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Lord Giorgio d’Italia

18/05/2006

Il punto decisivo della vicenda politica di Giorgio Napolitano si fissa a metà degli anni Ottanta, allorché il Pci dell’ultimo Berlinguer raggiunge l’acme del risentimento antisocialista, contro il Psi della «mutazione genetica», contro la figura ingombrante di Bettino Craxi. Fu una parte minoritaria del Partito comunista a cercare di mantenere un contatto con i socialisti. Ma il mainstream del partito era modellato su una contrapposizione irriducibile, quasi sulla ripugnanza che a Berlinguer e ai berlingueriani ispirava il modernismo spregiudicato dei craxiani. Mentre per i movimentisti come Pietro Ingrao, la stessa concezione di un compromesso con il Psi risultava insostenibile se configurava una mediazione "socialdemocratica" al ribasso. E un uomo come Napolitano, indiscutibilmente il leader della "destra" comunista, veniva facilmente esorcizzato dagli ingraiani con l’epiteto di "migliorista", con un chiaro riferimento, come ha ricordato in questi giorni Emanuele Macaluso, al migliorismo prampoliniano (ossia a un’azione politica che intende migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice senza rivoluzionare le condizioni strutturali del capitalismo). Allora apparve a molti che l’azione di Napolitano fosse insufficiente. Lo ha ricordato di recente, e in modo spregioso, Giuliano Ferrara, accusandolo sarcasticamente di avere segatura al posto del sangue. Certamente fu debole il suo tentativo di reagire dall’interno all’iniziativa del Pci contro il referendum sulla scala mobile, che si sarebbe rivelato uno dei colpi gobbi di Craxi in quella che allora appariva una strategia di stampo mitterrandiano, teso a ridimensionare e a relativizzare il partito comunista. Ma occorre considerare che a dispetto dell’aplomb aristocratico, dell’anglofilia, del gusto puntiglioso e di un’eleganza formale indubitabile, Napolitano è sempre stato, fin quasi all’ultimo, un uomo di partito, e dunque di "quel" partito. Di un organismo quindi in cui non si tolleravano strappi, dove i mutamenti avvenivano in modo bradisismico, dopo essere stati valutati con attenzione lenta e macchinosa, e infine vidimati con un senso di liberazione finale e collettiva. Fin dal momento in cui si iscrisse al Pci, nel novembre del 1945, «presentato» da Mario Alicata e Renzo Lapiccirella, il ventenne Napolitano, che sembrava destinato a una vita culturale d’alto bordo, entrò in simbiosi con quell’entità singolare che era il Pci. Aveva frequentato per qualche mese Curzio Malaparte, uno strapaesano fascista sulla via di un comunismo nazionale, salvo poi rinunciare a quel rapporto per l’incompatibilità fra psicologie, e dei rigori; Alicata gli aveva affidato la rubrica di critica teatrale sulla «Voce», quotidiano che allora usciva a Napoli; era insomma intriso della cultura di quella Napoli vivacissima che usciva dalla guerra cercando una propria via, fra il crocianesimo e orientamenti nuovi, il cinema, la poesia, l’America di Elio Vittorini, con una spruzzata di marxismo che allora si limitava al "Manifesto" del 1848, letto in appendice del Labriola ripubblicato da Croce. «Continuavo in realtà a soffrire di insufficiente approfondimento e convinzione dal lato "ideologico", ma sempre più forte si era fatto in me l’impulso politico e, direi, morale, il senso della necessità di un impegno concreto a operare in una realtà dolorante, carica di ingiustizie e di miserie». Nacque in quel contesto il rapporto con Giorgio Amendola, «energia politica allo stato puro», e si confermò allora «l’intimo rifiuto del destino di avvocato» (come ha confessato con una lievissima autoironia nella sua autobiografia politica, "Dal Pci al socialismo europeo", uscita pochi mesi fa da Laterza). Bastano queste annotazioni per capire una personalità complessa, intrisa di intellettualità meridionale attraverso il rapporto precocissimo con i giovani del settimanale "IX maggio" dei Guf di Napoli, organizzazione universitaria fascista che «era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato». Il gruppo napoletano comprendeva Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio, Massimo Caprara. Tutti destinati a carriere di primo piano nella letteratura, nel cinema, nel giornalismo (ancora oggi, parlandone con affetto volutamente spudorato, Antonio Ghirelli dice: «Giorgio è mio fratello»). Dicono i suoi nemici che Napolitano è sempre stato un campione nel rilevare a posteriori gli "errori" del Pci a cui aveva contribuito. L’opposizione al progetto degasperiano di integrazione europea, considerata «un sottoprodotto della strategia di divisione e di asservimento dell’Europa attribuita agli Stati Uniti», e che configura oggi ai suoi occhi «forse il più grave segno di cecità della sinistra, che avrebbe pesato a lungo sul suo ruolo nazionale e internazionale». Nel 1956, la giustificazione dell’intervento militare sovietico in Ungheria, i carri armati a Budapest, con un intervento polemico contro Antonio Giolitti (che in seguito ai sanguinosi fatti ungheresi uscì dal Pci): «Mi mosse allora anche un certo zelo conformistico», avrebbe poi confessato; e questa confessione, unita al «tormento autocritico» che perdura a distanza di mezzo secolo, di nuovo lo accomuna esistenzialmente, se non politicamente, a Ingrao e a tutta una generazione comunista passata attraverso le tragedie del Novecento. In fondo, Napolitano è la sintesi migliore dell’impossibilità del Pci di essere normale: della sua impossibilità di condurre tempestivamente una revisione in senso non marxista, come i socialdemocratici tedeschi della Spd avevano fatto già nel 1959; dell’incapacità dunque di presentarsi come alternativa politica reale, dopo il fallimento del centrosinistra (quello di Moro, Nenni e Fanfani). Uno degli episodi meno ricordati di questi tempi risale al momento in cui Amendola lanciò su "Rinascita", in risposta a Norberto Bobbio, l’idea del «grande partito unico del movimento operaio», né socialdemocratico né comunista. Ne venne una bufera nel Pci, soprattutto alla base. Naturalmente alla federazione di Napoli, di cui era diventato segretario, Napolitano assunse un atteggiamento «misurato, sdrammatizzante», anche se oggi è disposto a riconoscere: «Finii per sottovalutare il senso della scossa salutare che era venuta da quelle prese di posizione, per quanto contraddittorie o non conseguenti, di Amendola». A guardarle con gli occhi di oggi, contraddittorie o non conseguenti erano le posizioni del Pci: capace di esprimere il suo «grave dissenso» nel 1968 rispetto all’invasione di Praga, di impegnare tutta o quasi la propria credibilità nell’esperienza di solidarietà nazionale, in coincidenza con la gravità degli choc economici e con l’aggressività del fenomeno terrorista sfociata nell’assassinio di Aldo Moro; ma nello stesso tempo impossibilitato dal suo Dna, dalle storie personali dei dirigenti, dal peso della cultura gramscian-marxista, a portare fino in fondo una revisione che lo legittimasse senza residui al governo del paese. «I nostri limiti di fondo furono due», dice Napolitano: «Da un lato, quello di restare impastoiati nella falsa coscienza che il Pci aveva di sé come forza rivoluzionaria; dall’altro, di non fare i conti con la necessità di sbloccare il sistema democratico italiano, traendo da questa necessità tutte le ineludibili implicazioni». Oggi, la sua elezione al Quirinale viene salutata come la fine di ogni possibile pregiudiziale anticomunista. Grazie all’ossessione berlusconiana, si dimentica, come Napolitano ha raccontato spesso, che questa pregiudiziale cadde ufficialmente già all’epoca della "non sfiducia" (1976), dopo che Ingrao era stato eletto alla presidenza della Camera, e con la nomina di numerosi esponenti comunisti alla presidenza di varie commissioni parlamentari. Tutto ciò mentre la figura di Napolitano continuava a evolvere proiettandosi sempre più su uno sfondo culturale e "diplomatico": l’amicizia intellettuale con Piero Sraffa a Cambridge, il primo viaggio in America nel 1978, con una storica presentazione di Franco Modigliani a Harvard, con l’intellighenzia americana intenta a osservare con simpatia il rappresentante dei comunisti "pinker than red". Ogni evoluzione possibile del rapporto con i socialisti, e del Pci stesso, crolla con il referendum sulla scala mobile che si sarebbe tenuto nel 1985. Racconta Napolitano: «Avevo espresso le mie preoccupazioni a Reichlin, ma furono soverchiate dal clima parossistico e dalla lotta di logica a oltranza che dominava il vertice del Pci». A incaricarsi di provocare il cambiamento del Pci sarebbe stata la storia, con la caduta del Muro, la Bolognina, lo strappo di Achille Occhetto. Già nell’agosto del 1989, mentre "Der Spiegel" titolava "Explodiert Ddr" e in Italia pochi si erano accorti della crisi finale dell’impero comunista, Napolitano diceva a "L’espresso" che le ultime contorsioni del comunismo sovietico «inducono a giudizi e conclusioni che vanno al di là di ogni nostra posizione precedente». Era la premessa della svolta che avrebbe portato al cambiamento del Pci. Ma anche alla proiezione di Napolitano sempre più verso la dimensione europea. In ogni caso, presidente della Camera nei due anni di Tangentopoli, ministro degli Interni con Romano Prodi, figura eminentemente istituzionale, riconoscibile nel profilo dei gesti come nella forma delle esternazioni, si trova ora sul Colle più alto, al vertice dello Stato. Finisce per l’ennesima volta la discriminante "anticomunista", e si spera che sia quella buona. Ma c’è anche chi sottolinea un aspetto politico: mentre un Quirinale dominato da D’Alema poteva configurare una ricomposizione "socialista" dell’Unione, una sorta di egemonia su tutta l’alleanza, il presidente Napolitano è l’ombrello migliore per completare il cammino che porta al partito democratico. Se l’operazione riuscirà, anche Napolitano l’europeo, l’americano, il vecchio "ministro degli esteri del Pci", potrà dire di non essere stato soltanto un notabile recuperato dal Novecento. n

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