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Omero ha fatto gol

28/09/2006

Non è nemmeno il caso di ricorrere a precedenti come le "Cinque poesie per il gioco del calcio" di Umberto Saba: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela la faccia». Oppure al soprannome che classificava il torinista Claudio Sala come il "poeta" del gol. Forse ci vuole davvero la poesia per descrivere con sintesi immediate il calcio: perché nel suo momento migliore, allorché si condensa in mosse fulminee, in scarti imprevedibili, nella violenza del tiro o nella infernale qualità del dribbling, non c’è prosa che possa rappresentarlo (Gianni Brera descriveva l’azione in profondità attraverso una serie concatenata di frasi connesse dall’uso ripetuto dei due punti, come se ogni momento di gioco contenesse di necessità la sua evoluzione). Quindi che il "Poesia Festival", promosso nell’area modenese dall’Unione Terre di Castelli e dalle istituzioni locali, abbia dedicato una sessione proprio a quell’incrocio non frequentissimo fra il calcio e la poesia è una novità felicemente creativa. Perché quel vecchio gioco diventa effettivamente racconto, mito, immagine soltanto quando è narrato, anzi, isolato in frammenti mitici, come nelle icone metanarrative di Quentin Tarantino. Nessuna biografia, come nessuna cronaca sportiva, saprà rappresentare la classe di Roberto Baggio come l’ha identificata Fernando Acitelli in pochi versi ispirati: «Talento di raso vestito, palleggio erudito, tocco infinito, fanciullo ferito…». Queste parole appartengono alla raccolta intitolata "La solitudine dell’ala destra", una «storia poetica del calcio mondiale» che apparve per la prima volta da Einaudi nel 1998, e che rimane un magnifico esempio di "cronaca" in versi, sempre che per cronaca si intenda il modo in cui il canto omerico fissa per sempre i giochi e i duelli dei guerrieri, o la maniera in cui la leggerezza ariostesca sembra descrivere gli eventi nel loro avvenire. Illustrare il calcio significa in realtà interpretarlo, cioè inventare le parole per definire un gesto: allorché Mariolino Corso riprese uno dei più poetici gesti del calcio, il tiro di punizione a pallonetto, che si era già manifestato negli anni Trenta, fatto dagli uruguagi, si poteva chiamarlo in molti modi. Nella sua interpretazione, quel gesto tecnico divenne un canto triste, come eseguito dalle cadenze di Juliette Gréco, in un sentore prevertiano, come un gesto e una parabola autunnali, e quindi decadenti, inesorabili, soffusi di malinconia: «Geometrie e calligrammi / a centrocampo, con fraseggi / curvilinei, esecuzioni shock, dette, / su punizione, a foglia morta». Già, «les feuilles mortes». Perché anche il calcio ha bisogno di un suo autunno, per essere mitizzato: di un bianco e nero da anni Sessanta, in cui si attenuano i colori della tv al plasma, e l’affetto per il passato supplisce poeticamente all’imprecisione del ricordo. O meglio, la poesia fissa per sempre un gesto, la "rabona" di Diego Armando Maradona, la "ruleta" di Zinedine Zidane, il "sombrero" dei giocolieri brasiliani, sottraendoli alla storia e inserendoli in una memoria riconoscibile collettivamente. Per un paradosso, proprio la materialità estrema del calcio, con i suoi tackle e la durezza del contatto fisico, trova un’illustrazione nel linguaggio poetico. Perché una partita dura novanta minuti, ma il gioco del calcio dura per intere esistenze. E solo qualche verso, nel fluire anonimo e grigio delle vite e delle partite, riesce a estrarre la pepita luccicante che illumina la vicenda di un campione, la carriera di un gregario, traiettorie e parabole di un pallone che altrimenti non si fermerebbe mai. n

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