gli articoli Il Mulino/

Nudo come un pallone

09-10 2002

Alla fine di agosto, mentre il calcio italiano era squassato dal terremoto economico- televisivo che ha portato al rinvio del campionato, Alberto Arbasino scriveva alla «Stampa» una delle sue provocazioncine in forma di lettera: «In qualità di tifosi impegnati e non trasgressivi, ci si preoccupa e allarma vieppiù per la quantità e la frequenza di "facce da pirla" nelle attuali foto di carattere calcistico. Che la crisi in corso possa dipendere anche da ciò?». Perdere la faccia Non è immediato capire a chi si riferisse nello specifico colui che ormai sfiora l’unanimità nella considerazione di massimo scrittore italiano contemporaneo (con evidente dispiacere di tutti gli altri): ma se si pensa che le pagine sportive, o comunque dedicate al calcio, sono largamente costellate da figure di calciatori, e in misura minore di presidenti e dirigenti di società calcistiche, nonché di veline e letterine che intercettano l’orbita sentimentale di qualche campione o presunto tale, non c’è bisogno di troppe spiegazioni per capire qual è l’universo di riferimento; poi sarà solo questione di proporzioni, un tot di calciatori, un tantum di presidenti, un quid di squinzie. Si potrebbe anche considerare quella di Arbasino come la boutade di un outsider, cioè un intellettuale che ha sempre confessato lo snobismo di preferire altri passatempi rispetto allo spettacolo e al «dibbattito» calcistico, se non fosse che l’ultima stagione del pallone è stata suggellata proprio dalle barzellette. Già la spedizione italiana al campionato mondiale in Estremo Oriente era cominciata con una notevole campagna di freddure sull’atleta che negli auspici degli appassionati avrebbe dovuto essere il diamante tattico, la fonte del gioco, l’agente della verticalizzazione in campo, e cioè il romanista Francesco Totti. Era un pessimo augurio, a pensarci bene, che la malevolenza nazionale si esercitasse sul ragazzo di Porta Metronia, il «coatto» nel linguaggio Telenovele e barzellette del calcio italiano In un calcio povero di eroi e di geni ma ricco di inventiva, unico «O’Rey» resta il business. C’è voluto il fenomeno Chievo per mostrare come in Italia il mondo del pallone fosse una bolla tecnica e organizzativa; e poi, in estate, la vicenda della cessione dei diritti televisivi per palesarne anche la bolla finanziaria e quella mediatica. Per fortuna non mancano barzellette e telenovele. E la storia continua. e nell’abbigliamento (ingiudicabile secondo le giornaliste sportive la polo con il colletto rialzato), proprio mentre una lunga campagna d’opinione, suffragata anche dall’autorevolezza del presidente della Repubblica, stava per riuscire nell’impresa inimmaginabile di costringere i campioni della pedata a cantare in coro, prima del fischio d’avvio, «Fratelli d’Italia». Stringiamci a coorte, anche se per il momento la fraternità italica si esprimeva con storielline come questa: i tre anni più difficili per Totti? Quelli della prima elementare. Oppure l’autentico exploit stagionale, riciclaggio e adattamento di una vecchia barzelletta sui veneti, da raccontare con l’accento romanesco, voce rauca e occhio liquido: c’è la commissione d’esame di terza media che chiede al trequartista giallorosso di comporre due frasi con il gerundio dei verbi essere e avere. Risposta sicura, poiché è stato informato prima da una gola profonda: «Essendo che er presidente Sensi m’ha regalato ‘na Ferari, gialla, e a me er giallo nun me piace, io che faccio? ‘A vendo». Ghignate solidali. Tuttavia, a dispetto della malevolenza antiromana, chissà, forse frutto della propaganda leghista, i selezionati della nazionale erano partiti dall’Italia accompagnati da vibranti dichiarazioni d’amore collettivo, ed erano giunti in Giappone accolti da un tifo esorbitante degli appassionati giapponesi. Perché agli occhi nipponici gli atleti italiani rappresentavano una sintesi di stile, di look, una versione sportiva e mediatica del made in Italy: «italiani belli!», ripetevano le ragazze intervistate dalle troupe televisive. Dietro il ritratto di Del Piero esposto nei negozi giapponesi non c’era soltanto il talento non del tutto compiuto dell’attaccante juventino, quanto il fascino irresistibile di un’immagine, di un cartoon, o meglio di un manga «globale». In realtà, dicono i tecnici, è possibile che sul piano strettamente calcistico il leggendario «Alex» si fosse giocato la fiducia del commissario tecnico Trapattoni rifiutando il ruolo di suggeritore, cioè una posizione in campo più arretrata rispetto alle punte, in una stanca partita premondiale; ma fino al momento in cui contano le chiacchiere e l’esteriorità, il touch estetico più che il gioco effettivamente espresso e il tocco di palla, Del Piero per i giapponesi non era soltanto un calciatore, bensì un’icona, la personificazione del calcio come evento da mondovisione e magia virtuale da play station. Ma anche tutti gli altri azzurri, panchinari compresi, venivano percepiti come altrettanti simboli del glamour contemporaneo, ancor prima che della tecnica del novecentesco dribbling game: vedi il bellissimo centrale Nesta, di classe mondiale eppure quasi femmineo, con i capelli lisciati sapientemente con certi oli essenziali, così come lo strenuo difensore Cannavaro, esemplare da spot di maschio napoletano, e il veterano Maldini e l’agile Montella e tutti gli altri nessuno escluso sollecitavano brividi di ammirazione nel pubblico femminile e passione calciofila nel pubblico maschile: sicché quando Del Piero entra finalmente in campo contro il Messico, e realizza il gol del pareggio (una rete di testa in tuffo, bellina, superflua ai fini della qualificazione ma importante in quel momento quasi disperato come segno di reattività morale della squadra), lo stadio impazzisce. Però si sa come va a finire, negli ottavi di finale, il 12 giugno a Daejeon, nonostante la certezza ontologica degli italiani di essere candidati alla finale mondiale: con la complicità di un arbitro «dallo sguardo bovino», un essere sovrappeso e quindi impresentabile esteticamente, discutibile tecnicamente, l’ecuadoriano Byron Moreno; ma grazie anche a una improvvida sequela di errori in zona gol, e alla classica paura di vincere che induce Trapattoni a difendere secondo l’abitudine «italianista» un vantaggio minimo, la nazionale italiana prima subisce il pareggio negli ultimi minuti e poi le prende nei supplementari dalla Corea del Sud; e tutti a casa. Per la curiosità dei non esperti, il «golden gol» decisivo lo realizza l’attaccante coreano Ahn, una riserva del Perugia, che verrà additato più o meno come un traditore della casa madre italiana, che gli passa lo stipendio. Ci sono numerose sequenze registrate che scandiscono il dramma politico- calcistico, ma forse anche antropologico, di un Mondiale fallito. C’è l’isterismo di Trapattoni, che di suo sarebbe un lombardo di buon senso e di buone ispirazioni pragmatiche, il quale tuttavia prende a pugni il plexiglass della panchina con una scena da energumeno, oppure pratica un suo rito cattolicopagano versando sul terreno l’acqua benedetta contenuta in apposita bottiglietta, in attesa di miracoli che non arrivano. Tuttavia la sequenza forse più esplicativa è quella in cui ancora Totti, espulso ingiustamente dall’inqualificabile e complottardo arbitro Moreno per una simulazione molto presunta nell’area coreana, si avvia desolatamente a bordo campo: è statuario, il volto immobile, inespressivo, l’occhio sbarrato, il labbro muto, l’aspetto impenetrabile. Il glamour alla romana si è trasformato in una tragedia greca. Succede quando la bieca realtà provvede inopinatamente a dissolvere i sogni. Così, mentre in Italia si scatena un grandguignol giornalistico e televisivo per i torti geopolitici subiti dalla nazionale («Ma allora non contiamo un c…, nel mondo», ad onta dell’autorevolezza planetaria di Silvio Berlusconi e dei suoi rapporti privilegiati con l’amico Bush e l’amico Putin), e il ritardatario presidente della Federcalcio, Franco Carraro, arrivato laggiù giusto in tempo per assistere allo scempio, annuncia discorsi forse apocalittici che dovrebbe fare al ritorno in patria (e che ovviamente non farà), passa subito la linea della conferma di Trapattoni, grazie anche al coro generale che attribuisce l’eliminazione italiana a un complotto internazionale gestito dal grande maneggione della Fifa, il presidente Sepp Blatter, in combutta con non si sa più quale tycoon coreano, che avrebbe approfittato del Mondiale per aprirsi una carriera politica. In realtà, le vedette italiane hanno buttato via il campionato. Giocavano male, come no. Ma diverse altre favorite anche peggio. Potevano arrivare lontano, le nostre sciccose e pettinatissime star. Sinistri scricchiolii Il «dibbattito» prosegue ovviamente per giorni, inanellando altre barzellette: si racconta con un certo compiacimento da guappi che gli azzurri per la rabbia hanno disfatto lo spogliatoio, che stavano per linciare l’odioso arbitro Moreno incrociato per caso all’aeroporto; si stabilisce che una congiura di quella portata significa un danno all’Italia calcistica ma anche il discredito strutturale del calcio; se non fosse che in finale arrivano due potenze calcistiche classiche, Germania e Brasile, a conferma di una storica battuta di un buon centravanti inglese, Gary Lineker: «Il calcio è un gioco che si fa in undici, e alla fine vince la Germania». La Germania non vince, e il Brasile è campione del mondo per la quinta volta nella storia del calcio, ma il senso del discorso non cambia: la dimensione tecnica del Mondiale asiatico è stata riscattata, data la caratura delle finaliste. Ci si potrebbe preparare così alle ferie e poi alla ripresa del campionato con una certa tranquillità sociale, sbollita la delusione: si sa che ogni scarrafone è bello a mamma sua, e Gianni Brera ricordava che il calcio riesce ad appassionare anche chi assiste al torneo notturno dei bar. Oltretutto, questa volta è stato zitto anche Berlusconi, non come quando attaccò polemicamente il ct Dino Zoff, dopo la tremenda delusione della sconfitta in extremis con la Francia nella finale degli Europei del 2000: «Anche un cretino avrebbe capito che bisognava marcare Zidane…». E dire che ricevendo gli azzurri prima del viaggio intercontinentale verso il Giappone li aveva invitati a non tornare, ecco l’amichevole minaccia, se fossero stati sconfitti anzitempo. Calma piatta, quindi, in attesa che il Barnum riaprisse i battenti. Questa volta non c’era un catastrofista Zoff a dimettersi, e quindi nessun caso politico incombente. Calma piatta un corno. Lì per lì cominciano a circolare voci preoccupate sulla tenuta dei conti del calcio nazionale. Il presidente della Roma Sensi, proprio quello della «Ferari» gialla, aveva lanciato messaggi piuttosto espliciti sulla possibilità del rinvio del campionato di serie A. Inoltre, il calciomercato langue. Comincia a circolare la frase «bambole, non c’è una lira». Al punto che uno dei più grandi barzellettieri del calcio italico, l’invidiatissimo centravanti Christian Vieri, detto Bobo, uno che ha girato tutte le squadre d’Italia e ha compiuto un’escursione anche in Spagna, telefona al suo presidente, il generoso Massimo Moratti (un petroliere che in pochi anni ha speso di tasca sua almeno mille miliardi di vecchie lire per rafforzare inutilmente l’Inter), per annunciargli che ha deciso di autoridursi lo stipendio. Non solo, gli comunica anche che ha preso contatto con due rinomatissimi colleghi, il brasiliano Ronaldo detto il Fenomeno e l’uruguagio Recoba, per convincerli a fare altrettanto, e ne ha ottenuto un immediato ed entusiastico consenso. Siccome non si è mai visto un calciatore che di sua volontà rinuncia a una parte di compenso, lo sbalordimento è collettivo. Si scomodano anche gli psicologi. Va bene che il 5 maggio l’Inter ha perso lo scudetto con una sciagurata sconfitta nell’ultima giornata di campionato, con Ronaldo che ha versato caldissime lacrime in panchina, quasi commuovendo anche gli juventini più cinici; e ammettiamo pure che anche i giocatori si rendano conto che la grande festa finanziaria assicurata dall’esplosione dei diritti televisivi sia finita. Ma nessuno capisce per quale motivo tre assi di quel valore annuncino una decisione simile. Il calcio non è uno sport per signorine, come dice il proverbio della corporazione, ma soprattutto non è giocato da filantropi. Gli atti di generosità sono rari. Fare un gesto volontario di moralizzazione, o di calmieraggio, non appartiene alle logiche di un’«azienda», il calcio Spa, in cui le società sono diventate un’entità azionaria (alcune come Lazio, Roma e Juventus sono entrate in Borsa), e in cui si sprecano pagine di giornale e intere filosofie sulla managerialità della conduzione, sulla professionalità degli operatori, sulla serietà dei bilanci, sulla trasparenza dei conti. È vero che le quotazioni a Piazza Affari sono precipitate, e che i bilanci sono stati inquinati dal trucco delle «plusvalenze», con cui le società si scambiavano campioni e bufale a un prezzo significativamente superiore al loro verificabile valore di mercato: è vero tutto, e il sistema sta scricchiolando sinistramente, ma il calcio è abituato a danzare sull’orlo dell’abisso, in passato ha visto follie miliardarie e scandali come il calcioscommesse: se per spiegare il beau geste di Vieri e degli altri due martiri i nerazurro corrono espressioni talmente romantiche da risultare incredibili, vuol dire che la situazione è fuori controllo. «Un gesto di stima verso il presidente», «Un segno di disponibilità », e poi via con l’affetto, l’amore per la maglia, la promessa di un futuro più moderato e di un campionato migliore. Cani, gatti e procuratori Fingono di crederci quasi tutti. E tutti fingono di non vedere che in realtà il bubbone si è già aperto. Al punto che «Il Sole-24 Ore» del 1° settembre rispolvera provocatoriamente una vecchia perizia di Luigi Spaventa, l’attuale presidente della Consob, che venne chiamato nel 1986 alla Fondazione Giulio Onesti dall’allora commissario straordinario della Federcalcio, Franco Carraro, per «sviscerare la situazione giuridico-economica e finanziaria delle società professionistiche». L’ordinario di Economia politica Spaventa si era dimostrato impietoso sulle prospettive del calcio nazionale: «Si imporrà una severa revisione delle società del settore per distinguere i casi recuperabili da quelli disperati». La disperazione originava dal fatto che l’andamento economico era precario, il margine operativo delle società spesso negativo, e quindi «per contenere o celare gli effetti di questo peggioramento effettivo nel conto economico aggregato si ricorre sia a un contenimento degli ammortamenti sia a evidenti operazioni di window dressing volte a un ingrandimento fittizio di una voce attiva del conto economico». Spaventa aggiungeva che «il window dressing è evidente nella valutazione delle plusvalenze, che dipendono dall’attribuzione di valori arbitrari all’oggetto di operazioni di puro baratto. Se scambio un cane con due gatti il valore del cane e del gatto è arbitrario: basta che il primo sia il doppio del secondo». E con la sua nitida crudeltà concludeva che nella stagione 1985-86 «solo grazie alla panna montata delle plusvalenze la serie A è riuscita a trasformare un risultato negativo per 107 miliardi di lire in uno positivo per 11 miliardi». Ciò che si capisce da quel lontano seminario è che i malanni del calcio sono antichi, incorporati nella sua struttura, e che sotto il «movimento» calcistico c’era qualcosa di simile una bomba a tempo. Il quotidiano della Confindustria metteva in rilievo come in vent’anni le retribuzioni lorde dei calciatori siano passate, nella media della serie A e B, a valori correnti, dai 52.430 euro del 1982-83 ai 711.161 euro di oggi: «In pratica – conclude l’articolo di Paola Bottelli – nella scorsa stagione ogni calciatore ha ricevuto una busta paga tredici volte più pesante di un collega di vent’anni fa». Che non si tratti di annotazioni soltanto storiche è dimostrato dall’andamento dei fatti. All’improvviso il calcio miliardario si rivela una voragine contabile. Il 29 agosto scorso, sulla pagina dell’economia del «Corriere della Sera», Alessandro Penati scrive che un’azienda «che non produce mai ricavi sufficienti a coprire i costi e l’ammortamento del capitale o chiude, o cambia il management e ristruttura. Le nostre società di calcio, perfino quelle con i bilanci più solidi, si trovano in una situazione simile. Gli introiti non bastano a pagare stipendi, ingaggi e ammortamento del "cartellino" dei giocatori; e per pareggiare i conti hanno puntato sulle plusvalenze generate dalla cessione dei giocatori. Ma i prezzi dei campioni del pallone non potevano salire in eterno. La bolla è scoppiata, mandando in crisi il pianeta calcio». Gli aspetti tecnici della grande crisi, con i suoi addentellati televisivi, sono piuttosto complicati. Penati li sintetizza così: «Le società italiane… hanno scatenato una rincorsa al rialzo di ingaggi e cartellini, contando sull’Eldorado dei diritti televisivi. Ma, a loro volta, le pay-Tv, alla conquista di un mercato che esisteva solo nei sogni, hanno fatto esplodere le quotazioni degli eventi calcistici, puntando sulla popolarità dello sport. Ovunque stanno crollando sotto una montagna di perdite». Insomma, si è innescato un circolo vizioso di costi crescenti non compensati da introiti adeguati, e il buco rischia di diventare un abisso. Il più noto commentatore calcistico nazionale, Giorgio Tosatti, sul «Corriere della Sera» (31 agosto) ha fornito il quadro seguente. Le emittenti televisive italiane han sempre pagato per i diritti del calcio un prezzo non commerciale ma strategico. In regime di monopolio la Rai sborsava solo due miliardi a stagione. Persa l’esclusiva della diretta, dovette contrastare le offerte di Mediaset, alzando di molto i compensi. Nel pieno della competizione (ai tempi di Agnes) il calcio era essenziale per garantire all’ente pubblico il primato degli ascolti. Quando Cecchi Gori (padrone Tmc) si garantì i diritti con un’offerta folle – tanto da non poterla onorare – la Rai li riprese a quel prezzo, perché li considerava strategici. Per lo stesso motivo è arrivata a pagare 10 miliardi ogni partita della nazionale: un’assurdità economica. Ma quando Cecchi Gori le sottrasse (a metà prezzo) Inghilterra-Italia, la Rai fu sepolta di critiche perché molti italiani non poterono vedere la diretta. Anche Telepiù e Stream han pagato il calcio più del suo valore di mercato. Era l’unico mezzo per costituirsi una clientela così ampia da sopravvivere e guadagnare. Senza la pirateria ci sarebbero, forse, riuscite. Ora le aziende televisive sono in difficoltà e vogliono, ragionevolmente, ridurre il prezzo dei diritti calcistici, avvicinandolo ai veri valori di mercato… Mediaset non può e non vuole contendere alla Rai i diritti in chiaro, avendo già investito nella Champions League, più remunerativa. Stream e Telepiù stanno per fondersi… Dunque, la crisi nasce dal fatto che dopo investimenti non commerciali le televisioni criptate intendono ridurre l’entità dei trasferimenti alle società calcistiche, e che anche la Rai rimette in discussione il rapporto economico con il calcio. Si può aggiungere che in una realtà meno vischiosa di quella italiana, in una situazione di mercato televisivo corretto, la mancata stipula del contratto con la Rai avrebbe chiamato naturalmente in causa con un’offerta il concorrente della televisione pubblica, cioè Mediaset. Che però è disgraziatamente una proprietà del presidente del consiglio Berlusconi, a cui manca soltanto di farsi accusare di avere approfittato delle difficoltà della Rai. Inoltre, il neo-eletto presidente di Lega, il geometra con pensione sociale Adriano Galliani, è anche in procinto di assumere la carica di presidente del Milan berlusconiano, e quindi la sua mediazione per trovare un accordo con la Rai era un funambolismo vertiginoso dentro il conflitto d’interessi. Alla fine, dopo avere chiesto impudicamente al governo lo stato di crisi, i ras ci mettono una pezza, il campionato è salvo, si ricomincia. Il calcio nazionale resta più o meno quello di prima. Con i suoi trecento procuratori, cioè gli «agenti» dei calciatori (secondo la dicitura professionale ufficiale), una categoria che presenta «nodi e viluppi capaci di far impallidire persino i conflitti d’interesse di Berlusconi e Galliani» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica», 2 settembre). I doppi, tripli e quadrupli ruoli recitati dal presidente del Consiglio e dal suo fido scudiero hanno evidentemente innescato emulazioni varie. La più clamorosa si chiama Gea (sta per «General Athletic»), meglio nota come «la lobby dei figli di papà», oppure «la confraternita del dieci per cento». Trattasi di una società che gestische diritti d’imagine (cioè pubblicità) e contratti (cioè stipendi) di una ben nutrita scuderia che comprende tra gli altri Nesta, Di Vaio, Tacchinardi, Liverani, Baiocco, Conte, Gatti, Blasi, Pancaro, Poborski, Iuliano, più i diritti d’immagine di Buffon, Totti e Fabio Cannavaro […] Ma la squadra davvero interessante non è quella degli atleti, ma di chi li amministra: Alessandro Moggi (figlio di Luciano), Chiara Geronzi (figlia del presidente della Banca di Roma), Francesca Tanzi (figlia del proprietario del Parma), Giuseppe De Mita (figlio di Ciriaco De Mita ed ex capo ufficio stampa della lazio), Riccardo Calleri (figlio dell’ex presidente di Torino e Lazio), Davide Lippi (figlio dell’allenatore juventino). C’era anche Andrea Cragnotti, poi il babbo gli ha detto che non forse non è il caso. La banda si occupa pure di allenatori: Mancini (amicissimo dei Geronzi, suoi veri sponsor), De Canio, Del Neri […] In un vortice di parentele, vicinanze, persino fidanzamenti, questi strani personaggi trattano contratti miliardari con i loro genitori, si mettono in tasca il dieci per cento e sfruttano una ragnatela di amicizie: la seconda figlia di Geronzi, Benedetta, è stata assistente di Franco Carraro, ex capo della Lega e attuale presidente della Federcalcio, il cui figlio Luigi è presidente di Mediocredito centrale, di proprietà della Banca di Roma. Un cerchio tanto perfetto non l’avrebbe dipinto neppure Giotto. Il che sarebbe solo un esempio delle modalità relativamente comiche con cui viene gestita l’«industria» calcistica. Ovvero di come il calcio sia una specie di ordinamento feudale dentro la vita nazionale. Vassalli, valvassori, valvassini, inviati dell’imperatore, brancaleoni, bertoldi, tagliagole. Una situazione divertente, per certi aspetti, come poteva risultare divertente ed eccitante la vita pubblica ai tempi della crisi della prima Repubblica, dei nani e delle ballerine, dei ras dell’immobilismo politico, in attesa del disastro annunciato dalla cassandre. Novela ronaldica Mentre i nodi della grande crisi venivano al pettine, per la gioia dei giornali esplodeva il caso Ronaldo, cioè un’altra grande barzelletta a sfondo calcistico. A poche settimane di tempo dalla vittoria nel Mondiale, e dopo avere accettato con prontezza sciagurata la proposta di autoriduzione dello stipendio avanzata da Vieri, il campione dell’Inter faceva sapere che si era stufato di Milano, dell’Inter, dell’allenatore Cúper, della dirigenza societaria, e che voleva andarsene al Real Madrid. Lasciava anche capire che l’Inter avrebbe potuto certamente pretendere il rispetto del contratto fino alla scadenza stabilita, ma in quel caso Moratti non avrebbe dovuto aspettarsi molto in termini di impegno. Nel frattempo, tornato in Italia, si allenava giocando a golf. La sceneggiata ronaldesca sembrava un tuffo nostalgico nel calcio cialtrone dei vecchi tempi, dell’epoca beata dei «ricchi scemi», quando allenatori e giocatori erano capaci di mille ricatti, e i presidenti di altrettanti cedimenti sul filo del folklore. Comunque, un tormentone che si annunciava lunghissimo, ottimo per ravvivare la noia d’agosto. In realtà, era una storia già scritta fin dall’inizio. Già, Inter e Real Madrid se lo sono contesi accanitamente, tra una folla di musi lunghi, dichiarazioni piene di sottintesi ricattatori, trattative frenetiche e underground; eppure il Ronaldo rientrato sui campi di gioco dopo il Mondiale e visto nell’amichevole del Brasile contro il Paraguay era grasso come un’oca. Saranno stati i temibili allenamenti a cui si era sottoposto in patria, sarà stata la feijoada di mamma Sonia, l’irresistibile piatto con orecchie, cotiche, zampetto e coda di maiale. Per la verità Ronaldo era in carne anche ai Mondiali, ma la speranza di rivedere il formidabile campione d’un tempo induceva al sogno: a scambiare per un tocco geniale uno stiracchiato colpo di punta, a emozionarsi ancora per quella sua finta, il frullo di gambe (un po’ più macchinoso adesso). Si intuiva fin dall’inizio del teleromanzo che Ronaldo doveva (sottolineato doveva) andarsene. Ma non per le fissazioni tattiche del malinconico Cúper, e neanche perché il calcio italiano è nevrotico, oppure perché l’ambiente interista l’aveva stufato. E nemmeno per via delle strategie mercantili dei suoi procuratori così spregiudicati, e per le mene del furbo presidente del Real Madrid, Florentino Perez, machiavellico fin dal nome. No: il Fenomeno se ne doveva andare, appena possibile, per continuare a essere il Fenomeno. Restando in Italia, a dispetto del tatticismo dell’allenatore, della formidabile iella che da anni incombe sull’Inter, e fra tifosi incattiviti pronti alla rima Ronaldo/Bastardo, ogni week-end avrebbe dovuto dimostrare la sua classe, sui campi infidi del campionato più carogna del pianeta. Ma si sa che Ronaldo, più che un’incognita, è un’ipotesi. È un attaccante provato dall’inquietante malore occorsogli prima della finale del Mondiale francese, da due disastri articolari al tendine rotuleo, forse da abitudini non proprio in linea con il rigore della vita sportiva. Qualche decennio fa, di fronte a una tecnica sontuosa e a un fisico declinante, allenatori sapienti inducevano i grandi attaccanti ad arretrare l’azione, a ridefinirsi come uomini-squadra, a gestire con la classe e con l’intelligenza in campo ciò che non era più possibile realizzare con lo scatto. Accadde anche al più grande di tutti, Di Stéfano, e proprio in un Real leggendario. Non accade invece a Ronaldo perché la logica del calcio contemporaneo è un’altra: se anche diventasse un asso del centrocampo, un giocatore capace di trascinare i reparti, di dettare i tempi, di costruire gioco come uno Schiaffino, un Sani, un Suarez, un Falcao, il Fenomeno risulterebbe comunque meno fenomeno. Non entrerebbe nelle sintesi televisive, non resterebbero negli archivi i fotogrammi di gol rapinosi. Le multinazionali non si contenderebbero il suo look, e l’acconciatura a mezzaluna inaugurata ai Mondiali verrebbe giudicata semplicemente demenziale, l’indizio evidente che il campione ha, letteralmente, altro per la testa. Invece, cambiando squadra, il più è fatto. Accolto da tifosi osannanti, Ronaldo avrà alcuni mesi a disposizione per rimettersi in forma, lanciare sulla stampa proclami di vittoria, «Real aspettami», infortunarsi, recuperare a fatica, segnare qualche gol capace di evocare fra le nebbie contemporanee l’antica magia, concludere senza infamia e senza gloria la prima stagione. E l’anno successivo annunciare la riscossa, «sarò il migliore acquisto », mentre continueranno a gripparsi i muscoli, a dilatarsi le attese, ad affiorare il disincanto, ma in ogni caso a correre gli spot. Tanto, non è più un giocatore, è un’icona. È una sintesi di business, un distillato affaristico, un feticcio del calcio globale: dopo la realtà dell’Inter e il sogno del Real Madrid, ci sarà ancora l’illusione di un altro mondo calcistico, l’Arsenal, il Manchester, il Bayern, qualunque società in grado di accogliere non un calciatore bensì una mitologia, una merce sublime. Se si conserva bene, se si cura, se si allena dignitosamente, avrà un altro Mondiale dove mostrare le residue scintille di talento calcistico. Forse un’altra apoteosi, perfettamente plausibile in un calcio internazionale povero di eroi e di genio. E naturalmente un altro ingaggio stellare (i barzellettieri di professione, in particolare quelli che amano l’humour nero, scommettono che l’ironia della storia lo riporterà all’Inter, fra lacrime, pentimenti, mozioni degli affetti, dichiarazioni d’amore, sceneggiate varie. Arrivederci nel 2006, per la riprova). Nesta con noi Nel frattempo si era alzata l’ondata moralizzatrice. I dissipatori si vestivano come da copione da risanatori. Parsimonia negli stipendi, cautela negli acquisti. Niente follie. Sobrietà, austerità, soprattutto decenza. Il 23 agosto, al Meeting di Comunione e liberazione di Rimini, Silvio Berlusconi viene accolto da una claque politica che scandisce un po’ stancamente «Silvio dacci la luce», e da qualche tifoso milanista che implora: «Compraci Nesta». Accattivante come al solito, rilassato malgrado la brezza gelata sui conti pubblici e le inquietudini popolari sull’inflazione «commosso, sbalordito, carburato», il presidente del Consiglio si rivolge paternamente alla platea e spiega il nuovo trend. Bisogna fare tutti un passo indietro, darsi una regolata. Per quanto riguarda l’acquisto di Nesta, la questione è molto semplice: «Se pó no», non si può. «Nel calcio siamo arrivati a livelli che non hanno più nulla di economico e di morale. Abbiamo sbagliato». Non tira più aria mecenatizia, non si può risolvere tutto dicendo «ghe pensi mi», non si possono più buttare i soldi nella centrifuga del campionato. Il buonsenso deve finalmente prevalere. Applausi compiaciuti del popolo ciellino. Non conviene tirarla per le lunghe e illustrare il clima virtuoso che si è diffuso sui circenses calcistici. Meglio passare direttamente alla conclusione: nel giorno di chiusura di un mercato molto depresso, si accendono nel cielo del calcio tre entusiasmanti fuochi artificiali: Ronaldo se ne va effettivamente al Real Madrid, «come Giuda», chiudendo come si prevedeva la dolorosa pratica, mentre all’Inter arriva la punta della Lazio Hernan Crespo. E il concupitissimo, non solo dalle fan, Nesta? Lo prende, ci mancherebbe, proprio il Milan, per 30,2 milioni di euro: un affare, rispetto alle quotazioni di un anno fa; uno scialo rispetto alla micragna corrente. E le promesse di risparmio? «Non ho ancora sentito Galliani», spiega Berlusconi da Elsinore, dove si trova per il vertice dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, «ma lui ha piena autonomia di spostare risorse e acquistare un fuoriclasse che ha un costo maggiore, magari dismettendo qualche giocatore che non serve». Dismettendo, ‘a vendo. È la «flessibilità interna» dei bilanci. E il ministro degli Esteri ad interim rafforza il concetto con un severo paragone istituzionale: «Metteremo nella prossima legge finanziaria una norma che consentirà, all’interno di un ministero, spostamenti di risorse in una certa percentuale da una parte all’altra del dicastero. L’importante è che il bilancio resti entro i limiti prefissati». Clemente Mastella, l’uomo politico che passò agli annali per avere detto di preferire i mercati rionali ai mercati internazionali, e quindi dovrebbe avere una certa conoscenza anche del calciomercato, emette la sentenza definitiva: «Temiamo solo che le sue parole sull’economia e sull’inflazione siano uguali al fermo e deciso no all’acquisto di Nesta pronunciato una settimana fa». Ma questo è il catastrofismo dell’opposizione, l’abuso della critica che conduce alle self-fulfilling prophecies, le profezie che avverano catastroficamente se stesse. La ripresa verrà, una volta o l’altra. Il campionato non parte? Il Cavaliere, uomo legatissimo al calcio, un giorno lontano, quando i rossoneri avevano sconfitto la Steaua Bucarest, chiarì il suo pensiero geotattico: «I valori dell’Occidente hanno battuto il socialismo reale». Di questi tempi, invece, intervistato sulle domeniche senza calcio, quella sagoma di Berlusconi l’aveva già messa sullo scherzo, mentre il vecchio bolscevico e disfattista D’Alema si imbarcava in sarcasmi su un governo incapace perfino di fischiare il calcio d’inizio del torneo: «È la rivincita delle mogli, delle fidanzate e del turismo: la domenica si possono fare bellissime gite». Appendice di un romanzo Il campionato dopo il rinvio di due settimane ricomincia a metà settembre, in seguito a interventi del governo, trattative furibonde, contumelie alla Alvaro Vitali fra presidenti di società (Franco Sensi: «Galliani non conta un c…») e alla fine l’elargizione di una mancia alle squadre minori della serie A, che avevano minacciato di lanciare una loro piattaforma televisiva e di organizzare tornei alternativi al torneo nazionale. Francesco Totti alla vigilia della ripresa si confessa con il «Corriere della Sera», che gli chiede come si sente ad avere sostituito i carabinieri nelle barzellette, e dopo avere ammesso che la situazione di bersaglio fisso dell’ilarità popolare non gli piace, si scarica la coscienza in chiave campanilistica: «Tutto questo succede perché sono romano… al Nord mi hanno messo sotto tiro». Fra i protagonisti del Mondiale coreano-giapponese, l’arbitro Moreno viene accusato di corruzione, si difende con una certa animosità rivendicando la perfezione dell’arbitraggio di Corea-Italia e paragonando tutti gli italiani a Mussolini, ma poi fa il patatrac: nella partita fra il Liga di Quito e il Barcelona di Guayaquil, concede 12 minuti di recupero nei quali la squadra di casa ribalta il risultato e vince 4-3 (al novantesimo era in vantaggio il Barcelona per 3- 2). Fischia due rigori dubbi, espelle due giocatori, concede e poi annulla un gol regolare, convalida il gol decisivo un attimo dopo avere fischiato la fine. Scrive madornali falsità nel referto. I tifosi del Barcelona lo accusano di avere favorito la squadra di Quito in vista della sua candidatura come consigliere municipale della capitale. La commissione arbitrale ecuadoriana lo sospende a tempo indeterminato; potrebbe essere radiato. Quanto a Ronaldo, al Real Madrid si infortuna immediatamente: ma promette un recupero rapidissimo (intanto i suoi procuratori vengono misteriosamente emarginati; Moratti dice che ha fatto la figura di quello che piatisce un ingaggio). I medici madrileni dicono che non sarà più il giocatore di una volta. Il contratto prevede la possibilità di un infortunio grave. Come volevasi dimostrare. Insomma, la storia continua. Ma un pensiero dev’essersi insinuato nella mente di tutti, dai dirigenti calcistici ai tifosi. E se fosse che il grande show non vale il biglietto? E che quindi il grande business è una costruzione artificiosa, dove tutto è sovrastimato? Proprio la logica mercantile, «capitalistica», contraddice uno dei fondamenti del calcio, e cioè il legame metafisico fra le squadre e i tifosi. Quanto tempo ci vorrà ancora, prima che gli appassionati si rendano conto che c’è una sfasatura irreparabile fra la passione calcistica e il funzionamento economico di ogni singola società? Che fra la logica del tifo e la logica delle società per azioni non c’è compatibilità? Ma lasciamo sullo sfondo il fatto che appassionarsi al Milan o alla Juventus equivale più o meno a tifare per l’Eni o per Mediobanca; la realtà è che i più sottili sospetti sulla razionalità del pianeta calcio avevano cominciato a diffondersi nella stagione scorsa, allorché una società come il Chievo Verona, composta da scarti e ritagli di tutte le categorie del calcio professionistico, appena promosso in serie A aveva infilato un girone d’andata strepitoso, finendo poi il campionato ai piani alti della classifica. Da un lato era un miracolo: una buona società, un eccellente direttore sportivo dal suggestivo nome di Giovanni Sartori, un ottimo allenatore, una magnifica organizzazione di gioco. Ma dall’altro lato il fenomeno-Chievo, stipendi all’osso e bilancio ridicolo rispetto alle altre squadre, rappresentava un fenomeno imbarazzante. Rischiava di essere la dimostrazione sul campo – in tutti i sensi – che il calcio italiano era una bolla finanziaria, organizzativa, tecnica, mediatica. Durante il campionato scorso risultava esilarante sentire gli allenatori delle squadre altolocate che parlavano con compunzione della forza del Chievo, squadra di un sobborgo di Verona assurta al ruolo inopinato di spauracchio. All’avvio della nuova stagione, niente vieta di continuare a cullare la consueta illusione di ogni annata: ma può anche darsi che il gioco non appaia più così entusiasmante, che il «dibbattito» si riveli sempre più logoro, e che le barzellette non facciano più ridere. Che il re sia nudo è già stato gridato. Bisognerà vedere se il calcio italiano continuerà a credere ai propri miti, e se l’illusione, nel trionfo mediatico delle «facce da pirla» e del loro look trendissimo, continuerà a essere più forte della realtà

Facebook Twitter Google Email Email