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A tutto Totò

07/12/2000

Chi è, alla fine, Totò? «Un sogno dentro un sogno», conclude Marco Giusti nella prefazione a "Totò si nasce (e io modestamente lo nacqui)" in cui ha raccolto per Mondadori il Totò memorabile. Cioè tutto. Le battute dei film, dalle più celebri alle meno ricordate; ma anche le dichiarazioni, le interviste, le partecipazioni televisive, gli sketch, le riflessioni, le poesie, le canzoni, i ricordi. Con un ampio materiale inedito o dimenticato che rivive nel video allegato al libro. Accostati, anzi blobbati senza distinguere tra la verità e il cinema, fra il teatro e la vita, i due Totò, il guitto e il principe, il poeta sentimentale e il nobiluomo presunto, continuano a sognare una propria identità esclusiva. Con la conseguenza che i limiti di realtà e finzione vanno debitamente a catafascio. Lo spettacolo è totale. Che sia Fellini a parlare di Totò, o Totò a discutere di Fellini, cambia pochissimo. Che il principe Antonio de Curtis commenti le fatiche di Pasolini per tenerlo nel solco delle battute scritte sta a dimostrare che in scena o sul set Totò è Totò, incorreggibile anche di fronte al testo intoccabile di "Uccellacci e uccellini". Dopo di che, si tratta di evitare un’agiografia ulteriore. Di fenomenologie di Totò ce n’è in abbondanza. Tanto per dire, dopo il testo canonico di Goffredo Fofi, che ne aveva identificato la carica rivoluzionaria, un paio d’anni fa ci si è messo anche un intellettuale sofisticato, Roberto Escobar, con un saggio che interpretava Totò come archetipo della condizione esistenziale italiana. Filosofia di Totò, strati antropologici rimescolati per spiegare l’immortalità di una maschera: credevate che fosse un’antologia? Citazioni a iosa? Battute peregrine? Un Karl Kraus del cazzeggio? Macché antologia: è un’ontologia, un discorso sull’Essere. Per questo si scopre gente insospettabile che sa a memoria l’intera filmografia: un anglista di prestigio internazionale come Piero Boitani, autore di libri bellissimi sul mito di Ulisse, è capace di intrattenere una tavolata per ore citando Totò e imitandolo alla perfezione. E in Totò ci dev’essere una qualche modernità connaturata, quindi non solo provinciale, se di recente un ciclo di film a New York ha suscitato entusiasmi anche negli americani. Moderno, forse, per una schizofrenia continuamente ricomposta. Il comico più importante dell’anteguerra, talmente potente da potersi permettere di "parlar male di Mussolini", che nel dopoguerra si costruisce il mito del grande borghese. L’eversore del linguaggio e del senso, irresponsabilmente ilare, che si autodefinisce «un funerale di prima classe», tristissimo, desolato, un mortorio. Con quella doppiezza irrinunciabile che nel 1950 lo induce, lui monarchico, conservatore, "di destra", a scrivere una lettera aperta a Oscar Luigi Scalfaro, pubblicata dall’"Avanti!": «Ho appena appreso dai giornali che Ella ha respinto la sfida a duello inviataLe dal padre della Signora Toussan, in seguito agli incidenti a Lei noti. La motivazione del rifiuto di battersi da Lei addotta, cioè quella dei princìpi cristiani, ammetterà che è speciosa e non fondata…». Nel caso, si sa che Scalfaro aveva maltrattato in un ristorante una signora troppo scollata per i suoi gusti: ma quel che conta è che sotto la superficie conformista del principe de Curtis viene sempre fuori qualche tratto di insofferenza, un "ma mi faccia il piacere", un gesto che tradisce un che di libertario, un impulso anarchico. Doppio, talmente doppio da poter dire «Io non amo Totò», e giù insulti verso quel suo compare così irritante: «La maschera di Totò, ebbene, io la disprezzo». Eppure consapevole di essere, grazie alla maschera, un personaggio pubblico, continuamente ripreso dai cinegiornali, idolatrato dal popolo, oggetto di devozione nel mondo dello spettacolo. Lo stesso Pasolini, dopo che il grande Totò aveva sbagliato la battuta per 22 ciak consecutivi, e chiedeva ansiosamente «sono andato bene?», dimentica ideologie e teoremi, e amorevolmente gliela accorcia. (Mentre Totò risponde con un dito nell’occhio: «Questo Pasolini, pasolineggia un po’ troppo. Siamo arrivati a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film stiamo facendo»). Gli esperti di audience dicono che tra i film coevi i suoi sono gli unici ancora in grado di reggere la prima serata. Sarà perché gli anni Settanta sono stati una fucina di totomani, che hanno trasmesso l’adorazione anche ai ragazzini, dando il via a una catena di san Totò. Oppure perché se facendo zapping si cade dentro un film scatta irresistibile il desiderio di risentire la dettatura a Peppino della lettera alla malafemmina: «Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi…», o il gay-nonsense di "Totò e Cleopatra": «Scusami, invece di darti sei schiavi traci, ti ho dato sei schiavi froci». E quindi qualcuno potrà ancora commuoversi alle parole sentimentali dell’orazione funebre di Nino Taranto a Napoli: «Addio Totò, addio amico mio. Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore…». Solo che, come ricorda Giusti commentando il finale del libro, il discorso era rivolto a una tomba vuota. Il funerale vero, al principe, l’avevano fatto a Roma. Il funerale «parte napoletano e parte no, pèo» era stato allestito, come era inevitabile, per il suo doppio.

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