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Crisi e ricostruzione della destra italiana

05-06 2005

Talvolta i cambiamenti politici si verificano con una rapidità imprevista. Ma di solito l’impossibilità oggettiva di prevedere un fenomeno politico o un risultato elettorale, nonché le sue ripercussioni politiche immediate e di mediolungo periodo, dipende in larga misura dal non avere messo a fuoco il profilo reale della condizione che si è verificata. Sotto questa luce, è probabile che «l’evento» a suo modo sorprendente, o addirittura secondo qualcuno impressionante, rappresentato dalle elezioni regionali della primavera 2005 sia spiegabile attraverso alcune argomentazioni che sottraggono l’evento stesso alla categoria delle «catastrofi», intese nel senso di un fenomeno che designa una discontinuità radicale e improvvisa. È più probabile che quella discontinuità presunta configuri invece un addensamento di fattori, determinatosi in un periodo prolungato; e che l’aspetto in apparenza dirompente dell’esito elettorale riassuma a sua volta una sequenza lunga di fenomeni sociali e politici delineatisi a partire dal 2001, e in particolare dal momento della vistosa affermazione elettorale della Casa delle libertà ai danni del centrosinistra. Da allora si sono svolte tre tornate amministrative, che hanno fatto osservare altrettante battute d’arresto della coalizione di centrodestra, e una consultazione generale a esplicita caratterizzazione politica, cioè le elezioni europee del 2004, che hanno messo in rilievo una seria crisi della coalizione berlusconiana, resa più evidente dall’arretramento nettissimo di Forza Italia, il partito del capo al momento indiscusso della Casa delle libertà. Tuttavia in ognuno di quegli appuntamenti con le urne non si era potuta trarre la conseguenza di una nitida inversione di tendenza nella politica italiana. Anche nelle elezioni europee, infatti, il confronto fra le coalizioni si era risolto in un pareggio sostanziale, che di per sé prospettava un chiaro recupero effettivo del centrosinistra rispetto ai risultati delle elezioni politiche, ma non suonava ancora come una sconfessione popolare del governo di centrodestra. Tuttavia lungo i quattro anni dell’esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi si sono accumulate nella società italiana ragioni esplicite o silenziose di insoddisfazione verso la Casa delle libertà. È vero che un’analisi fredda e specialistica dei dati e dei flussi tende a ridimensionare il risultato finale, a scomporlo, a spiegarlo attraverso dinamiche parziali che attenuano l’effetto vistoso delle 12 regioni a 2 conquistate dal centrosinistra. Ma oltre alla descrizione «micro» c’è un risultato «macro», che di per sé può funzionare da ulteriore acceleratore della tendenza politica. Soprattutto sotto questa luce, le elezioni regionali sembrano avere riassunto in un solo pronunciamento tutte le ragioni, finora inespresse, o mai espresse compiutamente, che rappresentano un giudizio negativo verso il governo. Ci sono tante Italie. Fra queste c’è l’Italia colorata di rosa dei telegiornali, in cui la realtà è generalmente ammorbidita, abbellita, sfumata. Ma c’è anche un’Italia dove invece le cose sono le cose, né più né meno, non i riflessi pastello della realtà auspicata. Così, in un Paese che sembrava lievitare vagamente attonito nel mondo dei sogni, il 3 e 4 aprile, cioè nei due giorni in cui si sono tenute in 13 regioni le elezioni regionali, sono venuti giù il fondale, il palco e il sipario dell’operetta. Si può dire senza rischiare eccessi polemici che la fiction si è interrotta. L’«irreality show» politico dell’Italia contemporanea (la definizione è notoriamente di Ilvo Diamanti) ha chiuso bottega all’improvviso, e i partecipanti hanno cominciato a guardarsi intorno smarriti, sorpresi, comunque attoniti come dopo l’arrivo di un temporale fuori stagione. Gli effetti sono stati subito vistosi, come succede quando si verifica nell’evidenza della realtà un avvenimento a lungo augurato o temuto. Come conseguenza primaria, nel giro di pochissime ore la figura di Silvio Berlusconi ha subito una mutazione totale, trasformandosi da deus ex machina dell’alleanza di centrodestra, e anche da cardine dell’intero sistema politico bipolare, in problema politico centrale della Casa delle libertà. Al punto che nelle ore e nelle settimane successive al voto, il suo ispiratore più intelligentemente oltranzista, il direttore del «Foglio» Giuliano Ferrara, gli ha rivolto ripetutamente discorsi inediti: caro Cavaliere, lei ha avuto un ruolo essenziale nel bloccare la «deriva» giudiziaria, e nell’imporre il canone dell’alternanza; adesso è il caso di costruire una strategia d’uscita, traumatica ma non irrealistica, consistente nel giocare la partita delle elezioni politiche a breve scadenza, nella serena accettazione della probabilità di perderle, e nel frattempo preparando razionalmente la propria successione. Questa svolta della politica italiana è risultata spettacolare in sé, ma tutt’altro che immotivata, tutt’altro che gratuita. La prima impressione è che nell’anno 2005, prendendo al volo l’occasione offerta dalle elezioni regionali, la società italiana abbia deciso di comunicare, al leader e ai dirigenti della Casa delle libertà, che dopo avere a lungo creduto al sogno e alle sue sequenze principali, vale a dire al presidente operaio, al «meno tasse per tutti», al contratto con gli italiani firmato alla presenza di Bruno Vespa, alla stilografica, al cerone, al ritocco, al trapianto follicolare, al riformismo avventuroso e al miracolismo berlusconiano, era l’ora di tornare alla sostanza vera e irriducibile delle cose. Anche se si trattasse soltanto di un cambiamento di clima politico, o di mood sociale, non è un cambiamento da poco. Prima c’era quell’Italia che ammirava la spregiudicatezza mediatica e l’immagine esteriore di Silvio Berlusconi: il lifting «leggero», la bandana sotto il sole di Sardegna, i capelli che ricrescono, e perfino «faccio tutto quello che facevo a trent’anni, è concessa anche l’interpretazione maliziosa». Adesso la realtà, che solitamente è assai più sgradevole dei sogni, riprende il sopravvento. Finisce, o rimane stordito e inerte, il populismo elettronico, svapora l’importanza sovrana del look, sfuma il fascino estremista dell’ideologia «moderata». Dopo quattro anni il Paese si ritrova nella dura realtà fenomenica. Dentro la durezza delle cose. A confronto con le azioni politiche e i loro risultati. Non è chiaro dove e quando sia avvenuta la mutazione climatica. Ad avere un ruolo principale sono state probabilmente le ragioni economiche, dal momento che dal 2001 a oggi il Paese ha vissuto nell’attesa continuamente frustrata della ripresa. Tuttavia ci sono anche aspetti non quantificabili, che hanno valore di sintomo: aspetti immateriali, che fanno da sintomo a un cambiamento in profondità, a un lento, e alla fine spettacolare, cambiamento d’umore. Sotto questa luce, un indizio può essere considerato l’esito ottenuto da Alternativa sociale, il partito di estrema destra fondato da Alessandra Mussolini dopo la rottura con Alleanza nazionale (in seguito alle dichiarazioni di Gianfranco Fini in Israele circa il fascismo delle leggi razziali come «male assoluto »): nonostante un’esposizione pubblica fuori misura, determinata dal dramma multimediale della bocciatura delle sue liste nel Lazio, delle previsioni che le assegnavano un voto potenziale fino al 9 per cento, e a dispetto del suo efficace populismo incline al trash, la lista della Mussolini e dei suoi alleati di estrema destra ha incassato percentuali irrilevanti. In base ai risultati ottenuti, non ha potuto nemmeno rivendicare il merito della sconfitta di Francesco Storace. Il che significa che la visibilità televisiva e le polemiche strillate sopra le righe, così come l’alone di popolarità suffragato dal sostegno di Sophia Loren e altri parenti, non si trasformano necessariamente in consenso politico. Va da sé che tutto questo ha il sapore di un suggestivo ritorno alla razionalità. La seconda sorpresa è stata la sostanziale smentita della tesi sulla disattenzione dell’elettorato in seguito alla saturazione dell’informazione per l’agonia e la morte di Giovanni Paolo II. Benché le televisioni e i giornali siano stati inflazionati dall’effetto-papa, non c’è stata nessuna diserzione dalle urne. «Un sintomo di salute della nostra democrazia, qualcosa di rassicurante per chi ce l’ha a cuore», ha dichiarato Arturo Parisi nella notte del grande terremoto elettorale, a proposito di una partecipazione più elevata del prevedibile, e della smentita riguardante la «distrazione» dell’opinione pubblica. Si può aggiungere, per inciso, che la tenuta, anzi la leggera crescita, della Lega Nord sembra un altro tassello del ritorno alla realtà. Si era infatti sempre pensato che la Lega fosse una forza residuale, destinata prima o poi a essere fagocitata da Forza Italia. E invece sembra ormai chiaro che il Carroccio esiste in quanto entità politica autosufficiente, capace di resistere anche alla malattia che l’ha privata del suo capo. Tutti questi elementi sembrano confermare indirettamente che il risultato delle elezioni regionali, che in questa tornata ha lasciato alla Casa delle libertà soltanto il Lombardo-Veneto, covava da tempo come un fuoco sotto la cenere, o forse come una specie di ruggine sotto la vernice berlusconiana, e attendeva soltanto l’occasione per esprimersi e provocare i risultati dovuti, un falò delle vanità o il cedimento strutturale dell’impianto del centrodestra. Si è avuta insomma l’impressione immediata di un ritorno nella realtà aspra e difficile dell’Italia contemporanea. Ossia nell’Italia della metamorfosi industriale, delle tensioni finanziarie, dei redditi contesi fra ceti in lotta. Da questo punto di vista, l’improvviso bagno di realtà è stato anche un monito secco al centrosinistra: perché si dovrebbe capire facilmente che i voti ottenuti, e il sorpasso percentuale sulla Casa delle libertà, dissolvevano anche tutte le dicerie, le leggende, le mitologie, i pettegolezzi sull’Unione e la sua leadership. (Poi, come si è visto, c’è sempre la possibilità del suicidio, tecnica politica in cui il centrosinistra continua a rivelare doti inesauribili: ma questo è un altro discorso.) Eppure il cambio di clima politico non dovrebbe restare senza conseguenze. Innanzitutto, sarebbe auspicabile il ritorno alla realtà anche di tutti coloro, numerosi soprattutto nell’establishment economico, che hanno sempre mantenuto un’equidistanza altezzosa rispetto allo schema bipolare. Se il bipolarismo in una democrazia matura è uno schema politico che implica ragionamenti semplici, fino alla semplificazione, le conseguenze sono più o meno automatiche. La Casa delle libertà non funziona? E allora si prova l’Unione, non si va alla ricerca di una partita «terzista» o neocentrista giocata con carte immaginarie. Se dopo quattro anni di governo del centrodestra si chiede ad ogni pie’ sospinto, come fa il presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, di «mettere l’industria al centro dell’agenda», ciò vuol dire più volgarmente che finora Berlusconi si è fatto gli affari suoi, ha sistemato quasi tutte le pendenze giudiziarie, ha legificato a proprio uso e consumo con la legge Gasparri, ma dell’economia reale si è disinteressato largamente. Sarebbe anche interessante chiedersi come mai Berlusconi non abbia intuito, o abbia intuito solo in parte, il rovescio che stava per capitargli. Perché abbia tentato, con sempre maggiore fiacchezza, la carta dell’anticomunismo, l’ombra di «terrore, miseria, morte» se vince il Male, cioè la sinistra, con il risultato che in Puglia un comunista gay ha sconfitto un giovane clone berlusconiano. È vero che alla fine aveva quasi ammesso che per la Cdl la prova regionale sarebbe stata difficile, «perché l’economia non va bene». Ma evidentemente anche il premier era prigioniero di Mirabilandia, del mondo fantastico e pieno di balocchi illustrato ogni sera dalle soap opera dei tg di regime. Accecato dal proprio costrutto comunicativo. Incapace di rilevare le sacche di rancore che si sono create in questi anni nel corpo della nostra società (visibili talvolta con le rivolte dei pendolari per i treni inefficienti, con le drammatiche disfunzioni invernali sulle autostrade del Sud, con l’impoverimento del lavoro dipendente, con l’insofferenza dei ceti depredati dopo essersi rivolti fiduciosamente alla sua esperienza di imprenditore di successo per ottenere qualche briciola del banchetto). Perché se si accetta la logica di Berlusconi, la sconfitta alle regionali è inconcepibile. Come può maturare una batosta del genere mentre antenne e satelliti dipingono l’Italia come il Paese del sogno e la caduta dei consumi viene attribuita al fatto che gli italiani si sono messi a dieta? Com’è possibile che la realtà possa permettersi di smentire l’immaginazione, quando la fanta sia fiorisce in un giardino mediatico tenuto sotto ferreo controllo proprietario o politico? Sempre sul piano degli indizi, un piccolo ma significativo segnale, a volerlo cogliere, era stato anche il fiasco piuttosto deprimente della manifestazione fiorentina organizzata dall’ex commissario della Croce Rossa, Maurizio Scelli, con i giovani del nuovo movimento artificiale «Italia di nuovo». Altro segnale di sfasatura, la surreale serata di Berlusconi da Bruno Vespa, il giovedì prima delle elezioni, con le scritte in sovraimpressione che segnalavano «la trasmissione è registrata»: sicché mentre su tutti i teleschermi del mondo cominciava l’agonia di Karol Wojtyla, Berlusconi raccontava barzellette, veniva mostrato proprio a Firenze chez Scelli, mentre parlava sul palco con un trentenne corpulento e calvo, a cui impartiva consigli tricologici, alludendo alla buona riuscita del proprio trapianto ferrarese. Nella delusione del momento, il presidente del consiglio ha incolpato gli alleati, il «subgoverno» costituito dai politicanti Fini e Follini, rifugiandosi nell’amara constatazione che soltanto Umberto Bossi e la Lega si sono dimostrati amici fedeli. Già, ma il cosiddetto Asse del Nord è un’illusione, politica, fomentata inutilmente da Giulio Tremonti. Tanto più che la prima autentica irruzione di realtà nel Paese di Lucignolo fu segnalata proprio dallo schianto con cui cadde il ministro dell’Economia, «il nostro uomo migliore», il grande attaccante dalle soluzioni immaginose come la Tremonti-bis, il capo delle partite Iva, il genio della finanza creativa con cui suppliva alle ripetute disillusioni sulla crescita e alle smentite fattuali dei suoi Dpef. L’illusorietà politica dell’Asse del Nord è certificata dai suoi effetti politici e istituzionali. Per restare sottobraccio con la Lega, Berlusconi ha dovuto farsi in quattro per approvare una riforma costituzionale rudimentale, che non dispiace soltanto a Giovanni Sartori, a Domenico Fisichella, ai giuristi progressisti dell’associazione Astrid, ai «comunisti», ai passatisti, ai dossettiani: dispiace a tutti, compresi i suoi alleati dell’Udc e di An, che finora hanno trangugiato, ma domani, visto il disastro, anzi «l’ecatombe», secondo il commento dell’abbattuto Francesco Storace, decideranno che la riforma va messa nel ripostiglio della Casa delle libertà: anche perché si è visto che nel Centro Sud la devolution è diventata uno strumento di propaganda politica in mano agli avversari. Cosicché si è trattato davvero di un referendum: su Berlusconi e sul berlusconismo. Hanno votato «contro» molti di coloro che si erano lasciati prendere dall’euforia economica annunciata dal programma cartellonistico del 2001. E che magari negli ultimi mesi erano stati ampiamente delusi dalla riforma delle aliquote fiscali, cioè dalla grande «ricetta» del capo di Forza Italia, ritrovandosi pochi spiccioli in tasca dopo annunci portentosi e dopo avere subito l’incontrollata inflazione post-euro. In sostanza, è bastata una serata per fare transitare il leader forzista dal miracolo alla piatta realtà, dall’euroscetticismo trionfalistico dello strappo al Patto di stabilità ai richiami pesantissimi del commissario europeo Joaquín Almunia: insomma, dal sogno al disagio del risveglio, gusto amaro in bocca, irritazione con amici e avversari. Alle prese con le modeste tristezze quotidiane dell’Italia vera. E allora che cosa fa un capo populista quando gli alisei girano male? Procede a tentoni come Berlusconi nei giorni seguenti la sconfitta elettorale. Cerca di inventarsi la tattica momento per momento. Si presenta in televisione «umanizzandosi », rischiando le ironie e le risatine di Rutelli. Prima evita la crisi con un’acrobazia circense, lasciando storditi gli alleati, An e Udc, a cui aveva promesso seppure a malincuore il «nuovo inizio», cioè un nuovo governo; poi si lascia avvolgere dalle spire della crisi stessa; infine si ritrova nel gioco, per lui mortificante, delle consultazioni, degli incontri al Quirinale, delle trattative con gli alleati riottosi. Tutto troppo complicato, faticoso, frustrante, per un capo politico abituato a far passare le sue decisioni come linea politica indiscutibile. Sono trascorsi solo pochi mesi da quando aveva sciolto con un colpo di volontà il velo moderato con cui gli alleati lo avevano (quasi) convinto ad abbandonare la riforma fiscale con il taglio delle aliquote dell’Irpef per privilegiare il sostegno alle imprese. Era bastata una decisione personale, un’alzata d’ingegno per tornare al punto di partenza, per riprendere il filo della sua politica economica in versione supply side, per riaccendere l’ottimismo secondo cui, tagliate le tasse, ripartirebbero festosamente i consumi. Invece, nella breve comunicazione rilasciata al Senato con cui accettava finalmente l’apertura della crisi di governo, si era lamentato platealmente delle pastoie costituzionali, pensando al momento liberatorio in cui la riforma costituzionale della Casa delle libertà consegnerà al premier i poteri del dominus. Ma per il momento, dopo avere accettato con riserva, secondo la prassi, il reincarico del Quirinale, Berlusconi ha dovuto sottomettersi alle cerimonie partitiche tradizionali, agli incontri per la valutazione degli equilibri politici nel governo, al calcolo del peso dei ministeri, alla discussione dei nomi da aggiornare, da cancellare, da ripescare. Con il risultato che la nascita del nuovo governo non è stata così indolore come l’ottimismo berlusconiano voleva prevedere e come gli alleati gli avevano promesso. In primo luogo, il ritiro da Palazzo Chigi del segretario dell’Udc, Marco Follini, è stato il sintomo chiaro di uno smarcamento politico che ha immediatamente qualificato il Berlusconi-bis come un governo sotto osservazione. In secondo luogo, non era per nulla facile procedere al riequilibrio (esplicitamente in chiave antileghista) che Fini e Follini reclamavano dal premier. Nonostante tutte le rassicurazioni, le lettere di intenti, le garanzie offerte, le promesse pubbliche, gli incontri si sono susseguiti freneticamente, le insoddisfazioni si sono diffuse, gli elenchi dei ministri sono cambiati di ora in ora. Anzi, su questo terreno si è assistito a qualche conseguenza del tutto paradossale. Perché la semplice osservazione della composizione del governo basta a comprendere che Berlusconi non ha proceduto a una mediazione politica, e neppure alla ricerca della sintesi che gli veniva richiesta. Da un lato, si è limitato piuttosto a spartire i ministeri, liquidando senza troppo chiasso qualche ministro tecnico, in modo da fare spazio a una personalità forte di An come quella di Francesco Storace, caduto dalla condizione di asso politico a vittima dell’ondata di centrosinistra sollevatasi alle regionali, e ad ammiccare al Mezzogiorno, creando un ministero specifico. Ma, da un altro lato, si è capito che questo Risiko, che ai vecchi tempi del pentapartito si chiamava più modestamente gioco dei quattro cantoni, non è risolvibile con l’algebra del vecchio manuale Cencelli. Perché oggi il problema di fondo della Casa delle libertà non è affatto un problema di equa suddivisione delle quote di partito. Si trattasse soltanto di trovare un metodo per la lottizzazione, Berlusconi non avrebbe incontrato tutte le difficoltà che ha incontrato. Anche il ritorno nella compagine di governo di una personalità forte e controversa come quella di Giulio Tremonti, di cui un anno fa Udc e An reclamarono e ottennero la testa, sarebbe soltanto un tassello della spartizione complessiva. Per qualche verso, il ritorno di Tremonti è stato la vera sorpresa della crisi e della soluzione della crisi. Crisi che comincia con l’obiettivo esplicito dei centristi e di An di ridimensionare Berlusconi, e di mettere contrappesi all’egemonia dell’asse nordista composto da Lega e Forza Italia, e si conclude con la nomina a vicepresidente del Consiglio dell’ideologo del «forzaleghismo». Non va dimenticato che la crisi politica del centrodestra era divenuta evidente proprio nel luglio 2004, allorché sotto la pressione di An e dell’Udc Tremonti aveva dovuto accettare di dimettersi, dopo che Gianfranco Fini lo aveva addirittura accusato di avere «truccato» i conti pubblici da presentare a Bruxelles. Quel momento delicatissimo aveva sanzionato il fallimento del governo di centrodestra. Era crollata in quel momento l’intera incastellatura che Tremonti aveva garantito con la sua competenza specialistica, con quella capacità inventiva che poco più di dieci anni fa, all’epoca del primo governo Berlusconi, il rigorismo di Beniamino Andreatta aveva associato alla finanza by magic. È troppo riduttivo attribuire quella caduta a incompatibilità di carattere, o alla crudeltà mentale del ministro verso i colleghi, alla mancanza di «collegialità», o ad altre espressioni retoriche e a psicologismi. La sommaria, e tutto sommato ingenerosa, liquidazione di Tremonti nel luglio 2004 dimostrava che la coalizione di centrodestra era affetta da una frattura autenticamente, profondamente politica: vale a dire la spaccatura fra le due subcoalizioni costituite da Forza Italia e la Lega da una parte, e An-Udc dall’altra. Si tratta di una contraddizione che risale agli albori dell’impresa politica berlusconiana, e che non è mai stata portata a una sintesi. Nel 1994 Berlusconi e i suoi consiglieri avevano risolto questa contraddizione inventando due coalizioni, il Polo delle libertà e il Polo del buongoverno, ripartite elettoralmente fra Nord e Sud e congiunte da una doppia desistenza. Erano i tempi in cui Roberto Maroni poteva sostenere in perfetta buona fede che l’ingresso della Lega nell’alleanza con Forza Italia era stato concepito in chiave «antifascista». Qualche tempo prima che cominciasse la lunghissima «verifica» che sarebbe sfociata nella buonuscita di Tremonti, il moderato Follini si rivolgeva sconsolato a Berlusconi: «Silvio, non puoi pensare di affrontare il problema Bossi con una cena a settimana». Già, il premier era infastidito dal pressing del capo del Carroccio, dal suo marcamento stretto sulla devolution, e non concepiva altro modo di controllarlo se non concedendogli tutto, con la liberalità annoiata di chi non sopporta i discorsi strategici o politicisti tipici di Bossi. Solo che in questo modo, commentava Follini, «si sposta tutto l’equilibrio della Casa delle libertà». Anche queste erano sofisticherie da politicanti, secondo Berlusconi. Come risultato, ne è venuto che è in avanzato stato di approvazione una nuova Costituzione, fortemente condizionata dalla volontà leghista; e che i moderati del centrodestra sono rimasti prigionieri dell’Asse del Nord, praticamente costretti a firmare una nuova legge fondamentale che contraddice il loro pensiero e la loro cultura politica. Le ispirazioni culturali in attrito non sono mai state portate a sintesi, così come non sono stati mediati gli interessi di cui le due componenti del centrodestra erano portatrici. Così il conflitto, connaturato alla Casa delle libertà, fra la componente federal-liberista e la componente nazional-centralista non è mai stato risolto. Nel momento della sconfitta elettorale, e del ridimensionamento brusco se non brutale del potere e del carisma berlusconiano, questa frattura politica e culturale tra le due componenti è riemersa con forza. Sicché in queste condizioni il Berlusconi «doroteizzato» dal desiderio di concludere la legislatura a qualsiasi costo non ha trovato altra soluzione se non istituzionalizzare il conflitto interno, incorporandolo nel governo. Comunque vada, il cleavage è insanabile. Se si considera il cosiddetto programma di fine legislatura, steso in tutta fretta dopo la sconfitta e descritto dallo stesso Berlusconi in termini di «rilancio dell’economia e delle imprese, difesa del potere di acquisto delle famiglie, creazione di posti di lavoro e impegno per il Sud», ci vuole poco ad accorgersi che esso costituisce una netta inversione di rotta rispetto al programma liberal-leghista del 2001 e della successiva azione di governo, nonché una resa evidente alle ragioni politico-elettorali dell’Udc e di An. Naturalmente Berlusconi ha le doti, anche di autoconvincimento, per presentare un programma che non condivide, simboleggiato in sintesi dai tagli all’Irap anziché dall’ulteriore colpo di scure sull’Irpef. Tuttavia il livello di credibilità di un governo che rovescia la propria impostazione in politica economica non può che essere implicitamente ridotto, anche se a Berlusconi non manca la capacità di raccontare che la Casa delle libertà completerà la legislatura realizzando in sei mesi ciò che non ha realizzato in quattro anni. Ha già cominciato ad argomentare tutto questo dando la colpa all’Europa, alla «vecchia» Costituzione, alla sinistra e all’euro sbagliato «da Prodi e Visco» (dimenticandosi del ruolo decisivo dovuto a Carlo Azeglio Ciampi e alla sua credibilità europea), e cercherà di realizzare un programma elettoralistico tenendo insieme la retorica euroscettica di Tremonti e la lealtà europeista di Follini, e l’impasto approssimativo della devolution con il premierato. Ma alla fine anche Berlusconi potrebbe rendersi conto che il fallimento del suo governo non è un prodotto del destino, o della perfidia della politica, ma l’effetto di una composizione mancata, cioè di una destra rimasta vittima della propria schizofrenia. Ha rifatto il governo, e non era detto che ci dovesse riuscire. Ha anche lanciato l’idea di un diverso formato della Casa delle libertà, dichiarando il progetto del partito unico. Ma il problema non è mettere su un esecutivo, o trovare un espediente che rilanci la sua alleanza, magari creando piccoli partiti locali e clientelari sulla scia di ciò che è avvenuto nelle comunali di Catania. Il compito vero consiste, alla lettera, nel rifare la destra. E questa non è un’impresa che si fa in un finale di partita. Investe un progetto complessivo, la definizione di una cultura, la creazione di una classe dirigente. Implica una risorsa preziosa e scarsa, il tempo. Richiede la capacità di guardare oltre la conquista del potere, oltre gli slogan come l’ultimo, «comunisti non c’è scampo, Berlusconi è sceso in campo», e di qualificare una leadership che sappia sintetizzare un progetto. Probabilmente, richiede anche la fine dell’emergenza politica e culturale rappresentata dalla leadership di Silvio Berlusconi.

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