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Riforme, rivoluzioni e possibili controriforme

09-10 1996

Nelle valutazioni politiche di questi mesi, la debolezza del governo in carica viene attribuita all’eterogeneità dello schieramento di centrosinistra. Si tratta di un’opinione suffragata per vari aspetti dalla realtà, dal momento che non sfugge a nessuno l’asimmetria fra le componenti moderate della coalizione di governo e la parte «antagonista» dello schieramento, rappresentata naturalmente da Rifondazione comunista. Ma un giudizio di questo tipo esprime più che altro la registrazione della condizione di fatto. Per discuterne le implicazioni nella prospettiva del consolidamento istituzionale del sistema italiano conviene quindi ripercorrere brevemente le ragioni che hanno condotto alla situazione attuale c la condizione in cui si trovano gli schieramenti politici nella fase attuale. Gli schieramenti incompleti In estrema sintesi, il problema politico più appariscente nell’Italia uscita dal grande confronto del 21 aprile deriva dal fatto che l’Ulivo è riuscito a produrre un accordo elettorale con Rifondazione comunista, ma non se l’è sentita di legarsi all’ala massimalista della sinistra con un trasparente ed esplicito accordo politico. Questa scelta è stata voluta al fine di evitare l’ «inquinamento» della coalizione di centrosinistra, dato che l’Ulivo aveva puntato esplicitamente su un messaggio politico rivolto ai settori centrali dell’elettorato; ma poiché i risultati della consultazione del 21 aprile non hanno consegnato all’Ulivo una maggioranza certa, ciò che non era stato realizzato prima della campagna elettorale si è dovuto realizzare con diversi affanni dopo le elezioni e l’insediamento del governo Prodi. Si deve poi riscontrare che, non essendo stato considerato politicamente opportuno un negoziato alla luce del sole con Fausto Bertinotti, con una carta di impegni reciproci, la trattativa è stata e viene condotta punto per punto e momento per momento, cioè secondo un andamento che finisce con il favorire largamente le possibilità di interdizione politica di Rifondazione comunista. C’è da aggiungere che tutto ciò era non solo prevedibile, ma che lo stesso segretario di Rifondazione comunista lo aveva annunciato al momento della formazione del governo: Bertinotti infatti aveva comunicato la disponibilità a far nascere il governo dell’Ulivo, concedendogli il via libera con il voto di fiducia parlamentare, ma si era riservato nello stesso tempo la titolarità politica di un diritto di trattativa costante con l’esecutivo. In effetti Rifondazione comunista ha negoziato costantemente con il governo, e la sua azione è diventata via via sempre più visibile, dalla discussione sul Documento di programmazione economica e finanziaria alle intese per il varo della legge finanziaria, e anche alle discussioni sulla ristrutturazione delle aliquote fiscali predisposta da Vincenzo Visco. Fino al punto che Rifondazione comunista si è rapidamente trasformata nell’effettivo partner esterno dell’alleanza di centrosinistra, inducendo diversi osservatori a suggerire il suo coinvolgimento nella coalizione, allo scopo di fissare una serie di punti programmatici vincolanti e di neutralizzare quindi, o perlomeno di ridurre al minimo, le sue potenzialità di veto o di ricatto politico. Ma è realistico pensare che una forza politica come quella capeggiata da Bertinotti si faccia imbrigliare all’interno di un patto politico definito? Oppure più verosimilmente Rifondazione è un soggetto politico sostanzialmente irriducibile a una prospettiva di governo? La risposta non è immediata, perché in realtà Bertinotti giostra con una certa abilità su due direttrici: da un lato infatti esercita un ruolo espressamente politico, tratta, patteggia, porta a casa pragmaticamente risultati negoziali; dall’altro, continua a lanciare all’opinione pubblica messaggi di romanticismo antisistema, proponendosi come l’unico soggetto esplicitamente anticapitalista e massimizzando i vantaggi di questo ruolo sino a lasciare molte incertezze sul suo interesse alla persistenza del governo di centrosinistra. Questa duplicità di atteggiamento risulta particolarmente conveniente, in quanto permette a Rifondazione di presentarsi come il fattore che ha impedito c impedisce la presa del potere da parte della destra, ma a mani completamente libere, «lavorando» nominalmente a favore delle fasce sociali deboli, e con in più la serena consapevolezza che se la situazione dovesse precipitare, l’alleanza franare, il governo cadere, anche in questo caso la sinistra oltranzista potrebbe comunque ripresentarsi alle elezioni con la certezza di raccogliere una consistente quota di voti non riconducibili alla sinistra liberal-pragmatica. Sotto tale punto di vista, riesce improbo non attribuire allo schieramento di centrosinistra un più elevato grado di contraddittorietà interna rispetto all’ala di centrodestra. È fuori dubbio infatti che anche il Polo per le libertà è attraversato da divisioni e differenze politico-culturali difficilmente cancellabili. Se il progetto di Forza Italia non era solamente un disegno di restaurazione, architettato per occupare l’area di potere detenuta e controllata in precedenza dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista, se cioè esisteva effettivamente l’aspirazione a creare un ampio movimento modernizzatore, il «partito liberale di massa» che l’Italia non ha mai avuto, non si è ancora capito come questo programma potesse e possa essere realizzato in combinazione con una forza storicamente e tendenzialmente nazionalpopulista come Alleanza nazionale. A meno che, forse, non ci fosse una certa sottovalutazione del peso che An avrebbe assunto. Cioè che il progetto berlusconiano fosse volto a creare una forte combinazione politica di destra, capace di avvalersi strumentalmente del voto moderato del suo partner postfascista e del liberalsolidarismo degli eredi moderati della Dc, ma mantenendo una forte carica egemonica sulla coalizione di destra, capace di imprimere una riconoscibile tonalità liberale al Polo. Resta il fatto che se esistono due sinistre, a quanto si vede non facilmente compatibili, la destra esprime almeno quattro anime, come ebbe a dire proprio Berlusconi presentando la sua coalizione come «il Polo delle libertà, del buon governo, della solidarietà e delle riforme», incorporando quindi anche il radicalismo politico della componente di Marco Pannella e illustrando con un certo ottimismo la coesione del Polo. Ciò nondimeno, e malgrado la battuta d’arresto che ha subito il revisionismo ideologico e culturale di Alleanza nazionale, è sempre sembrato che la coalizione di destra fosse intrinsecamente, se non più omogenea, senz’ altro più capace di comporre le proprie diversità in vista della conquista del potere politico. Che poi questa maggiore omogeneità tattica potesse resistere alle proprie contraddizioni al momento di misurarsi con le decisioni selettive imposte dall’attività di governo non è dato sapere, dal momento che la brevissima durata del governo Berlusconi non ha consentito di valutare adeguatamente la tenuta politico-ideologica del Polo, la sua coerenza culturale, e nemmeno la sua compattezza rispetto alla varietà degli interessi socioeconomici rappresentati dalle sue componenti. E va anche considerato che una certa diffidenza sulla credibilità della coalizione di centrodestra si è manifestata nell’elettorato, se è vero che al buon risultato complessivo ottenuto il 21 aprile dai partiti del Polo nella quota proporzionale si è affiancata una cattiva prestazione nei collegi uninominali. Eccezionalità o dzf/icile normalità In ogni caso si può legittimamente sostenere che gli schieramenti configuratisi dopo l’approvazione della legge elettorale maggioritaria sono incompleti o immaturi, e a questo aspetto va aggiunto naturalmente la questione del terzo incomodo rappresentato dal successo della Lega Nord alle elezioni della primavera scorsa, nonché la sua volontà di giocare da outsider totale. Esistono quindi elementi di fatto che agiscono in contraddizione con la dinamica bipolare auspicata e prevista. E l’impazienza attuale della politica, così come l’impazienza dell’opinione pubblica, induce a considerare inevitabile, per completare il processo della razionalizzazione di sistema, la ricerca ulteriore di soluzioni di stampo istituzionale. Se ne capisce anche facilmente la ragione: con la campagna referendaria per il cambiamento della legge elettorale, l’innovazione di processo ha prevalso largamente sull’innovazione di prodotto, ed è stata altissima l’aspettativa per l’effetto che la nuova formula di impianto maggioritario avrebbe dovuto avere sul sistema politico. Sorgono di conseguenza almeno due quesiti. Il primo: c’è stata una sopravvalutazione collettiva dell’impatto che la riforma elettorale doveva determinare sulla politica? Il secondo: oppure è stata l’ opacità dei comportamenti a fare da freno al processo di razionalizzazione del sistema? Una risposta risolutiva non c’è, o c’è solo se si sposano tesi dogmatiche. È evidente che il sistema maggioritario, considerato e voluto come una leva destinata a sbloccare la paralisi politica, è stato sovraccaricato di funzioni che da solo non poteva avere; come nello stesso tempo risulta altrettanto chiaro che sono state le forze politiche a introdurre nel metodo elettorale quegli elementi proporzionalizzanti che hanno reso opaca la formula e hanno favorito la persistenza di comportamenti non coerenti con l’architettura della macchina bipolare. È chiaro a tutti che la legge elettorale vigente è un complicato compromesso fra un progetto di tipo maggioritario e un residuo proporzionale, che tende a stabilizzare «riserve indiane» e frammentazioni politiche di ogni tipo, a destra come a sinistra. Oltre tutto, per come è congegnato, il sistema semimaggioritario italiano intensifica tutte le possibili distorsioni del maggioritario a turno unico, concedendo a priori zattere di salvataggio a coloro che defezionano dal modello bipolare, e quindi premiandone l’indisponibilità alla logica di coalizione. Il completamento della riforma elettorale e istituzionale è quindi uno degli aspetti su cui concentrare l’attenzione, ma non certamente l’unico. Il cuore della riforma dovrebbe essere una combinazione di misure tecniche tali da favorire la stabilizzazione dell’assetto bipolare, predisponendo le condizioni per rendere più difficili i conflitti dentro le alleanze, e per stabilire la garanzia della governabilità. Un terzo aspetto, quello della riduzione al minimo del «terzo escluso» (la Lega) implica in realtà non solo correzioni di formula, quanto una serie coordinata di iniziative istituzionali e soprattutto politiche tese a prosciugare l’acqua intorno alla ribellione secessionista. Si tratta di obiettivi di una portata tale da implicare necessariamente strumenti straordinari. come sarebbe la convocazione di un’assemblea costituente? Anche in questo caso la valutazione è piuttosto complessa. La propensione alla scelta di uno strumento come la costituente, infatti, non deriva da un calcolo «freddo» sull’adeguatezza dell’assetto istituzionale attuale e sulle correzioni da introdurre, bensì da una valutazione di eccezionalità storica della situazione italiana contemporanea. Se si sottoscrive il referto secondo cui nel periodo 1992-96 la democrazia italiana ha attraversato il suo fallimento, ed è morta senza rinascere, non ci sono troppe alternative. L’ elezione popolare di un’assemblea che prepari il nuovo contratto civile fra gli italiani appare l’unica via d’uscita. Se si è convinti che la scoperta di un intreccio estesissimo di corruttela politica, la fine traumatica dei partiti storici su cui si era imperniato l’equilibrio politico centrale, l’incombere di un potere extrapolitico (quello delle Procure) in conflitto continuo con la politica, una irrecuperabile crisi finanziaria che ci marginalizza rispetto all’integrazione europea, la minaccia secessionista o se non altro l’acuirsi dello squilibrio Nord-Sud hanno dato luogo a una condizione storica effettivamente straordinaria, non si vede in effetti come sia possibile reagire con misure iscritte nell’ambito della normalità. Dunque il problema consiste nel definire se ci si trova davvero in una situazione di assoluta eccezionalità. Certo, se crollasse il governo insediato nel maggio 1996, se il processo di risanamento dei conti pubblici dovesse rivelarsi illusorio, se il sogno del traguardo europeo di Maastricht dovesse dramma ticamente svanire consegnando il paese a un sentiero di decadenza, sarebbe davvero il caso di restituire la sovranità al popolo e di cercare una nuova forma complessiva di convivenza civile e nazionale. In realtà, prima dell’apocalisse, sembrerebbe di poter dire più propriamente che la situazione è gravata da una forte incertezza. Il sistema politico è ancora largamente imperfetto, ma niente vieta di proseguire sulla via dell’ aggiustamento, soprattutto se si considera che malgrado tutto la configurazione bipolare è stata largamente assimilata dai cittadini -elettori. A sua volta, il risanamento finanziario dipende da fattori non tutti controllabili politicamente (come la ripresa economica europea e la discesa dei tassi d’interesse), ma non sembra infallibilmente pregiudicato. Nell’incertezza, in assenza cioè di eventi realmente traumatici, sarebbe politicamente infantile non utilizzare lo strumento più ravvicinato, rappresentato dalla Commissione bicamerale per le riforme. Ciò che è sicuro, infatti, è che il Parlamento attuale ha pochi mesi di anzianità, e quindi è perfettamente legittimato, c’è un governo in carica che deve svolgere il suo impegnativo lavoro, e grazie al cielo non sembrano necessariamente profilarsi eventi catastrofici tali da imporre soluzioni eccezionali. Perciò dietro la scelta dell’assemblea costituente sembra di vedere più che altro il riflesso di un’opzione politica. Probabilmente i suoi sostenitori sono convinti che essa potrebbe più facilmente spostare l’equilibrio da un impianto parlamentare a un’intelaiatura basata su una leadership di marca presidenziale, e potrebbe eventualmente introdurre modificazioni istituzionali profonde, capaci di interessare tutta la carta costituzionale passando da un sistema dei diritti a un sistema delle libertà, e di dare un’impronta individualisticoliberale, anziché personalistico-sociale, a tutto il quadro della costituzione economica. Per non rifare il passato Ma anche questa scelta sembra basata per la verità più sugli auspici e sulle preferenze di parte che non sulle prospettive reali. Occorrerebbe spiegare infatti per quali ragioni l’eventuale assemblea costituente potrebbe rispecchiare equilibri politici diversi da quelli attuali, e perché la sua azione dovrebbe sfuggire alle logiche di compromesso che si mettono in bilancio preventivamente a svantaggio della Bicamerale. E anche per quale nobile ispirazione un’assemblea costituente eletta in termini rigorosamente proporzionali non dovrebbe riprodurre, sul piano del progetto di ridisegno istituzionale, tutte le fratture e le differenze che esistono in questo momento tra le forze parlamentari. Sotto questa luce c’è una sottovalutazione del contenuto politico implicito nella costituente, come se la restituzione della sovranità al popolo potesse essere esercitata senza mediazioni, vale a dire come se fosse sufficiente dare vita artificialmente a un momento storico eccezionale per produrre risultati eccezionali, con l’espressione diretta di una volontà di cambiamento trasformabile altrettanto direttamente negli articoli della legge fondamentale dello Stato. Nella soluzione dell’assemblea costituente sembra di percepire, non troppo lontano, l’eco di un’illusione populista, proprio nell’accezione resa classica da William Riker, secondo cui è tipico del populismo pretendere di rappresentare come intenzione generale della società una «volontà popolare» che in realtà è presunta o manipolata. Se si guarda senza pregiudizi scettici alla realtà, l’opzione per la costituente era probabilmente giustificata nella fase di sfaldamento del sistema, allorché il fallimento della «Repubblica dei partiti» era evidente e la bancarotta economica a un passo. Non ci sarebbe stato da stupirsi se, dopo l’uragano valutario del settembre 1992, l’infuriare di Tangentopoli, la liquidazione sommaria di partiti come la Dc e il Psi, qualcosa o qualcuno avesse coagulato tutti i fattori di malattia del sistema inducendo a scegliere la terapia shock, o meglio l’eutanasia della Prima Repubblica e il concepimento a caldo della Seconda su base popolare. Oggi invece si deve considerare che la spinta alla rivoluzione costituzionale non è qualcosa di imposto automaticamente dagli avvenimenti. È desiderato piuttosto da alcune forze politiche, in genere (ma non solo) collocate a destra nello schieramento; ma nello stesso tempo nel sistema agiscono alcune controspinte, perfettamente visibili, che si muovono in significativa controtendenza rispetto al processo di ulteriore razionalizzazione bipolare. Sono spinte illegittime? No, sono semplicemente il frutto di considerazioni legate alle convenienze politiche particolari, come nel caso di Rifondazione comunista e anche della Lega, dato che alle forze «eccentriche» conviene restare legate a formule tendenzialmente proporzionali; oppure derivano altrettanto legittimamente da una valutazione che individua nel formato bipolare una inadeguatezza rispetto alle tradizioni storico-politiche e alle complessità politico-sociali dell’Italia del Novecento. È soprattutto quest’ultima obiezione che deve essere valutata a fondo. Perché è fisiologico che un partito come Rifondazione comunista, proprio per le sue caratteristiche di partito dell’alternativa assoluta, portatore di un antagonismo retoricamente totale, sarà sempre in opposizione a progetti che tendano a ingabbiarla nell’ambito di alleanze circoscritte e «responsabili». Mentre chi guarda al funzionamento sistemico, e reputa che sia proprio la formula bipolare a essere inadeguata, sottolineando l’incongruenza e l’immaturità degli schieramenti in campo, espone un’obiezione pesante, non liquidabile con leggerezza. Se la diagnosi sull’incompletezza e la disomogeneità degli schieramenti porta infatti a valutare inadeguata la configurazione bipolare, l’esito obbligato di questo ragionamento conduce direttamente, prima ancora di condannare la formula maggioritaria, a individuare uno schema che faccia saltare il discrimine fra le ali di destra e di sinistra del sistema politico. La parola «centro», nella politica italiana, è nello stesso tempo rivendicata e screditata. Ma se per ragioni di disfunzionamento del sistema politico si arrivasse a fare saltare la linea di confine che oggi divide il centrodestra dal centrosinistra, l’esito sarebbe facilmente prevedibile. Il sistema maggioritario verrebbe dribblato con una manovra orientata a ricostruire una vasta area politica, da Forza Italia al Pds, in grado di occupare i due terzi dell’area di consenso e di tagliare fuori, marginalizzandoli, i partiti estremi. È naturale che una prospettiva del genere verrebbe ampiamente favorita da un contraccolpo che riportasse il metodo elettorale a un impianto proporzionalizzante, e quindi intrinsecamente favorevole a intese sul centro politico. Ma anche a legge elettorale invariata, nel caso di progressive difficoltà nell’esercizio del governo, potrebbero manifestarsi piuttosto facilmente spinte a concludere accordi centripeti tra le forze politiche «responsabili», dapprima sullo sfondo di una situazione provvisoria, emergenziale, c poi all’interno di una dinamica tendente a stabilizzarsi. Ma questo significherebbe semplicemente la riedizione del lungo centrosinistra che ha governato l’Italia per trent’anni, un altro compromesso di lungo periodo. Con attori mutati, ma con una trama e implicazioni analoghe. Cioè con una situazione di continuo patteggiamento – di scambio, risarcimento e veto -fra i due principali contraenti del patto politico. Non è una visione ignobile, ma implica una concezione della società italiana, sub specie aeternitatis, come di una collettività incapace di dividersi in base all’assunzione di responsabilità definite. E insomma «una certa idea» dell’Italia come di un paese che vive provvisoriamente nella sua immutabile eternità. Di fronte a un possibile sviluppo di questo tipo, non sembra irrazionale né minimalistico spendere una quota di capitale riformistico sull’investimento a breve termine rappresentato dalla commissione bicamerale. L’obiezione principale è che ci possono essere interazioni negative fra le intese eventualmente raggiunte nella bicamerale e il governo in carica: vale a dire che il lavoro della commissione potrebbe entrare in una rete di veti, e che sul governo potrebbero scaricarsi le insoddisfazioni per le intese istituzionali individuate fra i principali attori politici. È un’obiezione tutt’altro che infondata. Ma sancire a priori l’impossibilità della soluzione di taglia minore implica un salto in avanti per superare un’implosione della politica profetizzata come inevitabile. Mentre in questo momento il primo obiettivo è impedire questa implosione, lavorare con quel che c’è a disposizione, facendo i conti fino in fondo con la fatica della politica.

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