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EXTRACOMUNITARIO, UNA PAROLACCIA

28.09.1997
sarà abolita dai verbali dei vigili di Torino: è razzista

Ieri il vicesindaco di Torino Domenico Carpanini, intervenendo a un convegno dedicato a «Il senso della sicurezza», ha detto che il termine «extracomunitario» verrà espunto dal vocabolario delle istituzioni cittadine. Non figurerà più nei documenti pubblici e nemmeno nei rapporti dei vigili urbani. Lì per lì qualcuno avrà pensato al repentino attacco di un virus legato alla sindrome del politically correct. La sinistra infatti è sensibilissima alle parole: per i suoi critici, più di quanto talvolta sia sensibile alle cose. Eppure, per una volta un eccesso di critiche sarebbe fuori luogo. Col tempo, l’aggettivo e il sostantivo «extracomunitario» hanno perso la pretesa di neutralità lessicale che voleva caratterizzarli quando sono stati coniati. Allora volevano ridurre a una categoria indistinta, non connotata né da colore né da lingua né da diversità ciò che era percepito immediatamente come diverso. Lentamente invece, in seguito alle sedimentazioni dell’uso, «extracomunitario» è diventato in pratica un sinonimo di «africano». Nessuno si sognerebbe di chiamare in quel modo uno svizzero, un americano o un giapponese; anche quando commette reati gravi, un albanese rimane un albanese (inoltre, per puntiglio si potrebbe ricordare che alla «comunità» si è sostituita ormai l’«unione» europea). Le parole non sono quasi mai oggetti clinicamente sterili: si portano sempre dietro qualcosa di simbolico, qualche infezione emotiva. Quando Bossi ha attaccato il papa, è stato rilevato che chiamandolo «polacco» lo equiparava a un lavavetri. C’è tanta sofferenza sociale, potenziale ed effettiva, dietro l’immigrazione, che togliere di mezzo la fonte di un equivoco significa forse eliminare altri equivoci, altri strumenti per etichettare gli altri come l’insopportabilmente altro.

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