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L'Espresso, 12.04.2007
Striscia il dilemma
Il fatto che un paio di settimane fa sia stato assegnato a "Striscia la notizia" uno dei più importanti premi tv, una cosa laica tipo Telerazzi & Teleantenne oppure cattolica come l'Academic Tv Award del Bambin Supremo, potrebbe fregare giustamente un tubo a nessuno. Ma l'occasione è ghiotta, e fa l'uomo ladro, per una disamina (come scrivono i giornali, quando sono buoni e non corrompono in "disanima") approfondita del programma di Antonio Ricci. E qui ci vuole una scappellata, di quelle con il sombrero, perché Antonio Ricci, insieme a Enrico Ghezzi, Carlo Freccero, Marco Giusti e pochi altri, è uno dei cattivi ragazzi (vabbé) che hanno cambiato la televisione. E quindi per tracciare un bilancio di "Striscia" non vale porsi la domanda se il programma sia o non sia il telegiornale alternativo, quello che fa le inchieste che nessuno fa più, e robette del genere. Conviene invece mettere sotto osservazione, o sotto processo, la personalità di Ricci. Situazionista, si dice sempre in questo caso, "debordiano" e anche un po' debordato, comunque anarchico e forse anche insurrezionalista, in termini televisivi s'intende. Ci vorrebbe l'autorità magistrale di Umberto Eco, in uno dei suoi diari minimi, per inquadrare semiologicamente l'animo regicida di Ricci, uno degli ultimi eredi di Franti e dell'anarchico Bresci (intanto grazie a tutti per il povero Passannante, che pare restituito a sorte umana, e non condannato per l'eternità ad avere il cervello in un museo). Salvo poi porsi la domanda che ha angustiato le migliori menti della nostra generazione. No, non se "Striscia" è di destra o di sinistra, e nemmeno se, fatti tutti i conti, è contro il regime o invece ne sia sottilmente. E neppure se i programmi di Ricci sono "moderni" o "arcaici", chiedendo al campione statistico rappresentativo di mettere la crocetta. La domanda che incombe è se "Striscia" ha modificato il gusto e il costume degli italiani. Ebbene sì. Perché se non ha modificato il gusto, con Greggio e Iachetti e con tutta la sfilata di conduttori che ha avuto, ci dispiace per Ricci: il suo programma è una menata. Ma se invece ha modificato il costume, niente ci impedirà di affermare che "Striscia" è la modernità, anzi, che insegna la modernità alle babbione e ai babbioni, dà lezione di postmoderno, condiziona alla tv che verrà. Presi da questo cruciale dilemma, intanto aspettiamo il prossimo premio, e si vedrà.
L'Espresso, 26/02/2004
La pubblicità è l’anima della politica
Ieri l'euro era l'oggetto di una polemica populista; oggi è un'ancora. Appare schizofrenico il pensiero del centrodestra, dal momento che il presidente del Consiglio sostiene che il paese si è arricchito, mentre pochi giorni dopo il ministro Giulio Tremonti lancia una specie di piano fiscale per colpire gli aumenti dei prezzi. Tra la visione flou di Silvio Berlusconi e l'aumento dell'inflazione c'è un terreno accidentato, in cui avvengono fenomeni economici che coinvolgono pesantemente le famiglie, falcidiano i redditi, spostano ricchezza. A chi è esposto al diluvio post-euro le parole del capo del Governo sembrano un'amara ironia alle spalle dei perdenti: è una visione paradossale quella di un paese che si arricchisce mentre i suoi abitanti si impoveriscono. Ed è strano anche l'atteggiamento di Forza Italia, che quando era all'opposizione contestava aspramente i dati dell'Istat, mentre ora li sbandiera come la prova provata della stabilità e della crescita italiana. Naturalmente Berlusconi ha tutto il diritto di evocare un paese e una società dipinti con sfumature azzurre. La pubblicità è l'anima anche della politica, non solo del commercio, e il premier avverte il bisogno di contrastare la valutazione gravemente pessimistica che si sta diffondendo sul suo governo, e che rende perplessi anche numerosi elettori del centrodestra. Per uscire dal dilemma di un'Italia sospesa fra arricchimento e impoverimento, occorre rilevare un fenomeno in sé elementare, ma che sfugge ai dati medi e alle rilevazioni generali. L'inflazione infatti è un tiro alla fune sul piano sociale. Qualcuno ci rimette, qualcun altro ci guadagna. Uno studioso e parlamentare riformista, Nicola Rossi, ha analizzato i dati ufficiali dell'Istat, mostrando che l'impatto della curva inflazionistica è significativamente maggiore su alcuni ceti, su alcuni tipi di famiglia, sul lavoro dipendente, sulle pensioni. Non si tratta di una scoperta straordinaria: eppure mette in rilievo che in questo momento, anche sul piano economico, esistono due Italie. Non c'è soltanto la divaricazione fra l'Italia mediatica e l'Italia reale descritta da Ilvo Diamanti: c'è anche in atto un problema di redistribuzione fra una fascia di società che ha subito l'aumento dei prezzi e un'altra fascia che ne ha tratto vantaggio. Detto in termini un po' fuori moda, oggi stiamo assistendo a una variante della lotta di classe. Risulta curioso che essa venga condotta dai ricchi contro i poveri: tuttavia questa semplificazione estrema descrive un processo politico importante. Se è vero infatti che il sogno berlusconiano aveva indotto al consenso per il centrodestra anche una platea di elettori marginali, non privilegiati, esposti alla pressione televisiva, componendo un interclassismo fondato sul miraggio di un benessere facile per tutti, l'inflazione a due velocità rappresenta la smentita politica di un'illusione. Dovrebbe bastare questa modesta considerazione per caratterizzare l'azione politica del centrosinistra. Nei prossimi mesi, a partire dalle elezioni europee, non c'è in gioco soltanto il successo della lista unitaria: il confronto politico non riguarderà esclusivamente una battaglia di astrazioni bipolari. C'è in bilico anche una partita fra interessi. Partita pesante, da cui dipende il profilo della società italiana. L'Ulivo deve assimilare l'idea che l'alternativa a Berlusconi non è la contrapposizione di un sogno a un sogno. Se è vero che gli arricchiti dall'inflazione appartengono tendenzialmente all'elettorato di centrodestra, occorrerà mettere a fuoco che gli impoveriti devono essere conquistati dal centrosinistra. Non con formule politiciste, ma con idee e progetti riferiti alla realtà effettiva, al disagio che serpeggia nel paese, alla precarietà e all'insicurezza determinate dalla flessibilizzazione dell'economia. Per ora, Berlusconi offre come progetto politico la sua faccia; l'Ulivo promette l'unità riformista. Ci vuole una iniezione di realtà e di consapevolezza: altrimenti "l'altra" Italia, il paese impoverito, sentirà solo parole. E quanto a parole non è facile battere l'Italia immaginaria del Cavaliere.
L'Espresso, 18/03/2004
L’ulivo fiorisce a primavera
Quelli della lista unitaria la chiamano «rottura del pack». Il Polo si scongela, isole di consenso si staccano ed escono in mare aperto, qualcuna va alla deriva fino a toccare il continente del centro-sinistra. Non era mai accaduto in dieci anni di bipolarismo. A leggere l'ultimo sondaggio della Swg la dinamica è ormai percepibile. A destra precipita Forza Italia, che oltretutto ottiene il suo risultato con un effetto Bancomat, digitando il codice e svuotando il conto corrente degli alleati. Nel centro-sinistra la lista unitaria si colloca un sospiro oltre la soglia psicologica del 35 per cento; non si profila la temuta guerra fra Margherita e Ds, nel senso che non si parla più di sorpassi: Fassino si muove a buona andatura e Rutelli tiene, le gerarchie di grandezza non vengono sconvolte. Semmai sorprende il risultato potenziale della lista Occhetto-Di Pietro, che drena un po' di cattolici "radicali", raccoglie frange della sinistra movimentista (e forse anche qualche traccia di destra giustizialista), al punto da mettere un fermo alle ambizioni di crescita di Rifondazione comunista. Numeri. Pure astrazioni nel cielo della statistica. Figurazioni angeliche della riscossa antiberlusconiana. Ma gli esperti della matematica elettorale avvertono: non si tratta solo di uno svolazzo di cifre. Dietro le curve e gli andamenti dei grafici c'è una realtà in movimento. Dati che cambiano, si consolidano e si stratificano. E che mostrano come la situazione politica sia in fase, se non tellurica, almeno bradisismica. Dice Piero Ignazi, politologo: «Una rondine non fa primavera, ma la primavera scongela e scompone il blocco sociale di destra, mostrando che gli interessi erano troppo disomogenei per essere componibili, e che il messaggio mediatico- populista non basta a tenere insieme gli opposti, il Nord e il Sud, l'impresa e il pubblico impiego, i sussidiati e gli esposti alla concorrenza». Ammettiamo pure che con un impegno eccezionale e una campagna tutta effetti speciali Silvio Berlusconi riesca a recuperare l'ancora di "salvezza" del 25 per cento, il limite su cui ha fissato la sua Maginot. Resta il fatto che la quasi-tenuta di Forza Italia sarebbe pagata in contanti da An e Udc. La svolta "antifascista" di Fini sarebbe stata inutile sul piano elettorale, e la resistenza di Follini non verrebbe premiata, con il rischio di finire sotto il livello-brivido del 4 per cento. La Lega dimostrerebbe una volta per tutte di essere un modesto nido sotto l'ala di Forza Italia, che la tiene al caldo ma alla lunga la soffoca. Si aprirebbero quindi scenari tutti da scoprire. Probabili faide al coltello, nei corridoi della Casa. Senza escludere una sequenza di straordinaria dinamicità politica ed elettorale, con effetti o trasformismi inediti, passaggi di campo, studio ossessivo di strategie del post-Berlusconi. Perché l'orizzonte è il seguente. Le elezioni europee potrebbero sancire una vittoria in percentuale del centro-sinistra sulla Casa delle libertà per 50 a 45. La valutazione è prudenziale, ma gli esperti demoscopici sono piuttosto concordi nel valutare che i dati di oggi sono assestati, che le tendenze appaiono verificate nel medio-lungo periodo, e quindi è implausibile immaginare una riscossa rutilante di Berlusconi. Anche Renato Mannheimer rileva che la spinta antipolitica del Cavaliere, sintetizzata dal "sono soldi rubati", nonché dalle invasioni televisive e tecnico- tattiche sul Milan a due punte, «non ha portato finora a un incremento dei consensi». Forza Italia può limare le perdite, ma il risultato del 2001 sembra del tutto fuori portata. Ma a questo punto il problema centrale riguarda il centro-sinistra. Le elezioni europee infatti possono rappresentare una base di lancio per l'alternativa. Possono preludere anche a un ridisegno della Casa delle libertà, di cui gli annunci a-partisan sul "metodo repubblicano" di Giulio Tremonti e a ruota di Pier Ferdinando Casini rappresentano lo sfondo operativo. La rottura del pack smuove territori che in periferia (ma non solo in periferia, presumibilmente, e non c'è solo il caso di Paolo Cirino Pomicino a dimostrarlo) avvertirebbero l'attrazione del "magnete" costituito dalla lista prodiana, fosse pure soltanto in chiave di potere. Dimostra che l'ascesa del Cavaliere era molto resistibile, e che la sua discesa potrebbe essere irresistibile: nel bipolarismo imperfetto, il bandwaggoning, ossia il salto in corsa sul carro del vincitore, è la tentazione ineffabile di tutti i futuri orfani. Per questo il congresso della Margherita di questo fine settimana, giudicato inutile, una trovatina pubblicitaria di livello non eccelso, costituisce in realtà un momento delicato e a suo modo cruciale per risistemare i ruoli delle varie componenti del partito. Con Francesco Rutelli confermato alla presidenza, e Franco Marini all'organizzazione, si assisterebbe a una pacificazione delle tribù, lasciando tutto lo spazio alla gestione della lista unitaria e del suo futuro, nonché alla ridefinizione del rapporto strategico con i Ds. Il successo della lista Prodi non si rivelerebbe solo un fattore di grande semplificazione, apprezzato dagli elettori, ma costituirebbe anche un'entità politica in grado di assicurare la tonalità riformatrice dell'Ulivo e del centro-sinistra allargato. Oltre il confine della lista unitaria, infatti, la scena si movimenta, dato che non c'è più soltanto Fausto Bertinotti a presidiare la linea dell'antagonismo: Occhetto e Di Pietro possono anche fare da cerniera e da filtro. Per la prima volta dalla batosta del 2001, "en attendant" Romano Prodi, per il centro-sinistra il pessimismo non sembra più, a prima vista, una virtù.
L'Espresso, 25/03/2004
Mistero Mr Me
Chi fermerà l'ascesa di "Mr. Me", alias Minestrony, e la sua gang di grassatori, avvocati, giudici corrotti, che hanno messo le mani sull'Italia? Nelle vesti di Clark Kent, Superman è sfiduciato: «Ladri, mascalzoni, mafiosi, banchieri off shore sono diventati una banda agli ordini di Minestrony». Le televisioni del regime rimandano immagini sgangherate in cui i profittatori cantano e si riempiono le tasche di danaro. L'opinione pubblica è anestetizzata. Chi salverà il Bel Paese? Semplice, gli eroi dei fumetti: Mandrake, Jessica Rabbit, Olive Oyl e Popeye, Charlie Brown e Snoopy... Si apre così l'opera comica in un atto "Mr. Me", composta da Luca Mosca su un libretto di Gianluigi Melega. Strane storie accadono nel paese di Minestrony. Succede che un giornalista come Melega, carriera al "Giorno", "L'Europeo", "Panorama", "la Repubblica", "L'espresso", deputato radicale per sei anni, autore di romanzi e di raccolte di poesie in inglese, incontri un musicista, Luca Mosca, 47 anni, che rimane affascinato dalla sonorità della sua ultima raccolta poetica in inglese ("Concerto and Collected Poems", Archinto, 2002) e compone la musica per sei liriche, presentandole nel novembre 2003 a Roma. Le storie si complicano allorché dalla collaborazione fra Melega e Mosca nasce l'opera comica "Mr. Me", edita da Suvini Zerboni. «Ho scritto le prime due scene l'estate scorsa, e in ottobre l'opera era completa. Abbiamo lavorato di conserva, in tempi ridotti, grazie alla grande capacità di scrittura di Mosca». Un'ora e 20 di spettacolo, con costi di allestimento limitati. Scritta in inglese, poteva essere un'eccellente occasione per la Biennale Musica: pubblico internazionale, una rappresentazione facile da produrre anche oltre confine. Sulle prime l'opera sembra interessare il direttore (dimissionario) della sezione musicale della Biennale, Giorgio Battistelli. Dopo i primi pour-parler però comincia un tiramolla che trascina l'accordo risolutivo fino a gennaio. Si dimette Franco Bernabè, e la Biennale resta senza presidente. Quando arriva Davide Croff, finanziere e musicologo, Battistelli viene confermato e due settimane fa telefona un primo ufficioso verdetto: «"Mr. Me" mi piace, lo annunciamo in aprile nel cartellone d'autunno». Passa un solo giorno e Battistelli indietreggia: l'opera non si fa più. Spiegazione: costi troppo alti. «In realtà», commenta Melega «l'opera non sarebbe costata neanche un euro: avevamo già impegni affidabili con teatri della Venezia Giulia, Napoli, Emilia, che avrebbero coperto le spese, e anche qualche sponsor pronto a sostenere l'iniziativa». Dunque di che si tratta? Eccesso di prudenza? Autocensura preventiva? Sta di fatto che l'ascesa di "Mr. Me" provoca effettivamente una resistenza. Aggiunge Melega: «Oltretutto l'opera è modulabile in varie forme, e l'idea era di rappresentarla in prima mondiale a Venezia con un budget medio, mettendola in scena con voci dal vivo e una compagnia di marionette. C'erano già stati contatti con la compagnia dei Lupi di Torino, regia di Margot Galante Garrone, e a Trieste con la compagnia di Podrecca. A questo punto mi dispiace per gli amici della Fenice, e soprattutto per l'ultima dogaressa, Teresa Foscari, che ne era entusiasta». Sarà che l'opera è un'allegoria troppo trasparente. Un incubo circolare da cui Minestrony si risveglia, attribuendo alla cattiva digestione l'insurrezione dei cartoons, che lo avevano circondato lanciando la profezia «una risata ti seppellirà, Mr. Me». Salvo ritrovarsi poi, al risveglio, con il cameriere che annuncia la visita di un reporter del "Daily Planet". Naturalmente è Clark Kent. «Ditegli che non sono a casa, che ho dovuto andarmene: ditegli che sono andato... alle Bahamas!». Prevedibile che un'istituzione come la Biennale venga presa dall'inquietudine. «Macché», conclude Melega, «l'opera è un musical postmoderno, un Kurt Weill nel millennio dei mass media. Se le istituzioni culturali hanno paura della musica, sfortunata la terra che ha bisogno di eroi, ancorché a fumetti».
L'Espresso, 25/03/2004
Quei colpi di fantasia del senatore Umberto
Solo il genio politico di Umberto Bossi ha consentito alla Lega di sopravvivere a Silvio Berlusconi. Ragion per cui è legittimo chiedersi qual è il futuro del movimento leghista, oggi che il suo leader è stato toccato dalla mano di una sorte cattiva. Il senatùr è riuscito miracolosamente a svincolarsi dal fallimentare governo di centrodestra nel 1994, a sopravvivere altrettanto miracolosamente alle accuse che dopo il ribaltone lo volevano "traditore" e "ladro di voti". Ma tutta l'esperienza della Lega Nord è stata un prodigio politico di Bossi. Agli inizi, Bossi ha capitalizzato l'ondata popolare contro i partiti. La Lega era l'alieno, la forza barbara che raccoglieva il rancore covato a lungo contro la partitocrazia. Il capo del Carroccio offriva parole inedite, soluzioni stratosferiche, rompeva tabù in serie: ma soprattutto è sempre riuscito a presentare come realtà politica un bluff da tavolo di poker che gli altri protagonisti politici non hanno mai voluto andare a vedere. La forza politica della Lega infatti è sempre stata circoscritta. Anche nel Nord, nella mitologica Padania, i numeri elettorali delle camicie verdi sono sempre stati minoritari. Ma Bossi è riuscito a presentare il suo movimento come una forza che al momento opportuno, nel caso di una gravissima crisi economica o di un conflitto sociale senza precedenti, sarebbe riuscito a trascinare tutto il Nord verso la secessione, o verso altre ipotesi istituzionalmente dirompenti. Ci voleva una grandissima fantasia e anche una improntitudine politica straordinaria per riuscire a sostenere questa strategia. Almeno in un paio di occasioni Bossi è stato scoperto, o quasi: ad esempio nel settembre 1996, allorché la Marcia sul Po, che doveva essere una manifestazione in tutti i sensi fluviale, si rivelò un fallimento di fatto. Oppure quando le elezioni "padane", nei gazebi della Lega, mostrarono la faccia folklorica e tutto sommato domestica del Carroccio. Tutte le invenzioni di Bossi sono state funzionali ad accreditare alla Lega una forza che la Lega non aveva. E lui lo sapeva. Il senatùr ha inventato la mitologia leghista, Braveheart, il paganesimo celtico, le ampolle con l'acqua del Monviso, ha istituito il parlamento e il governo padano senza che nessuno gli mandasse i carabinieri. Per supplire con il movimento a una forza politica declinante. Ha sostenuto tutto e il contrario di tutto, nell'esclusivo interesse della sopravvivenza del Carroccio. Per lui Alleanza nazionale è stata la "porcilaia fascista", e Berlusconi venne da lui esorcizzato come "Berluskaz", "Berluskaiser", l'uomo della mafia o di chissà quali altri poteri. Ha convinto D'Alema che la Lega era "una costola della sinistra", si è scatenato contro il Vaticano e i "vescovoni". Infine ha negoziato da perfetto giocatore d'azzardo il contratto elettorale del 2001 con Berlusconi, riuscendo a mascherare con i collegi sicuri il fatto che la Lega fosse finita sotto la soglia del 4 per cento nel proporzionale. Da tempo ci sono serie ragioni per argomentare che la Lega è un fenomeno politico residuale. È una forza politica a cui Forza Italia finora ha concesso il diritto all'esistenza, ma il suo destino probabile è di finire come una sorta di corrente del partito di Berlusconi. Dietro Bossi, infatti, non c'è una classe dirigente, una leadership con la stessa rutilante fantasia populista del capo. Ci sono figure come Roberto Maroni o Roberto Castelli, ma al momento nessun protagonista che lasci intuire doti carismatiche. Bossi era stato convinto a rientrare nell'alleanza con il Polo da Giulio Tremonti, il quale gli aveva spiegato che la secessione l'aveva già fatta l'Europa, portandosi via pezzi di sovranità nazionale. L'Umberto aveva capito. Ha continuato le sue polemiche contro Forcolandia e i "frammassoni", ma ripiegando nel tepore della Casa delle libertà. Tuttavia era già arrivato al bivio: il federalismo sembrava ormai una chimera, con le riforme padane continuamente rinviate dai suoi alleati. Avrebbe avuto bisogno di un altro colpo di fantasia, di scomporre rapidamente i giochi, di sottrarsi all'inerzia del doroteismo del centrodestra. Non ne ha avuto il tempo: ed è possibile che a questo punto la politica italiana andrà a una velocità troppo superiore a quella che una Lega senza Bossi può permettersi.
L'Espresso, 08/04/2004
Politici di razza bestiale
Nel bestiario ci sono le bestie. Bestie politiche: qualcuna feroce, qualcuna intelligentissima, qualcun'altra un poco fessa, altre ancora dannatamente imbecilli. Addirittura così stupide da fare male a se stesse e alla propria razza, secondo la nota legge della stupidità umana codificata dal compianto professor Carlo M. Cipolla nel suo aureo manuale "Allegro ma non troppo". Fuor di metafora: come sanno i lettori de "L'espresso", il Bestiario è il regno di Giampaolo Pansa. Un reame dove non ci sono né re né scettri e l'unico potere che conta è l'intenzione di guardare la politica con l'occhio di san Tommaso. Senza campagne, fanfare, buonismi. Con la consapevolezza che il giornalismo non è un mestiere da educande. Ora Sperling & Kupfer fa uscire un'antologia della storica rubrica di Pansa, con un titolo obbligato: "Bestiario d'Italia 1994-2004" (pp. XXVI + 404, 15 euro, in libreria il 6 aprile) e s'impongono subito due considerazioni. La prima. Questo libro esce dopo l'eccezionale successo di "Il sangue dei vinti", il volume che ha aperto uno scorcio inedito sulla violenza post-Liberazione (inedito fino a un certo punto? Si sapeva già tutto? Ma certo che si sapeva tutto, solo che non lo diceva nessuno, e come si sa il genio è la capacità di vedere l'ovvio). Con il "Bestiario" si rientra in un ambiente un po' più mediocre, dove comunque un'allegra famiglia di animali si scanna, almeno allegoricamente, e viene scannata dall'altrettanto allegra crudeltà di Pansa. Se dopo il 25 aprile del 1945 il sangue era quello dei fascisti trucidati dai vincitori, nel "Bestiario" siamo invece in una materia che è quella imbottigliata a suo tempo dal sulfureo socialista Rino Formica: «Sangue e merda». Prosit. Almeno si conoscono gli ingredienti. La seconda considerazione dice invece che questo "Bestiario" accompagna i dieci anni della nostra tormentata e faziosa transizione. Dieci anni di epopea berlusconiana, un decennio di bipolarismo, 3.600 giorni di sistema maggioritario, di destra sdoganata, di sinistra sull'ottovolante. È il problema fondamentale di vivere in epoche interessanti, quelle che fanno venire mal di fegato anche a chi è di ottima costituzione. Sicché le epoche interessanti si possono analizzare con gli attrezzi del politologo, con bellissime e fredde astrazioni: oppure con la cassetta del «cronistaccio» (autodefinizione dell'autore), insieme agli umori, al fiuto, alla diffidenza, alle incazzature. Pansa guarda le facce. Scruta i volti. Interpreta le fisionomie. Giudica gli abiti, dato che fanno e non fanno il monaco. Se Silvio Berlusconi è «squaloso» nel suo sorriso assassino, Gianfranco Fini, «faccia da seminarista frustrato», è il «Lasagne» di Alleanza nazionale, un uomo di cui diffidare anche per le sue cravatte rosa, perché sotto la riverniciatura c'è «la violenza di testa e l'arroganza mentale del fascista doc». Oggi Fini ha fatto il possibile per sfuggire all'etichetta nera, e ha anche corretto la pastosità bolognese e le consonanti al ragù, e forse Pansa ha modificato la propria idea su colui che in una Festa dell'Unità, a Modena, settembre 1994, in una leggendaria serata con il compagno Montanelli e Paolo Mieli, definì tra le sghignazzate del popolo rosso «un fascista con la faccia da prete». Ma il 1994 è l'anno del grande choc, con l'epifania e la vittoria di Berlusconi, la scoperta drammatica che l'Italia non era di sinistra, e che la gioiosa macchina da guerra era un catorcio. Sicché gli studiosi si misero a pensare schemi complicatissimi, e a inventare formule via via più perfette, semplicemente per dire quanto segue: «Stampiamoci nel cervello questa verità: se la sinistra in Italia non riesce a vincere si deve costruire qualcosa che non sia la sinistra, ma che la contenga». Stop. Tutte le elucubrazioni sul "partito democratico" in una sola frase. Tutto il Michele Salvati del 2003, tutta la lista unitaria, tutto il pensiero e la strategia di Arturo Parisi, tutta la visione di Romano Prodi in una ventina di parole. Il "Bestiario d'Italia" si può leggere in tanti modi: come una cronaca, come una storia, come un commento. Ha tutti i difetti dell'essere stato scritto a caldo, e l'onestà di non essere stato tartufescamente taroccato a posteriori; ma soprattutto ha la virtù immensa di essere parziale, sincero, immediato. Fra i modi di leggerlo ce n'è uno infallibile, che consiste nell'andare a caccia dei ritratti pennellati da Pansa. Prendere per esempio il bozzetto dedicato a Giuliano Ferrara, alias Cicciopotamo, «il pope barbuto», il «socialista islamico» che al congresso del Psi all'Ansaldo di Milano scende dal palco esclamando: «Ho fatto un numero alla Italo Balbo!». Selezionare anche il cammeo dedicato a don Gianni Baget Bozzo, e alle sue manie di attribuire l'eterno alla politica, prima a Craxi e poi, riciclando, a Berlusconi. Oppure ecco la sintesi con cui dopo il ribaltone di fine '94 Pansa riassume il giudizio dei forzisti e di An nei confronti di Umberto Bossi: «Quel giuda leghista è un ladro. È un ubriacone laido. È un pazzo che crede di essere Napoleone. È una miserabile merda politica che ammorba le tende degli ex alleati. È il cancro che ha tentato di uccidere il sogno di milioni di elettori...». Sangue e merda, per l'appunto. Più merda che sangue, grazie al cielo. E soprattutto una irrefrenabile avversione verso la nuova destra e verso il suo capo, verso il «capo dei centurioni», «Silvio, l'Unto del Signore, un bugiardo senza vergogna. Un demagogo capace di ogni trucco. Un cinico senza rivali nell'usare la tivù come la piazza Venezia del 2000...». Il "Bestiario" è entusiasmante quando allinea «un La Russa tanto fosco da sembrare un incrocio tra un becchino e un vampiro». Oppure il Parolaio Rosso, in arte Fausto Bertinotti, con il suo «micidiale bla-bla», che sta in tv come un pesce nell'acqua, perché la televisione è la «giungla vietnamita» del subcomandante guerrigliero che manda in malora il primo governo dell'Ulivo. Perché Pansa non ha fisime nel parlare male della sua parte, la sinistra: lancia i suoi fulmini contro D'Alema e Veltroni dopo il caso di Affittopoli, dato che «mia nonna diceva: "I poveri devono sempre avere le mutande pulite, perché, se gli capita di andare all'ospedale, a loro non perdonano niente"». Festeggia la vittoria di Prodi nel 1996 («Ha vinto il Parroco, ha perso Mandrake»), ma segnala che è atteso da sfide tremende, e subito dopo, insieme al dioscuro Claudio Rinaldi, si mette di traverso e inventa la figura ibrida, un'autentica chimera, uno scherzo del darwinismo politico, ossia «Dalemoni», l'incrocio fra D'Alema e Berlusconi, anzi un D'Alema berlusconizzato che all'improvviso scopre una sensibilità antigiustizialista e a causa dell'«inciucismo, malattia senile del dalemismo», tresca con il Cavaliere nella Bicamerale, in uno «stupefacente kamasutra». Poi, si sa com'è finita. È finita che i furbissimi della sinistra, D'Alema in testa, hanno perso le elezioni, e soprattutto hanno perso il potere. E Pansa, nel tramonto chissà quanto lungo del centro-sinistra, ha maturato una disillusione quasi crepuscolare. In cui la voglia di fare i conti con il passato (con il terrorismo di sinistra, ad esempio, che è soltanto «la storia delle vittime») si unisce alla diffidenza per il presente, per i pacifisti e i girotondini, per la sinistra parolibera. Fino a un residuo atto di fiducia per il Prodi 2: ma sapendo già che è l'ultima occasione, mentre intanto la propensione alla guerra intestina è sempre viva, come accade sempre nei migliori bestiari, con la più normale delle bestialità.
L'Espresso, 08/04/2004
Tornado elettorale
No, non credo all'onda lunga socialista. E non credo che il pacifismo sia la discriminante politica decisiva in questa serie di rovesciamenti elettorali in Europa. Aznar è stato punito per lo sfruttamento vergognoso dei 200 morti di Madrid. Schroeder, pacifista a oltranza, prende mazzate ogni volta che si aprono le urne. L'alleato di ferro di Bush, Tony Blair, è in testa nei sondaggi a dispetto di un'opinione pubblica contraria alla guerra. Chirac ha fatto l'anti- americano e perde. Essere contro la guerra in Iraq non salva la destra e non premia la sinistra... Nella sua casa romana, Giovanni Sartori esorcizza le illusioni con il suo consueto esercizio analitico. Il suo ultimo libro, "Mala tempora" (Laterza), veleggia verso le 50 mila copie. Fra pochi giorni uscirà dal Mulino la quinta edizione di un suo libro ormai classico, "Ingegneria costituzionale comparata", con un'appendice inedita dal titolo provocatorio: "Verso una costituzione incostituzionale?". Negli ultimi tempi, Sartori si è trasformato nel più aspro nemico delle invenzioni costituzionali della Casa delle libertà, nel censore del conflitto d'interessi, nella vox clamantis in deserto contro la democrazia ingabbiata dal monopolio berlusconiano dell'informazione. L'Italia come l'Europa? Siamo anche noi alla vigilia di un cambio radicale di indirizzo politico? «Meglio andarci piano. Il primo aspetto di cui tenere conto è che l'esercito berlusconiano sta marciando a tappe forzate verso la propria riforma costituzionale. Si procede alla trasformazione del sistema parlamentare, con una formula, l'elezione diretta del premier, che è stata sperimentata disastrosamente in Israele e abbandonata dopo tre prove. Con conseguenze che possono essere catastrofiche per l'assetto costituzionale e politico». Si è sostenuto che la ristrutturazione federale impone il rafforzamento del potere centrale. «È una trovata estemporanea: una volta che i poteri siano devoluti alle entità "federali" rafforzare il centro non significa nulla. Si tratta di due realtà diverse, ognuna con le sue prerogative. Rafforzare l'esecutivo si può e va fatto, anche se c'è l'"unicum" rappresentato da Berlusconi. Il Cavaliere passa e le istituzioni restano. Ma per razionalizzare il sistema bastano due misure: da un lato una struttura gerarchica più forte, con il premier che sia il solo a essere investito dalla fiducia parlamentare, e con la possibilità di nominare e rimuovere i ministri; e dall'altro la sfiducia costruttiva, che elimina le crisi extraparlamentari». Invece stiamo inventando il premierato a elezione diretta. «A dire la verità lo aveva inventato D'Alema alla Bicamerale, ritagliandolo su se stesso. Il centrodestra lo ha sviluppato in modo micidiale, prefigurando una sorta di premierato dispotico: cioè uno strapotere non bilanciato da altri contropoteri. E se cade il principio della delimitazione dei poteri, ciò significa la sconfitta del criterio "quis custodiet custodies?", e la violazione dei principi di fondo del costituzionalismo. Il presidente della Repubblica perde la facoltà di nominare il primo ministro e di sciogliere le Camere; perde anche il potere di controllo sull'iter legislativo, garantito dalla controfirma, e di rinviare le leggi alle Camere». Tanto più che il sistema maggioritario permette la formazione di maggioranze in grado di eleggere il "proprio" capo dello Stato. «Il presidente della Repubblica può essere catturato dalla maggioranza. Con questo si sterilizza anche la nomina delle authority, e si incamera anche la nomina dei giudici costituzionali. Non esiste più un contropotere. Se aggiungiamo che controlla e manipola tutta l'informazione televisiva, quindi è in grado di vincere sempre, le conseguenze per la democrazia sono gravissime». L'opposizione è nettamente svantaggiata. «Non solo. C'è l'impossibilità di raggiungere una verità di fatto. Sui dati concreti. Hanno potuto sostenere che la legge sull'immunità per le alte cariche dello Stato c'è in tutta Europa, e non è vero. Quando ho richiamato la legislazione sul conflitto d'interessi negli Stati Uniti, hanno fatto finta di non capire. Le sembra una situazione europea? Prima di parlare dell'onda lunga di sinistra bisognerebbe osservare se c'è la possibilità di un'opinione pubblica libera». A sinistra non sembra esserci una consapevolezza sulla drammaticità della situazione. «Sbaglia anche la sinistra. Siamo all'assurdo che sul premierato esistono due progetti, il progetto Tonini, per la sinistra, e il simultaneo progetto Malan, per la destra. Sono uguali. Uguali. Il che mi fa pensare che i misteri non sono solo in Danimarca». Non era meglio copiare un modello europeo? «Certo, il semipresidenzialismo francese, il sistema parlamentare inglese, il cancellierato tedesco con la sfiducia costruttiva. Così ci avventuriamo in un terreno ignoto, e distruggiamo il costituzionalismo». Ma esisterà un razionalità nel progetto berlusconiano, un obiettivo, un'architettura... «Usare la parola razionalità mi sembra audace quando c'è di mezzo Berlusconi. C'è un disegno preciso sul potere e come conquistarlo e mantenerlo». Non avrebbe bisogno di forzature costituzionali, data la maggioranza che si ritrova. «Berlusconi fa quello che ha sempre fatto. Fa la vittima, sostiene che è paralizzato perché non ha poteri sufficienti, che gli alleati lo frenano. Anche se, quando occorre, quando c'è di mezzo un interesse personale bruciante, gli alleati votano come falangi, vedi la Gasparri. Questo alibi copre soprattutto l'incapacità di governare». Colpisce anche che alleati come An e l'Udc si dimostrino corrivi verso il federalismo imposto dalla Lega. «Non hanno alternative, vivono di voti concessi. Tuttavia ciò che mi sorprende di più è che non hanno nessun argomento, nessuno. A ogni obiezione rispondono in un solo modo: tutto ciò che stiamo facendo lo ha fatto la sinistra. In effetti la sinistra gli ha spianato la strada, con l'approvazione unilaterale della riforma del Titolo V». Secondo lei andranno fino in fondo? Oppure è un'operazione di facciata, che si insabbierà nelle letture parlamentari? «Andranno fino in fondo. Marceranno implacabili, in parte per l'istinto di predatore di Berlusconi, e in parte perché la grande riforma è il surrogato pubblicitario di un'attività di governo fallimentare». Resterà soltanto il referendum. «Difficilissimo da vincere contro le televisioni. Tanto più che la gente non ne vuole sapere, non ci capisce niente. L'assetto e l'equilibrio costituzionale sono come i mercati sotto casa o l'elettricità: la gente sa che ci sono, ma non ne conosce e non ne vuole conoscere il funzionamento. Sa che premendo il pulsante si accende la luce, non vuole sapere le teorie retrostanti. Tocca alla classe politica essere responsabile e valutare tutte le implicazioni delle riforme». In queste ultime settimane invece si sono visti sistemi democratici ottimamente funzionanti. «Sicuro: ma ripeto che non vedo onde lunghe di nessun tipo. C'è piuttosto in tutti i paesi europei un elettorato frustrato e scontento per motivi che nessun governo può controllare. La globalizzazione ha liquidato la possibilità di scaricare sul prezzo dei prodotti il costo dello stato sociale. La concorrenza globale ha messo la parola fine, e ciò spiega lo scontento degli elettorati e l'impossibilità per i governi di trattare il problema. Non si può più usare l'inflazione, e i prezzi cinesi o indiani portano a comprimere i prezzi dei prodotti europei». È una questione strutturale delle economie contemporanee. Eppure ci sono ricette di destra e ricette di sinistra. L'elettorato può scegliere fra soluzioni neoliberiste o soluzioni socialmente più equilibrate. «No, gli elettorati europei hanno aspettative che in genere non possono essere soddisfatte dai governi. È per questo che ogni governo, di destra o di sinistra, dura al massimo una legislatura, salvo eccezioni. Aznar, che pure aveva governato bene, è inciampato in un errore incredibile, lo sfruttamento politico della strage dell'11 marzo. C'era un voto pronto per il Partito popolare che si è modificato nelle ultime ore». C'è stata anche una ripresa della partecipazione elettorale. In Francia, sette punti in più rispetto alle regionali precedenti. «E poi mi obiettavano che il doppio turno provoca l'assenteismo. Storie. La partecipazione dipende dalla posta in gioco. Inoltre, in Francia la sinistra derelitta era ancora sotto il peso di avere dovuto votare per Chirac alle presidenziali, contro l'incubo Le Pen, e aveva una gran voglia di togliersi quel peso e vendicarsi. La ragione del declino della partecipazione elettorale dipende da un declino di intensità politica. Quando non ci sono più fratture profonde e conflitti ideologici la partecipazione cade. Non appena si ricrea intensità, la partecipazione risale. Quindi, quando si riacutizza lo scontro sociale, per l'insostenibilità del welfare, i cittadini vanno a votare». Ciò nondimeno è sembrato di assistere a un eccellente spettacolo democratico. La protesta che si incanala nel voto. Che spettacolo vedremo nella campagna per le elezioni europee? «Assisteremo a un bombardamento. Nessuno lo immagina ancora, siamo alle premesse. Berlusconi scatenerà un fuoco impressionante. Potrà mentire su tutto senza essere smentito su nulla. Per questo gli ottimismi "europei" sono prematuri. Meglio dire che la partita è tutta da giocare». Diversamente dall'Europa, in Italia il pacifismo può essere un criterio di voto contro il governo? «Sì, da noi può costituire la variabile determinante. In Italia c'è la Chiesa, non dimentichiamolo. Io sono critico verso quelli che ho chiamato "ciecopacisti", ma Berlusconi può perdere il voto di chi era contrario alla missione in Iraq». Non le piacciono, i pacifisti. «C'è chi vuole la pace e intende perseguirla, e chi urla pace senza sapere come realizzarla. Achille Occhetto mi ha detto che oggi il motto latino "si vis pacem para bellum" va rovesciato. Gli ho risposto: guarda che hai ragione. Rovesciando, viene fuori: se vuoi la guerra, prepara la pace. Mi sembra il giusto epitaffio sul pacifismo irreale».
L'Espresso, 15/04/2004
La guerra di Guerri
Guai a toccare l'Orco, cioè l'Elefantino, alias Giuliano Ferrara, insomma la mente del "Foglio". Si rischia grosso, e non solo per la sua stazza. Indifferente ai sortilegi, Giordano Bruno Guerri ha aperto le ostilità. Prima presentando "L'Indipendente", giunto alla quarta incarnazione come quotidiano, come l'alternativa al giornale cult della destra, divenuto «troppo autoreferenziale». Poi facendosi sponsorizzare dalla coppia scoppiata Berlusconi-Fini al lancio romano del quotidiano «futurista», fra 700 invitati, compresi Tony Renis e Mogol. Quindi giocando ogni giorno col fuoco, in una guerra fra eretici, gente facile a farsi bruciacchiare. Grande guerricciola tra due figure agli antipodi. L'Elefante, un quintale e mezzo di politica, di malizia, di menzogna come anticamera della verità polemica. Giordano Bruno, l'esilità fatta pallore, immagine dark, mente sempre febbricitante. Per capire qualcosa della guerra di Guerri è utile dare un'occhiata al suo sito Internet (www.giordanobrunoguerri.it) molto spettacolare, con tutti i migliori plug-in, dove campeggia il motto "La mente va aperta come un paracadute", e da cui si può accedere a una biografia fluviale. Se di Ferrara, a parte prefazioni e appendici, si ricorda solo un breve saggio sul filosofo Leo Strauss, Giordano Bruno, cinquantatré anni, ha una produzione libraria vastissima, dedicata fra gli altri a Bottai, Ciano, Malaparte, la "povera santa" Maria Goretti. Ha diretto "Storia illustrata", è stato direttore editoriale della Mondadori, è stato considerato un allievo di Renzo De Felice («Con il quale invece ho soltanto litigato»), ha condotto programmi tv e fatto cinema. Conclusione, in terza persona: «Ha vissuto moltissimo. E vuole continuare a farlo». Basta questo curriculum per intuire che Guerri non è uno che si tira indietro. L'idea di entrare a spintoni nel club dei giornali da quattro pagine e un euro, presidiato dal "Foglio" e dal "Riformista", era audace. Entrarci da destra, ma guardando anche a sinistra, con un editore come il geometra Italo Bocchino (An, commissione Telekom Serbia) era ancora più spavaldo. Ma il vero manifesto, o la vera locandina programmatica del nuovo "Indipendente" è stata la lettera di un Ferrara apocrifo, pubblicata sul numero d'esordio, che annunciava le sue dimissioni dalla direzione del "Foglio" a favore del terzista di "Batti e ribatti" Pierluigi Battista. Pesciolino d'aprile. Giochetto che non è nemmeno diventato il tormentone che poteva essere. Tuttavia non si è Orchi per nulla. Il giorno dopo, nella rubrica delle lettere, l'Elefantino barriva: «Scherzetto di un fogliuzzo che imita le nostre beffe, "Il Pitigrilli dei piccoli"». Non male, come avvio di scaramuccia. Pitigrilli, alias Dino Segre, dannunziano antidannunziano, decadente full time, è l'autore di libri fortunati fra le due guerre come "Dolicocefala bionda", "Mammiferi di lusso" e soprattutto "Cocaina". Ahi. Eccoci alla polvere bianca, neanche troppo terapeutica. Si allude? Ma certo che si allude. Se poi Giordano Bruno, nella rubrica su fondo azzurro "L'anticentro", definisce Adriano Sofri «il raffinato intellettuale galeotto», invitandolo a fare il piacere di chiedere la grazia (oppure «Rimanga in carcere per tutto il tempo che gli resta»), la vendetta del "Foglio" era sicura. È arrivata puntuale lunedì 5 aprile, con l'edizione straordinaria del quotidiano a sostegno dell'ultima iniziativa di Marco Pannella, nella rubrica teppistica di Andrea Marcenaro "Andrea's Version". Il giornale di Guerri si è autopromosso con lo slogan "Indipendente fino all'ultima riga"? Ecco allora una serie di parafrasi marcenariane con molti vistosi sbuffi di polvere bianca: «Indipendente, non si perde una pista». «Indipendente, il quotidiano che vi dà la polvere», e via di seguito con il giornale «che fiuta e rifiuta». Il giorno dopo, Guerri pubblica la lettera di un lettore volonteroso: «Secondo il "Foglio" fai uso di cocaina. Se è vero, mi dai l'indirizzo del tuo pusher?». Buona la battuta, ribatte il complice Guerri. Ma la risposta carogna è in prima pagina, nella solita rubrica azzurra anticentrista, e riguarda ancora l'iniziativa per Sofri: «Grottesca pantomima» che «ha superato qualsiasi limite razionale», lasciando pensare che «vi siano oscure ma pericolose armi di ricatto - di Sofri e dei sofriani - alla base di comportamenti politici così frenetici». Si aspettano rappresaglie. O per meglio dire: fuoco alle polveri.
L'Espresso, 22/04/2004
Un Pannella per tutte le ragioni
Europeo, capace di richiamarsi fraternamente ad Altiero Spinelli. Americano, come le riforme politico-elettorali che ha sempre sostenuto. Fautore del maggioritario a turno unico, a dispetto dell'essere il signore di un partitino, che può allignare solo nel proporzionale, e solo grazie al suo indiscusso potere carismatico. Corteggiato a destra e cercato a sinistra, con i buoni uffici post-socialisti di Giuliano Amato. Trasgressivo e trasgressore, come nelle battaglie antiproibizioniste a base di spinelli, questa volta con la minuscola, anche se gli appellanti a favore della sua ultima battaglia, l'iniziativa per il ripristino della prerogativa presidenziale sul potere di grazia hanno scritto nel loro succinto manifesto: «Ci fidiamo di Marco Pannella e della sua storia di difensore battagliero e irriducibile della legge e del diritto» (firme di Pierluigi Battista, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Angelo Panebianco). Trasgressore o tutore, plagiario, eversore o garante, Marco Pannella è un'autobiografia della nazione politica. Ma c'è un legame fra l'uomo delle battaglie per i diritti civili negli anni Settanta, e l'ultrasettantenne che promuove il "Satyagraha" gandhiano e non violento, ricorrendo allo sciopero della fame e della sete, per ripristinare la legalità, vulnerata due anni fa dal mancato plenum alla Corte costituzionale e oggi da una prassi che ha reso "duale", ripartito fra il capo dello Stato e il ministro della Giustizia, il potere di grazia? Leader senza esercito, Pannella è in grado di reinventarsi a ogni stagione. Alle elezioni politiche del 1994, prima prova del maggioritario, era riuscito a farsi concedere qualche seggio da Silvio Berlusconi (ancora oggi sogghigna, con solidarietà liberista: «Io e Silvio, due cattivi ragazzi...»), ma protestando accanitamente contro chiunque sostenesse che aveva stretto un accordo con il Polo. Nel 1999, alle elezioni europee, gli era riuscito il trionfo mediatico di Emma Bonino, che aveva ottenuto più consensi dei prodiani, ma scontentando immediatamente l'elettorato che credeva di essersi espresso per il volto nuovo della fanciulla Bonino e aveva visto riapparire il ghigno del vecchio vampiro. Aprile si addice a Marco. Nell'aprile 2002 era riuscito a farsi telefonare da Carlo Azeglio Ciampi nello studio di "Buona domenica". Secondo le cronache: «Occhiaie bluastre e profonde, esausto, tormentato da una tosse che gli scuote il corpo smagrito, Marco Pannella vuota un bicchiere d'acqua e interrompe così il suo sciopero della sete sotto lo sguardo soddisfatto di Maurizio Costanzo. Applausi, Orietta Berti e Enrica Bonaccorti in piedi, il presidente della Repubblica ancora collegato in diretta...». Due giorni prima Pannella aveva scioccato l'Italia bevendo la propria urina. Allora c'era in ballo l'elezione mancata di due giudici della Consulta, scaduti da un anno e mezzo. L'ultima protesta (l'ultimo «ricatto», secondo i detrattori, «la solita barzelletta», per il ministro Carlo Giovanardi) è sorta invece sulla scia del dibattito per la grazia a Adriano Sofri. Ma Pannella ha negato ostinatamente che si trattasse di un caso particolare. In una lettera a Ciampi pubblicata sul "Foglio" del 7 aprile, dopo 60 ore di sciopero della sete, con il "collegio medico" che segnalava ogni giorno la disidratazione e i rischi per il cuore, lo ha sottolineato con forza: in gioco non c'è il «problema specifico di questa o quella concessione di grazia, ma il recupero della legalità costituzionale». L'iniziativa di Pannella ha buttato per aria la politica. Nella sua prosa, Ciampi è diventato il «principe prigioniero», a cui una corte ignava impedirebbe di esercitare la potestà costituzionale. Ha chiesto le dimissioni del massimo giurista quirinalizio, Gaetano Gifuni, liquidandolo con un ukase: «Non credo che tu possa ritenerti la persona meglio adatta per servire i dettati della Costituzione e le scelte conseguenti del Presidente». Ha messo in mezzo un Berlusconi impacciato, che già era stato brutalizzato da Giuliano Ferrara («si è consumata un'amicizia») dopo la bocciatura della legge Boato, un dispositivo per riattribuire al Quirinale il potere esclusivo di grazia. Berlusconi ha dovuto promettere che «l'orologio» del ripristino costituzionale sarebbe ripartito. Ciò ha scaraventato per aria la Casa delle libertà, con gli alleati che sono insorti contro qualsiasi provvedimento potenzialmente a favore di esponenti del «terrorismo», con Roberto Maroni in prima fila, mentre Maurizio Gasparri non ha esitato a opporre il veto preventivo a un'eventuale decisione di Ciampi a favore di detenuti in odore di eccellenza. Tutto questo, da parte di Pannella, senza mai citare Sofri, ma soltanto il potere presidenziale di grazia, articolo 87 della Costituzione, «questo gioiello giuridico, che ci giungeva da millenni». Ogni volta citando la «dottrina» e schiere di giuristi favorevoli alla sua interpretazione (e ignorando l'opinione di chi sostiene invece che il potere esclusivo di grazia sarebbe un residuo medievale, e che un sistema democratico non tollera decisioni del tutto discrezionali). Alla fine, Pannella ha bevuto. Ha incontrato il Reduce da Nassiriya. È riapparso da Costanzo, con un bicchiere d'acqua in corpo. Ha lasciato dietro di sé un caso praticamente indecidibile, nel quale dietro una misura universalistica traspare un atto ad personam. Ma soprattutto ha fatto nascere un dubbio: e cioè che il Pannella di oggi, capace di mobilitare dietro l'appello dei "terzisti" Battista & c. un variété di intellettuali e showmen, da Pippo Baudo a Milva, da Carlo Ginzburg a Bernardo Bertolucci, e di trattare un caso istituzionale dubbio come un dogma, sia ormai un uomo politico che parla alle élite, e sicuramente le influenza, talvolta le mette sotto scacco; ma chissà se parla ancora all'opinione pubblica, e se l'opinione pubblica ha voglia di ascoltare le sue strepitose manipolazioni politiche vestite da argomenti di inoppugnabile civiltà giuridica.
L'Espresso, 22/04/2004
Chi ha paura dei lumaconi di Bruxelles
Brillante, non c'è che dire, la polemica aperta da Silvio Berlusconi contro i "lumaconi" di Bruxelles. Come sempre, il premier non fa nomi. Fra i viscidi molluschi dovremmo comprendere Super-Mario, ovvero il Monti che conduce durissime battaglie antitrust contro il colosso Microsoft? O dobbiamo pensare che le invettive di Berlusconi si rivolgano a Pedro Solbes, il commissario dell'"early warning" ai conti pubblici italiani? Macché: il lumacone è uno solo, e ha i cornini di Romano Prodi. Cioè il leader incoronato della lista unitaria e dell'Ulivo, ancora per qualche mese alla guida della Commissione europea. Dovrebbe essere chiaro che la Casa delle libertà, con il capocondominio in testa, ha tutto il diritto di attaccare Prodi per la sua doppia identità. A posizioni rovesciate, il centrosinistra farebbe altrettanto. Quindi conviene considerare la guerra aperta dal Cavaliere come una normale iniziativa politica, condotta nel solito modo scombinato e stilisticamente "cheap". Ma subito dopo occorre anche valutare che l'obiettivo di Berlusconi e dei suoi boys è largamente strumentale. La formula berlusconiana è la seguente. Premessa maggiore: il limite del 3 per cento al deficit previsto dal Patto di stabilità non ci piace. Premessa minore: per poter raddrizzare un'esperienza di governo mediocre, con una radicale riduzione delle aliquote fiscali, dobbiamo avere la possibilità di agire in "deficit spending". Conclusione: attacchiamo Prodi per il suo "conflitto d'interessi" e prendiamo due lumache con una sola esca. Intanto imbrattiamo l'immagine del leader dell'Ulivo e nello stesso tempo prepariamo le condizioni per la nouvelle vague finanziaria all'americana. Tutto questo sconta il difetto, ampiamente segnalato, che i grandi paesi europei hanno una media del debito pubblico inferiore al 60 per cento del Pil, mentre l'Italia si aggira sul 106. Quindi non è affatto detto che l'appoggio allo sforamento di Francia e Germania, assicurato a suo tempo da Giulio Tremonti, sia ricambiato. Dal punto di vista dell'equilibrio dei conti, il nostro paese è ancora "l'uomo malato" d'Europa. Uscito convalescente dalla cura Prodi-Ciampi, ha visto sensibili sintomi di peggioramento con il governo Berlusconi. Ma tutto questo va collocato anche nell'ambito del vero sentimento che gran parte del centrodestra nutre nei confronti dell'Unione europea e delle sue istituzioni. E cioè un'insofferenza provinciale, un rancore domestico, un'animosità autarchica. In Parlamento si sentono spesso accuse vocianti contro "l'euro voluto da Prodi", dimenticando che senza la moneta unica, e senza lo sforzo di rientrare nei parametri di Maastricht saremmo un paese allo sbando. Il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, non perde occasione per manifestare i suoi scetticismi (e per riesumare periodicamente il rimprovero di non avere stampato la banconota da un euro). E fosse solo questo. Alle spalle abbiamo la rottura della solidarietà in politica internazionale, con la scelta filoamericana sulla guerra in Iraq, la costituzione di un presunto "asse" con Blair e Aznar che è tracollato in seguito alla sconfitta dei popolari alle elezioni spagnole del 14 marzo. C'è la gestione velleitaria della conferenza intergovernativa, finita nel grottesco di formule segrete e ricette miracolose ignorate dai partner. Nonché l'ombra di un "direttorio" fra chi conta veramente (Schröder, Chirac, Blair) e che esclude di fatto proprio quell'Italia berlusconiana scesa in Europa con l'intenzione muscolare di "contare di più". Mettiamoci anche la probabile beffa finale di un'approvazione a breve della Costituzione europea, e si avrà la dimostrazione che il nome Berlusconi non assicura di diritto il ruolo di statista e padre fondatore. Con tutto questo, addosso al Lumacone. Ottima strategia istituzionale, elegante intellettualmente, di grande apertura internazionale. Ma chissà quanto utile politicamente. Annotazione storica a futura memoria: per guastare l'immagine di Prodi, inventarono la definizione della mortadella dal volto umano, e Mortadella, entrato nel ruolo, vinse le elezioni. Corsi e ricorsi, cicli e Tricicli: oggi può darsi che il passo della lumaca sia più efficace della nevrotica e sterile velocità polemica del centrodestra.
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