gli articoli L'Espresso/

L’estate delle libertà

19/07/2001

Viva la libertà. Punto, virgola, punto esclamativo. Facciamogli vedere che non siamo tirati. Sulla scia dell’ormai storico grido emesso da Marcello Pera appena eletto presidente del Senato, l’onda libertaria esce dai palazzi, esonda dagli alvei, travolge gli argini. L’Estate delle Libertà è la sintesi stagionale del clima nuovo: il surriscaldamento del pianeta sarà una minaccia per i "no logo" incazzosi e gli antiglobalizzatori della mestizia cattolica che preferiscono Naomi Klein a Naomi Campbell. Ma, per l’Italia uscita dalla radiosa giornata di maggio, allorché la Casa ha dilagato in politica e nelle psicologie, è una grande, straordinaria promessa. Calda, la lunga estate annunciata dal centro-destra, caldissima come nell’inno di Max Pezzali, gambe che si scoprono, reggiseni di nylon trasparente, oli essenziali sulla pelle già abbronzata in via preventiva. Fatto è che, se non altro, la Casa delle libertà ha azzeccato il mood: il sentimento corale di un’antropologia naturaliter liberista, libertaria, libertina, costretta per un’eternità a subire i rigori di Ciampi e Prodi, e poi i rabbuffi di D’Alema, nonché le postume teorie riformiste di Giuliano Amato. Sai che allegria. Basta con le lagne, con l’incubo dell’Irap, con le complessità analitiche della "dual income tax". Adesso «turbo», come dice il lanciatissimo presidente della Confindustria, Antonio D’Amato. Politiche economiche tutte sul lato dell’offerta, perché i supply-sider sono più fantasiosi, e fra la curva a campana di Laffer e le domande di un quasi-Nobel, Paul Krugman ("Meno tasse per tutti?", con un irritante punto interrogativo nel titolo), il popolo delle partite Iva sceglie istintivamente la curva a campana, che rintocca meglio ed evoca prodigi. Il tono lo dà subito il premier, che non rinuncia al vissuto brianzolo da barzelletta: «Chi è?». «I ladri». «Meno male, credevo fosse la Finanza». Un po’ spente, le Fiamme gialle non protestano nemmeno più. Nel frattempo, i "moderns" come Letizia Moratti alla domanda su come va all’Istruzione rispondono: «Mi sto ancora staffando». Vèri inglisc. La gergalità anglofona viene corretta dall’idolatrato Giulio Tremonti, a cui non sembra vero di poter esibire il suo pastiche cosmopolita: la devolution di Umberto Bossi è la traduzione «semanticamente molto pregevole» del Programma, inclusa la debita «allure» costituzionale. Per rivaleggiare con la koinè di Tremonti, il re in canottiera Bossi si è limitato a commentare: se non vogliono darmi la devolution, «m’inc…». Bella parlata pop, in cui si realizza la coincidenza "maggica" fra il volgare dantesco e il ministeriale romano. Ma il vero punto di sintesi nazionale, il treno dei desideri in cui si incontrano le psicologie dell’ospite di Flavio Briatore al Billionaire (ancora meglio sui 67 metri dell’Altair) e del professionista-artigiano-autonomo del nordest in svaccanza a Lignano, è la Legge dei Cento Giorni, il sogno di mezza estate berlusconiano che dovrebbe ska-ska-skatenare la produttività italiana meglio che un karaoke da Umberto Smaila a Poltu Quatu. Facendo turbinare il common rail dell’economia. E dentro la Legge, preziosa come un’entità metafisica, ecco il Prodigio, cioè la Tremonti bis. L’aspettavano, la desideravano, la imploravano: perché la legge sugli utili reinvestiti piacerà pure alle grandi imprese, ma fa commuovere i piccoli, spreme emozioni, procura languori kierkegaardiani e anti-viscali. Con il pensiero segreto che unisce nel tremore l’avvocato e l’idraulico: «Mi rifaccio la macchina!». Evangelico: in effetti griderebbe vendetta negare a chi lavora la giusta Mercedes. Oppure, visto che la Tremonti premia anche gli investimenti in capitale umano, «mando la segretaria a fare un corso di inglese, e defalco». Defalcate, defalcate, qualcosa resterà. Resterà sicuramente l’eccitante chance del primo comandamento italico, «mi rifaccio la casa». Ristrutturazioni libere, qui dentro il padrone sono me. Ai grandi lavori e trafori ci penserà il ministro Lunardi ing. Pietro. Nella Valle dei Templi, se volesse, Totò Cuffaro potrebbe suscitare un movimento con lo slogan "Né con gli abusivi né con le ruspe". Qui in città, un bel soppalco, due muri spostati, e da un pregiato appartamento nel centro storico ne vengono fuori meravigliosamente due, «rispettando volumi e facciate»: ma, soprattutto, non ci saranno schizzinosi tecnici comunali a eccepire sugli schizzi del geometra. Altro che "tre i", alla triade internet-inglese-impresa bisogna aggiungere il francese: laissez- faire, enrichissez-vous, Turgot più Guizot. Ma il fatto è che questa "renaissance" anarchica è entrata sotto la pelle degli italiani. I quali non si fanno scoraggiare dalle sortite più grevi, tipo Gasparri che tenta di sputtanicchiare Lasorella, o quelli di An che si "inc…" con la Lega perché il reato di immigrazione illegale volevano introdurlo loro. Ma che invece fanno i loro calcoli sulle leggi più genuinamente familistiche, a partire dalla soppressione dell’imposta sulle successioni, l’iniquo balzello sulla robba. Soldi, Macchina, Famiglia, Padrone a casa mia: sono gli incipit delle strofe di una chanson molto italiana, così irresistibile da dissolvere nel vento anche l’improvvisato "Va’ pensiero" di Rocco Buttiglione: estemporanea trovata di un filosofo che non ha capito che l’Italia di Forza Italia s’è davvero desta. Quell’Italia mamelica e babelica, «preterintenzionale» secondo il politologo Ilvo Diamanti, perché non rispetta le prescrizioni dei costituzionalisti e si fa i comodacci suoi anche in politica, a dispetto dei modelli e delle regole (tanto, poi cambia trend anche il pregiato "Economist"). Che sente Vittorio Sgarbi reclamare imperialisticamente l’Obelisco di Axum. E poiché gli obelischi alludono fisiologicamente a quell’idea di virilità da esibire a bischero sciolto sulle spiagge accaldate della Riviera e nei locali di Porto Cervo, fra squinziette ghiandolari e vippone scalandrate, che cosa può rispondere alla domanda "a chi l’Obelisco?", se non "ma a noi, ça va sans dire"?

Facebook Twitter Google Email Email