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Saremo sempre Sanremo

03/03/2005

Da quando abbiamo riconosciuto, grazie soprattutto a critici di professione gramsciana come Gianni Borgna, che Sanremo non è semplicemente uno spettacolo, ma un’autobiografia del paese, non si sa più come guardarlo, il Festival, e neanche perché. Da quando poi, oltre che una scheggia di identità nazionale e uno specchio del costume isole comprese, è diventato un fenomeno politico di occupazione dell’immaginario, ad esempio con la direzione artistica del socialista e berlusconiano Tony Renis, oppure con le minacce ovaiole di Giuliano Ferrara contro Roberto Benigni, il suo palcoscenico si è fatto incandescente. Ma della gara, o delle canzoni, a chi interessa più? Adesso gli esperti di tv dicono che il cantante abbassa lo share. Eppure per decenni il Festival è stato una parola magica. Sanremo è un imprinting senza scampo dal 29 gennaio del 1951, allorché la radio mandò in onda il primo Festival della canzone dal Salone delle feste del Casinò. La prima edizione si svolse in un’Italia già divisa in due dalla guerra fredda e dal 18 aprile 1948. Fu vinta da "Grazie dei fiori", celebre per l’interpretazione di Nilla Pizzi, che sarebbe stata attorniata per anni, in quanto "regina" dalle figure nostalgiche del divismo musicale e canoro di allora, il direttore d’orchestra Cinico Angelini, il presentatore Nunzio Filogamo, i cantanti Achille Togliani e il duo Fasano, Gino Latilla e Giorgio Consolini. Alcuni versi d’epoca sono indiziari della retorica sentimentale e del tono provinciale: «Dio del ciel se fossi una colomba». «Campanaro della Valpadana, per chi suoni la campana». «Tamburino del reggimento che suonavi alle cinque in punto». «Vecchia villa comunale, sei rimasta tale e quale». Trattasi di rime da catasto. Oppure di moralismi, bigotterie, trombonate, vecchie scarponate. Benché fin dal 1953, terza edizione, ci fossero oltre 60 inviati a seguire il Festival, se dovessimo giudicare l’età degasperiana dalle parole delle canzoni i Cinquanta apparirebbero soprattutto piagnoni, donne che pregano, mamme che imbiancano, barche che tornano sole; e valutando la dilagante nostalgia pelosa della sana povertà del passato, il giudizio sul regime democristiano sarebbe impietoso. Ma anche dopo, dopo gli anni grigi della prima ricostruzione e i gesti bianchi di Pio duodecimo, il Festival è elusivo. Non è rimasta traccia, per dire, né della Cinquecento né della Vespa, nel lessico di Sanremo: non c’è insomma una canzone che abbia fissato in forma autenticamente popolare i simboli della mobilità degli italiani, le utilitarie che hanno consentito di andare in fabbrica e di soddisfare l’aspirazione al weekend. (Per essere obiettivi fino in fondo, il Festival, mentre tutto cambiava, è riuscito anche a planare inconsapevole nella Seconda Repubblica, a dispetto di Tangentopoli e restando indenne dal maggioritario). È scienza comune che per trovare l’eco della modernizzazione, il chiasso festoso del boom, bisogna arrivare a quel 1958 in cui Modugno deflagra con "Nel blu dipinto di blu", che diventa orgasmicamente "Volare", braccia spalancate nel decollo, un tuffo in un quadro di Chagall nonché, metaforicamente, nel miracolo economico. Ma sarà vero? È sarà vero che il Festival ha modellato gusti, atteggiamenti e comportamenti degli italiani, di tutti i figli di Bubba, in tutta la terra dei cachi? Certo li ha registrati, intensificati e rimessi in circolazione, facendoli diventare di massa. Ha celebrato il mammismo, il giovanilismo, la protesta, la contestazione, «ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà» (Mogol), il riflusso, l’edonismo, le vacche grasse e magre, «sugli sugli, bane bane, tu miscugli le banane» e «buongiorno Italia con gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente» (Toto Cutugno, of course). All’inizio degli anni Sessanta, quando a fare il reportage per l’"Europeo" ci andava Oriana Fallaci, Sanremo ha lanciato gli "urlatori", e soprattutto Mina e Celentano, che rappresentavano l’immagine anche fisica di una clamorosa innovazione di voci e di gesti, che importava un’America teppista. Può darsi che allora, quando i Sixties erano ancora ben lontani dall’essere "fab", l’ex Baby Gate e l’insolente Adriano fossero effettivamente gli emblemi di un paese giovane, che si liberava a strattoni dai codici. Una generazione cresciuta fra l’hula-hoop, lo scubidù, il twist, e il fantasma del sesso. Difatti, quando Mina canta "Tua", una canzone del repertorio di Tonina Torrielli e di Jula De Palma, vengono fuori inclinazioni erotiche esplicite. Ha spiegato Gianfranco Manfredi, cantautore e scrittore, che per la Torrielli era la dichiarazione d’amore coniugale di una donna onesta, modesta, virtuosa, fedele; la De Palma ne fece una cosa spaventosamente sexy, terrorizzando la tv democristiana e giocandosi la carriera; Mina, la "teddy girl" irridente di «bllll… le mille bolle blu», ne ricava una cosa tutta superficiale, niente di importante, una scopatina da considerare con un’alzata di spalle. Dopo di loro, ci sarebbe ancora stato spazio per alcune rivincite della tradizione, ma poche: ad esempio nel 1964, allorché la sedicenne Gigliola Cinquetti spopolò con "Non ho l’età", «lascia ch’io viva un amore romantico», tipico caso di revanscismo della morale sessuale tradizionale dopo che fin dal 1963 si erano consumati guancia a guancia galeotti sulle note brividose di Sapore di sale («che hai sulla pelle, che hai sulle labbra…»). Vabbè, Sanremo è una macchina onnivora. Qualunque fenomeno sia registrabile, il Festival ne diviene il catalogo. Ci sono i cantautori, è emersa la "scuola di Genova"? Occasione sontuosa per le famiglie incattivite, che tifano per il reuccio Claudio Villa e/o per Luciano Tajoli contro tutti gli altri, di massacrare il sofisticato "valzer musette" di Bruno Lauzi e il gregoriano sepolcrale di Gino Paoli, occhiali scuri e «ieri ho incontrato mia madre, ed era in pena perché». Desiderano lorsignori un’atmosfera nazional-popolare? Quel che ci vuole è Peppino Gagliardi che canta con il rosario fra le mani. O preferiscono forse il côté internazionale? Ecco Paul Anka, Gene Pitney, Petula Clark, Françoise Hardy, Dionne Warwick, Timi Yuro, i Minstrels, i Surfs. Dunque non si poteva mancare nemmeno l’appuntamento con l’era "beat", allorché esplodono i Beatles, le ginocchia delle ragazze avvertono l’eccitante brezzolina sollevata da Mary Quant, e nel 1966 sulla Riviera sbarcano gli Yardbirds, i Renegades, ad affiancare l’Equipe 84 e Caterina Caselli, con Mike Bongiorno che rilascia esclamazioni di sbalordimento borghese, forse sincere, di fronte ai «gallinacci» e ai capelloni inglesi e italiani. Al Festival si è visto e sentito di tutto, dalla tragedia del suicidio impenetrabile di Luigi Tenco, un gesto che «va al di là di ogni sdrucciolevole simbolismo beat» (secondo l’enigmatica sentenza di Salvatore Quasimodo) agli show di Benigni su «Wojtylaccio», dal saltello di Joe Sentieri ai piedi scalzi di Sandie Shaw, dallo ye-ye al wo-wo, dal beat emiliano della Caselli alle trasgressioni di Patty Pravo e agli esordi più o meno punk di Anna Oxa. Si sono visti da un lato fenomeni nazional-familiari come frate Cionfoli e la coppia Al Bano & Romina, dall’altro le spericolatezze padane di Vasco Rossi e la provocazione bizzarra di una Loredana Bertè con il pancione finto, prima prova trash di gravidanza istrionica. Però ci passano tutti, Gaber, Morandi, Arbore, Tozzi, Ruggeri, Ramazzotti, Dalla, Vecchioni, Zucchero. Non si nega quasi nessuno, a parte i soliti intellettuali, De Gregori, De Andrè. Una volta, nel ’69, c’è passato anche l’inafferrabile, il misterioso e timidissimo Lucio Battisti: nei filmati in bianco e nero lo si vede che prende a roteare animosamente il braccio non appena parte il ritornello di "Un’avventura", e fa un po’ ridere (e un po’ commuove, altroché). E allora come si può interpretare il Festival? Ci sono due scuole: una dice che è proprio lo specchio della nazione; l’altra che è una vetrina che rispecchia solo la merce che mostra. Sta di fatto che quando Celentano nel ’66 cantò "Il ragazzo della via Gluck" (bocciata al primo turno) riuscì a vedere i problemi dell’urbanizzazione, ma anche l’anomia metropolitana, la desolazione di «case su case, catrame e cemento». Ciò che per Adriano in seguito sarebbe diventato una fissazione, in quel momento festivaliero era un’intuizione. Ma lo stesso Celentano, che quattro anni più tardi canta con Claudia Mori la temibile "Chi non lavora non fa l’amore", in cui il sesso coniugale è moneta di scambio e strumento di ricatto, reagisce all’autunno caldo con tutta la sua psicologia da maggioranza silenziosa, da incallito estremista di centro. Ormai lo abbiamo capito, Sanremo non è un frammento che rispecchia prodigiosamente tutta la nostra società. Però resiste a tutto, a un premio Nobel come Renato Dulbecco chiamato a fare il presentatore, al declino dei dati Auditel, alla sparizione di Pippo Baudo. Resisterà anche a Paolo Bonolis, perché è il "mondo di Sanremo", che esiste solo per alcuni giorni ogni anno: assomiglia alla vita reale ma non è la vita reale, riflette la società ma la deforma secondo canoni particolari, appare troppo finto per essere del tutto finto e troppo vero per essere realistico. Per questo il Festival è immortale (era immortale anche quando morì, negli anni del penoso oscuramento inflittogli dalla Rai): sopporta le ingiurie della realtà grazie al suo codice genetico di finzione, non crolla sulle sue finzioni perché incorpora, seppure stralunati, molti pezzi di realtà. Non è né di destra né di sinistra, né conservatore né progressista: è un mondo a parte, che una volta l’anno incrocia il nostro. Lo guardiamo come si guarda una stella cadente, sapendo che comunque non cadrà mai: perché l’Italia è un paese caotico e pieno di difetti, e invece il mondo di Sanremo, nel suo genere, sarebbe la perfezione, se valesse ancora quel vecchio detto, canta che ti passa.

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