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Né destra né sinistra. La Chiesa dopo la fine dell’unità politica dei cattolici

03-04 1995

Lunedì 27 marzo 1995, il presidente della Conferenza episcopale, monsignor Camillo Ruini, ha aperto una sessione del Consiglio permanente dei vescovi italiani con una prolusione caratterizzata da un forte significato politico. Si è trattato di una relazione nei cui toni si percepiva una drammaticità intriseca, una tensione assai forte, a dispetto della capacità di Ruini di sfumare in formule apparentemente neutre, quasi di teologale astrattezza, la dura consistenza dei problemi. L’intervento di Ruini era assai atteso, perché veniva dopo la gravissima lacerazione del Partito popolare in seguito alla svolta a destra di Rocco Buttiglione; le sue implicazioni sono tuttora in gran parte da valutare. Fine del partito cristiano: si può guardare a destra? Il presidente della Cei ha parlato della politica italiana riconoscendo con profonda amarezza il completarsi di un processo che ha scandito la «fine progressiva dell’impegno unitario organizzato» dei cattolici in politica. Chi ha seguito la tragicommedia del Partito popolare, il lungo conflitto anche pretorile fra Buttiglione e Bianco per il possesso ha capito che anche (ma si potrebbe dire perfino) la Chiesa si è rassegnata a mettere in archivio la vicenda democristiana. Che sia stata una decisione pressoché obbligata, presa sotto dettatura delle cose e degli avvenimenti, è fuori dubbio; ma nello stesso tempo non si può negare che si tratta di un esito di portata storica, almeno se si ci si riferisce alla storia italiana dell’ultimo secolo. Si conclude, o sembra concludersi, un ciclo che aveva visto il mondo cattolico escluso dalla politica, partecipe delle illusioni e dei fallimenti dello Stato liberale, racchiuso su se stesso durante il fascismo a preparare la classe dirigente futura, egemone politicamente lungo il dopoguerra con la Dc, il «partito cristiano al potere». Ora è arduo prevedere quale sarà il ruolo di un «partito cristiano» disintegrato e disseminato a schegge in una pletora di forze politiche. In sé e per sé, sarebbe inutile ripetere che l’unità politica dei cattolici era ormai un feticcio ammuffito. Senza riandare alle vicende delle minoranze e delle avanguardie cattoliche di sinistra nell’immediato dopoguerra, è dalla data del referendum sul divorzio, il 12 maggio 1974, che il mondo cattolico ha imboccato la strada della differenza, talora della diaspora, qualche volta anche della secessione secca. Gli ultimi mesi dell’era del sistema proporzionale e dell’avvio del sistema maggioritario hanno poi visto un proliferare di movimenti e partiti di ispirazione prevalentemente cattolica, dai Popolari per la riforma di Segni alla Rete e ai Cristiano-sociali, fino al Centro cristiano-democratico di Casini e Mastella e a ulteriori e meno significative esperienze di frammentazione politica. Tuttavia, malgrado questa progrediente scomposizione, era rimasto il Partito popolare, che nella vulgata appariva a tutti gli effetti come il vero erede della Democrazia cristiana. Un’isola infelice dentro il meccanismo maggioritario: e difatti Ruini, elencando nella sua relazione di fine marzo le ragioni della disintegrazione democristiana, ha indicato proprio nel sistema uninominale uno dei principali fattori che alla fine hanno determinato «un’ulteriore e più grave frattura nella rappresentanza politica che fa riferimento all’ispirazione cristiana». Eppure, questa spiegazione può indicare una ragion sufficiente, o prevalente, in termini politologici, ma non riesce certo a spiegare perché il partito egemonico della Prima Repubblica si è liquefatto così rapidamente nel passaggio alla Seconda. Tutte le spiegazioni in realtà risultano insufficienti, se prese una per una, e considerandole tutte insieme sembrano rivelarsi troppo efficaci, con un surplus di efficacia che lascia trasparire una specie di banalità implicita. È certamente vero, infatti, che nello stesso corpo politico non potevano più convivere le due anime di destra e di sinistra. Ma così come durante il quasi mezzo secolo democristiano era stato il contesto internazionale a rendere possibile il mantenimento della Dc come fortezza interclassista eretta contro la minaccia antisistema rappresentata dal Pci, è anche possibile che oggi sia il contesto politico domestico a definire le ragioni delle differenze che hanno portato il Partito popolare a lacerarsi. In sintesi fin troppo rapida, si potrebbe dire infatti che è l’atteggiamento verso la destra, prima ancora che quello verso la sinistra, a illustrare la crisi dei Popolari. Può apparire una spiegazione tautologica, una semplice variazione della «logica del maggioritario», ma forse è presente e visibile una sfumatura diversa. Da un lato c’erano Buttiglione e Formigoni, due protagonisti dell’esperienza di Comunione e liberazione. Gente che non aveva paura a «sporcarsi le mani» con la destra. Non va dimenticato che il soggetto politico voluto da Buttiglione, il «suo» Partito popolare, era segnato da un marcato tratto generazionale. Era un partito interpretato da ciellini quarantenni, cioè appartenenti a una generazione che negli anni Settanta, nel periodo dei movimenti, allorché il conflitto ideologico raggiunse l’acme dell’asprezza, aveva sviluppato una coerente e sentita cultura anticomunista. Si può sostenere che proprio lo spontaneo, addirittura felicemente liberatorio, anticomunismo di Cl neutralizza quasi fisiologicamente la paura o il tabù della destra. Per potersi dire anticomunisti a tutti gli effetti i giovani ciellini non rifiutano più con disprezzo l’etichetta di destra. La polemica «anticonsociativa», la rottura delle convenzioni politiche e istituzionali su cui si basava tutto il sistema politico, il pragmatismo deliberatamente assunto a strategia, trovavano in Cl un attore capace di ricoprire la parte con un entusiasmo che sbaragliava dubbi e remore intellettuali. Non è un caso siano stati proprio gli uomini storici della Dc, come Emilio Colombo, uno degli ultimi esponenti di spicco del degasperiano «partito di centro che guarda sinistra», a rimarcare con sofferenza esibita, non celabile, l’estraneità del progetto di Buttiglione rispetto alla storia del partito, e quindi a giudicare perfettamente impraticabile la sua proposta di sintesi. Anche perché al problema teorico e pratico relativo all’atteggiamento da tenere con la destra, si è aggiunto il dilemma hic et nunc riguardante Berlusconi e Forza Italia. Buttiglione lo ha risolto facilmente, secondo la tecnica ciellina che Arturo Parisi ha chiamato «pensiero debole applicato con le maniere forti», in cui la debolezza del pensiero significa l’assenza di discriminazioni nette verso gli alleati possibili: preso atto che a partire dal 27 marzo 1994 l’elettorato moderato della Dc se n’era andato a cercare rifugio sotto le insegne di Forza Italia, ha applicato alla lettera il motto «sono il loro capo, e quindi li seguo». Che il primo criterio di valutazione, e quindi di strategia, fosse l’atteggiamento rispetto alla destra e a Berlusconi è reso evidente ad esempio dalle motivazioni addotte dai pochi esponenti della Chiesa che hanno scelto di esprimere a chiare lettere il loro favore per il blocco di centro-destra. Uno dei protagonisti più volonterosi di questa scelta di campo, l’anziano cardinale Silvio Oddi, ha speso numerose, quasi quotidiane dichiarazioni, per argomentare il suo favore verso Berlusconi e Fini. Eppure ciò implica la capacità di far convivere confessionalismo e spregiudicatezza, dal momento che guardare a destra significa fare i conti con una serie di aspetti piuttosto difficili da mettere a bilancio: la secolarizzazione, il consumismo, l’etica televisiva, il superlaicismo pannelliano. Ci vuole una grande capacità sincretistica per riuscire a miscelare il mercato deregolato e la suggestione solidaristica cattolica; ma in sé l’ operazione non è intellettualmente impossibile. Un punto d’incontro, fra destra laica e destra cattolica, lo si trova nella comune awersione verso lo Stato, inteso come un produttore di gravami. Piuttosto, non sembra di cogliere mai, in una scelta di questo genere, il sospetto e nemmeno il timore di poter ricoprire tutt’al più una funzione gregaria, di semplice abbellimento ornamentale: un pizzico di cattolicesimo in più per insaporire una destra che forse ne potrebbe fare tranquillamente a meno. Che cosa c’è sotto lo Scudo crociato Sul piano più immediatamente politico, con l’ultimo intervento di Ruini la Chiesa compie dunque un passo indietro rispetto agli schieramenti. E se ne capisce fin troppo facilmente la ragione: sarebbe infatti troppo insidioso consentire che la logica mondana del meccanismo bipolare facesse sentire il suo effetto dirompente dentro tutti gli organismi ecclesiastici, ai massimi e ai minimi livelli, dentro la Curia come in ogni parrocchia. Il presidente della Cei non si è limitato comunque a inibire ufficialmente lo schierarsi delle organizzazioni ecclesiali; ha anche rammentato con un certo vigore «l’ammonimento del Concilio Vaticano Il» secondo cui «a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa». Ni droite ni gauche. Ma questo atteggiamento, nonostante le conseguenze piuttosto rilevanti che può avere nell’immediato, almeno perché toglie un po’ di fiato al cattolicesimo sbandierato vigorosamente dalla destra, da Berlusconi come da Fini, è solo la corteccia del problema. Vi si esprime la secolare prudenza ecclesiastica, una posizione sostanzialmente difensiva ma anche inevitabile in una fase di conflitti che proliferano e dilacerazioni che continuano a sanguinare. Tuttavia questa salomonica cautela lascia ancora aperta, anzi, spalancata la questione dell’atteggiamento della Chiesa rispetto alla politica italiana. In teoria, il duplice tramonto della Dc e del Ppi e la frantumazione del cattolicesimo politico italiano potrebbero essere gestite secondo i criteri già indicati più volte nel recente passato, come il principio della «tensione unitiva» orientata nitidamente dai valori anziché opacamente dai partiti; criteri che sono stati ribaditi anche dall’ultimo Ruini, che ha di nuovo sollecitato i cattolici a ispirarsi ai contenuti della dottrina sociale della Chiesa, con l’impegno a «farli prevalere sulle logiche di schieramento». Nelle pieghe della realtà, invece, le cose non sono affatto così semplici. Se lo fossero, non ci sarebbe stato nel discorso di Ruini il rammarico così palese per l’esito di un processo di dissoluzione politica (contro cui egli stesso si è battuto apertamente), e neppure il doloroso richiamo al progressivo indebolimento culturale e morale che ha segnato la vicenda democristiana «fino a forme gravissime di controtestimonianza» (che sarebbero poi, fuor d’eufemismo, gli intrecci politico-affaristici di Tangentopoli, con il peso di maggiore vergogna che ha scaricato sul partito cattolico proprio in quanto cattolico). Nelle parole pronunciate dal presidente della Cei si è avvertito il subentrare alla disperazione una sorta di rassegnazione estrema, come per dire: certo, ora la Chiesa è nuda nel vasto orizzonte della politica e della società; e dunque si impegnerà come soggetto sociale, uno tra gli altri ma con tutto il rilievo della sua tradizione e della sua autorità, per un «progetto culturale cristiano». Un atto dovuto ben più che una libera decisione. Con queste parole la Chiesa italiana dovrebbe entrare senza più veli nella modernità: eppure nelle frasi di Ruini, nel giro delle sue parole, si percepisce un che di crepuscolare, di indefinito, di non detto. Se provassimo a dirlo, sfidando una inevitabile grossolanità, diremmo che la Dc e il suo principale erede, il Ppi, non erano solo un partito. Erano uno strumento essenziale per la Chiesa perché davano corpo a un’idea: l’idea che esistesse un mondo cattolico ampio e coerente, e che attraverso il partito, la sua rete di mediazioni e di potere, si rendesse politicamente visibile il perdurare di una forte presenza cattolica nella società italiana. Insomma, a dirla con tutto il malgarbo possibile, per la gerarchia ecclesiastica la Dc costituiva la prova che c’erano i cattolici. Conta poco che si trattasse di un equivoco, o al massimo di una convenzione. La forma surrogava la sostanza. Per questo, dopo la Dc, gran parte della Chiesa si è aggrappata ostinatamente a quel fenomeno residuale che era il Ppi; per questo c’è stata aspra opposizione verso eresie politiche ritenute a suo tempo catastrofiche come quelle di Segni, e per questo al momento buono non sono mancate le simpatie verso il progetto «tedesco» di Buttiglione, volto a ricostituire un blocco democristiano dentro il Polo. Con il consumarsi della crisi democristiana, la Chiesa si trova all’improvviso di fronte, senza più diaframmi, una società fortemente secolarizzata. Numerosi esponenti politici, Fini, Berlusconi, Casini, Buttiglione da una parte, P rodi, Segni, Gerardo Bianco e la sinistra dei popolari dall’altra, dichiarano tutti di ispirarsi ai valori del cattolicesimo. Nell’impraticabilità di una scelta di campo fra destra e sinistra, la Chiesa potrebbe presto accorgersi che il cristianesimo degli italiani, il loro «cattolicesimo del cuore», è solo un’eco generica, che non costa nulla evocare, e che risuona in un ambiente dominato dal relativismo e da forme vistosamente diffuse di omologazione «postcristiana». E al termine dello sfacelo democristiano ci potrebbe dunque essere prima la percezione che nell’Italia laicizzata che viaggia verso il Duemila i «valori cattolici» sono solo lo sfondo poco più che sentimentale di comportamenti che di fatto piegano senza alcuna remora il magistero e il dettato della Chiesa alle convenienze soggettive; e subito dopo, sul terreno quantitativo, la constatazione che i cattolici non sono più che una limitata minoranza. Allora, nella stordente presa d’atto «sotto lo Scudo crociato, niente», c’è senz’altro la possibilità di una reinterpretazione del ruolo della Chiesa adeguato ai tempi e alle caratteristiche di una società in piena modernizzazione. Ma ci sarà anche la tentazione di offrire un imprimatur di fatto a chi più spregiudicatamente, perché potrà farlo senza subirne costi politici, cavalcherà i temi più brucianti, come l’aborto e la difesa della vita, e quelli più coinvolgenti emotivamente, come la tutela della famiglia. In tal senso, l’enciclica Evangelium vitae non pone soltanto un problema teologico: può anche delineare un discrimine politico. Detto semplicemente, si tratterebbe soltanto di trasformare contrattualmente una maggioranza politica in una maggioranza «morale». Ma se si passasse dal cattolicesimo svilito di marca democristiana a un integralismo interpretato e giocato in chiave strumentale, per la Chiesa il passaggio nella rivoluzione italiana degli anni Novanta sarebbe solo la speranza antistorica di una nuova restaurazione, sotto le forme di un nuovo patteggiamento, da potere a potere, con la politica.

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