattamente della sconfitta del Polo), che avrebbero dato via libera all’esecutivo di centrosinistra ma che tuttavia non si sarebbero fatti stringere in un accordo vincolante. Hanno tenuto fede a questo criterio, guadagnandosi un potere di condizionamento che nessuna frangia estremista possiede in altri contesti politici bipolari. Bertinotti ha giocato con sovrana abilità questo ruolo ambiguo, riuscendo anche a insinuarsi efficacemente fra Prodi e D’Alema, costringendo talvolta il governo dell’Ulivo a ballare ai suoi comandi come un orso in uno spettacolo circense di piazza. Almeno in un’occasione, con il voto contrario alla spedizione italiana in Albania, ha obbligato l’esecutivo a cambiare maggioranza sul filo della crisi di governo, inducendolo a un giro di valzer sicuramente imbarazzante sotto il profilo della linearità politica. Ha dimostrato così di essere pronto a colpire il centrosinistra, anche se il rapido rientro nei ranghi successivo – come se niente fosse accaduto – non ha chiarito fino a che punto Rifondazione comunista è disposta a spingersi nel caso di una scelta senza margini di recupero. È opportuno allora circoscrivere quali sono i punti caldi del rapporto fra centrosinistra e Rifondazione comunista, per esaminare se effettivamente cisono alcuni temi non negoziabili, sui quali Bertinotti può giungere ad ammazzare l’orso che finora ha fatto danzare con tanta abilità al suono della sua fisarmonichetta politica. Il punto su cui c’è una generalissima convergenza di opinioni riguarda inevitabilmente la riforma dello stato sociale. Spesso infatti le posizioni di Bertinotti sul ridisegno del welfare appaiono meccaniche. Si assiste in genere da parte sua a una difesa a oltranza di schemi redistributivi che oggi appaiono condannati, oltre che dall’insostenibilità economica e dalla loro farraginosità particolaristica, dalla loro essenza di produttori di iniquità sociale. È il caso, ogni volta citato, delle pensioni di anzianità. Si può pensarla come si vuole, ed è certamente legittimo avvertire nelle resistenze bertinottiane l’eco del suo socialismo pauperista, che accetta le distorsioni del welfare all’italiana proprio in quanto spalmano comunque redistribuzione sulla società italiana, miscelando privilegi e assistenzialismo e producendo così una media dal sentore socialista, anche se con sfumature brezneviane. Ammesso e non concesso, ad esempio, che una Usl possa apparire più «socialista» di un sistema sanitario che integri pubblico e privato, si tratta di capire se è immaginabile che Rifondazione comunista e il suo segretario siano disposti ad affossare il primo governo con la sinistra al potere nel nome della difesa meccanica di un modello di protezione sociale sgangherato. Considerando il comportamento di Rifondazione comunista durante il 1996, e la ginnastica parlamentare che ha portato al varo di provvedimenti finanziari per centomila miliardi, sembrerebbe più logico aspettarsi da Bertinotti una trattativa modulata, ora aspra e ora politicista, ma tendenzialmente non proiettata fino alla rottura. Anche perché lui, l’irriducibile, non è affatto immobilizzato nei dogmi. Nel maggio 1996 sosteneva: «L’Europa deve allontanarsi da Maastricht e ricordarsi dei suoi 18-20 milioni di disoccupati. Urge una revisione radicale dei parametri perché l’Europa politica è il rovescio di quella di Maastricht: le banche e i mercati sono da una parte, gli Stati dall’altra». Dopo di che, ha via via corretto questa impostazione, accettando il processo dell’unione monetaria; e in ultimo è diventato un sostenitore dell’Euro «per tutti i paesi», limitandosi a criticare le fissazioni sui decimali del deficit (3 per cento, 3,2 per cento…) e a sostenere l’esigenza successiva di un’Europa che faccia politica economica, e che quindi moduli i parametri in funzione di una politica di sviluppo (anziché guadagnarsi le consuete esecrazioni, ottiene nella diretta televisiva di Pinocchio del 27 maggio scorso l’assenso benevolissimo di Mario Monti). Dove invece il capo di Rifondazione ha lasciato intendere di non lasciare margini è stato sul piano della sua esistenza politica. Ogni volta che Massimo D’Alema ha dispiegato la sua ostilità verso di lui, e verso l’insofferenza per il singolare equilibrio tattico stabilitosi tra Rifondazione e Prodi, e ha manifestato la velleità di «stroncare» politicamente e soprattutto elettoralmente l’estrema sinistra, Bertinotti si è rivoltato, proprio come quell’animale così méchant che a prenderlo a bastonate reagisce a morsi. Da questo punto di vista, Bertinotti è davvero una bestia cattiva. Ha preso Rifondazione comunista che era un partito sopravvissuto, un’isola flagellata dai marosi, un bastione dinaufraghi del comunismo ancora legati a un’idea piuttosto tetra della politica, e ne ha fatto un fenomeno alla moda, trasformandolo in un agglomerato postmoderno che raccoglie gran parte dei fenomeni, sociali e intellettuali, di resistenza alla «fine della storia» e al «pensiero unico» (secondo la felice definizione del direttore di Le Monde Diplomatique Ignazio Ramonet). Sarebbe curioso che accettasse di sacrificare questo risultato ai progetti di razionalizzazione del sistema politico attraverso le formule di qualche riforma elettorale tranchante. No, non ci si sbarazzerà facilmente di Rifondazione comunista. Grazie a Bertinotti essa è diventata un prodotto per certi versi artificiale, ma per altri aspetti inestricabilmente legato alla natura dei processi sociali contemporanei. Il segretario dei neocomunisti è riuscito a proporre come un prodotto coerente un sincretismo politico-ideologico capace di miscelare tutto. In parte è immerso nella cultura del Novecento: in un socialismo libertario che non si rifiuta al romanticismo, nell’esperienza di un sindacalismo rivendicazionista che privilegia l’espressività e la soggettività contestativa (e continua a considerare l’azione sindacale come la conquista di diritti e di livelli retributivi); ma anche nei filoni più sedimentati della cultura del secolo, nel richiamo al keynesismo e alla traiettoria socialdemocratica. E perfino con gli estremismi rivoluzionari vagheggiati dalla componente trotzkista interna al Prc. L’eclettismo di Bertinotti si protende poi verso quei temi che rendono più problematica e stressante l’attuale fase storica. Guarda alla Chiesa, ai movimenti cristiani, e dimostra attenzione alle censure di Karol Wojtyla contro le distorsioni del mercato capitalistico. Si anima di fervore per i centri sociali dell’ultrasinistra urbana fino a dichiarare il proprio favore per i rapper della musica alternativa. Elabora le sue teorie sulla globalizzazione, con una certa indifferenza verso chi gli oppone che i suoi convincimenti economici, se interpretati in piena coerenza, porterebbero dritti all’autarchia. Quando gli segnalano che la ristrutturazione europea è resa obbligata dalla concorrenza dei paesi asiatici, che agiscono in condizioni di favore grazie a un minore contenuto di tutela sociale per unità di prodotto, non esita a proporre sistemi compensativi, forse senza ignorare che anche i democratici americani, nei primi anni Sessanta, studiavano l’opportunità di compensazioni tariffarie contro il dumping sociale delle economie asiatiche. Sviluppa poi le sue idee sulla società postfordista, nella convinzione che alla crisi epocale dell’occupazione si può rispondere solo con «la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», sostenuto in questo dalle analisi di chi osserva, come l’apocalittico profeta della «fine del lavoro» Jeremy Rifkin, che negli ultimi quindicivent’anni anni il premio alla rendita finanziaria è stato giudicato sacrosanto, mentre la richiesta da parte dei lavoratori di redistribuire i profitti è stata valutata più o meno alla stregua di un sabotaggio. In tutto questo c’è un’evidente vocazione postmoderna. Ma c’è anche, nell’azione politica dell’eresiarca salottiero, perfettamente collocato nella mondanità, un contenuto forse sin qui sottovalutato. Perché il bertinottismo, evoluzione estrema dell’estremismo, è uno degli strumenti che consente ditenere nel circuito politico un’area che in sua assenza rischierebbe di cadere fuori dall’arena della mediazione politica, rifiutando il voto e quel tanto di partecipazione che è ancora praticabile. Certo a sinistra infastidisce la concorrenza che esercita. Ma chi reputa un’insidia per la vicenda democratica l’impoverimento della partecipazione, l’astensionismo elettorale, l’autoesclusione rassegnata dall’esperienza politica delle frange socio-politiche marginali, dovrebbe anche guardare alla presenza e all’azione di Rifondazione comunista come a fattori che inibiscono un depotenziamento della vita democratica. Senza dire poi, in conclusione, che il Bertinotti-pensiero è un’ottima e costante occasione per mettere alla prova l’adeguatezza delle proprie opinioni. Se è vero che «è un’eccellente esercizio rinunciare ogni mattina a un’idea prediletta», il radicalismo del leader di Rifondazione comunista è un ottimo banco di prova per sperimentare ciò di cui si è convinti e misurarne l’adeguatezza rispetto alla realtà. La società italiana è talmente anchilosata dalle sue rigidità, dalle sue stratificazioni fossilizzate, che l’esercizio di politiche liberalizzatrici ha ancora davanti a sé territori amplissimi e una infinita quantità di nodi da sciogliere e di lacci da slegare. C’è un imponente lavoro da fare, insomma, per i liberali. Ma se il liberalismo, e il liberismo, all’italiana propendono a cristallizzarsi in una sorta di massimario, se la vulgata si risolve nell’esporre formule e ricette preconfezionate anziché individuare i problemi e studiare adeguatamente le soluzioni, ben venga la provocazione di Bertinotti, l’antidoto.

Facebook Twitter Google Email Email