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Quando scoprimmo di avere un cuore beat

13/11/2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA
Spettacoli / Note rivoluzionarie

Quelli che sono stati i bambini degli anni Cinquanta, cresciuti tecnicamente giocando a calcio sulle strade bianche, non appena si inoltrano nel decennio successivo sentono risuonare nel mondo Please Please Me dei Beatles, «le canzoni che stanno cambiando il mondo» secondo Tv Illustrazione Sorrisi e Canzoni, e pensano fra sé: ragazzi, è arrivata la rivoluzione. Nell’ aria spira una brezzolina leggera, un’ eccitazione superficiale ma entusiasmante: qualcuno dei più adulti è già andato a Londra, sa che cosa sono le cavern dove si esibiscono i "complessi", ha sentito il riff di chitarra distorta con cui Keith Richards ha messo un logo indelebile sulla musica del prossimo mezzo secolo. E allora qualcuno dei più svegli e mimetici comincia a farsi crescere i capelli, con prudenza per evitare shock famigliari, prima un centimetro, poi un altro. Gli oggetti dell’ epoca? Flipper, juke-box, blue jeans; poi le giacchettine, i berrettini e gli stivaletti del Quartetto di Liverpool. E all’ improvviso ci si ritrova nella sfolgorante epoca del beat: mentre il centrosinistra "storico" più o meno fallisce, e la politica è ancora lontana, qualcuno prova a dare una virata alla vita, alla cultura, alla musica, ascoltando di notte Radio Luxembourg. @_TITOLETTO nero sx:Tre chitarre e una batteria Le parole "giovani" sono: "sound", nel senso di tre chitarre e una batteria; "square", nel senso di conformista: ma l’ atteggiamento principale è l’ imitazione. Per la prima volta entrano nella scena italiana modelli che non sono né il melodico antico Claudio Villa, e neanche i melodici moderni Gianni Morandi e Rita Pavone, e meno che mai l’ urlatore Adriano Celentano. Capelli lunghi, i disegni optical di Courrèges, le minigonne geniali di Mary Quant. E naturalmente le chitarre dell’ équipe 84, dei Rokes, dei Nomadi, dei Dik Dik, dei Camaleonti. Perché come in tutte le emergenze storiche l’ Italia dà il meglio di sé nella capacità di imitare, tradurre, copiare. Il paradigma è: «E allora lo faccio anch’ io», che si tratti degli accordi duri di Satisfaction o dei rocchettini e delle melodie dei Beatles. Chi vuole un catalogo dell’ Era Beat può ricorrere utilmente a un libro recentissimo (Tiziano Tarli, Beat italiano. Dai capelloni a Bandiera gialla, Castelvecchi, pagg. 224, 14 euro). Già la parola "capelloni" è un’ etichetta distintiva su un’ immagine esteriore. La contestazione generale deve ancora arrivare, il Sessantotto pure, ma l’ idea modesta quanto spettacolare di farsi crescere i capelli rappresenta, se non una ribellione, una rottura di fase. Tutta sperimentale, impolitica, a tentoni. Eppure già in grado di spaventare la borghesia italiana, e soprattutto il Corriere della Sera, che sarà «il baluardo instancabile della campagna contro i beat», e che il 4 novembre 1965, dopo che un gruppo di militari ha aggredito i capelloni in Piazza di Spagna e alcuni pericolosi stranieri sono stati rimpatriati, affida a Paolo Bugialli una delle intemerate più grottesche contro la nuova "moda": «I capelloni, come li chiamano qui a Roma, sono quei tipi di apparente sesso maschile che portano i capelli lunghi come le donne…». E ancora: «Essi dicono di esprimere il tormento della generazione della bomba, e bisognerebbe buttargliela». E infine: «Come non si entra in India senza farsi l’ iniezione contro il colera, così non si entra in Italia con i capelli lunghi: siamo in casa nostra, abbiamo il diritto di ricevere gli ospiti che desideriamo, e questi non li vogliamo». Logico poi che per i capelloni più hard il Corrierone diventasse il Corriere della Serva. Così imparava a usare gli stessi argomenti che sarebbero stati sollevati da Adriano Celentano, il ragazzo del Clan, circondato dai suo amici (poi nemici) Don Backy e Gino Santercole, accompagnato dai Ribelli con il grande batterista Gianni Dall’ Aglio detto "Cocaina", avvinto alla ragazza del Clan al secolo Milena Cantù, poi soppiantata da Claudia Mori: «Visti di spalle chi è la donna non si sa». Da cui si capisce la diffidenza di una generazione intera per quel talento naturale, Adriano, che aveva cominciato con il rock e finiva reazionario marcio, dopo avere inflitto ai fan la grande trasgressione dei pantaloni bicolori: altro che idolo dei giovani, era un bamba di periferia pronto a scagliarsi contro quei «ragazzi che non si lavano», argomentazione sublime, e magari «si drogano» e «dimenticano Dio». Ma per piacere. L’ avanguardia beat, cioè un’ avanguardia sociale, diffusa, organizzata soltanto dalla musica, indifferente per il momento alla politica, quella "massa" che per la verità non ha ancora ascoltato il Bob Dylan apocalittico, ha voglia di pulsazioni vere, calde, bollenti, va bene tutto: Caterina Caselli che si dimena cantando una cover dei Them, Baby Please Don’ t Go, "alleluia-ià", e a Sanremo canterà con Sonny&Cher, sempre ubriachi, Il cammino di ogni speranza, inno mancato della pace universale. I Rokes che si fanno scrivere da Mogol è la pioggia che va, che ben presto fu eletta come «l’ inno nazionale dei capelloni», perché c’ era anche un po’ di malinconia, «quante volte ci hanno detto / sorridendo tristemente / le speranze dei ragazzi sono fumo…». @_TITOLETTO nero sx:Il tempo della protesta Perché è vero che di lì a poco sarebbe arrivata la protesta, e i Nomadi grazie a Francesco Guccini ispirato medianicamente da Allen Ginsberg avrebbero scodellato il pezzo epocale Dio è morto, ma si trattava di capire quale fosse questa protesta sociale o politica, che un pochino infastidiva gli adepti più filologici del beat. Bene Patty Pravo, che non protestava affatto, e più che altro con le sue esibizioni al Piper di Roma trasmetteva un’ idea di alternatività sexy, con gli stivali sopra il ginocchio e la minigonna ovviamente "mozzafiato" («i ragazzi – dice in un’ intervista – io li fumo come sigarette»). Meno bene Antoine, quello delle «elucubrazioni», che poi si rivelò un discreto cabarettista, con Pietre di Gian Pieretti, un altro che fece molti semi-plagi da Dylan e da Donovan, ma accompagnò addirittura Jack Kerouak in una speciale tournée italiana. E malissimo il volemose bene (e facciamoci del male) di Mogol, che per un Festival affidò a Gianni Pettenati La rivoluzione, destinata grazie al cielo a finire al più presto, e poiché ci siamo tolti il pensiero «mai più si farà». Il beat dura pochissimo. Il tempo di pensare una quasi filosofia, con una rivista come Mondo Beat che inseguiva una purezza beatnick inquinata dai commerciali dello yé-yé. Di sfumare nella protesta dei provos olandesi, quelli delle biciclette bianche, di intercettare una spinta antimilitarista, di spalancare gli occhi sulla guerra del Vietnam, di trasformare la liturgia religiosa con le messe beat: e poco dopo l’ innocenza è perduta. Non si poteva continuare a ritmare sulla batteria dei Sorrows «mi si spezza il cuor / dalla gelosia» mentre dal Quartiere latino a Parigi venivano tuoni di rivolta e di immaginazione al potere, mentre viceversa qualcun altro stava già pensando di mettere la bomba alla Banca dell’ Agricoltura. «Quando il potere ti fa sentire triste, l’ Equipe 84 ti fa stare bene»: il dadaismo un po’ provinciale degli slogan del gruppo "Onda Verde" è in definitiva la sintesi di alcune stagioni giocose, in cui il Cantagiro aveva intercettato la tendenza mondiale e Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, con il loro programma radiofonico del sabato pomeriggio, Bandiera gialla, avevano importato l’ aria di Londra e dell’ America di Barbara Ann dei Beach Boys. I più genuini ragazzi dei Sessanta sarebbero stati presto inghiottiti dal Sessantotto, ma difficilmente sarebbero finiti qualche anno dopo al Festival di Re Nudo al Parco Lambro, la nostra piccola Woodstock: chi era cresciuto leggendo avidamente settimanali come Giovani e Ciao amici e si era entusiasmato all’ idea che i Nomadi stessero per ingaggiare il chitarrista degli Hollies non poteva immaginare che la musica diventasse «un’ esperienza di liberazione». Loro, come no, pensavano di essersi già liberati.

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