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L’arca dell’Alleanza

07-08 1993
Osservatorio italiano

Non appena resi noti i risultati del referendum del 18 aprile, al Parlamento e ai partiti in esso rappresentati non restava altro da fare se non tramutarsi nei notai della volontà popolare, e riscrivere la legge elettorale secondo le indicazioni ricevute per via referendaria. Eppure, contro ogni evidenza, i partiti della Prima Repubblica nutrivano ancora qualche riottosa speranza di poter resistere al ciclone che stava e sta spazzando l’Italia. Tutti gli sforzi venivano quindi concentrati d’ufficio sull’obiettivo di interpretare al minimo le prescrizioni referendarie. La feritoia del 25 per cento di quota proporzionale «voluta dagli elettori» è divenuta rapidamente un varco sbrecciato a sufficienza per rimettere nell’edificio del futuro sistema politico tutti i mattoni proporzionalistici a disposizione. La riforma elaborata dal democristiano Sergio Mattarella è stata laboriosamente concepita affinché tutti i partiti potessero trovare un punto di incontro, in cui il minimo di innovazione resa obbligatoria dal referendum venisse a patti con il massimo consentito di conservazione a cui aggrapparsi. Il risultato è un ibrido formidabile, la testimonianza documentale che gli interessi dei partiti attizzano la fantasia dei propri «ingegneri» elettorali ben più di quanto la competenza dei politologi sia in grado di influenzarli. La legge Mattarella nasce dal rifiuto di perseguire un’ipotesi dotata del dono della semplicità. Nell’arco di scelte a disposizione, a un estremo c’era in teoria l’opzione per una legge a turno unico, che deve fondare la sua efficacia sulla sua severità; all’altro estremo si profilava come alternativa una delle molte varianti del doppio turno. Alla fine ci si è orientati verso la mediazione di un fantasioso monoturno all’italiana, in cui la severità del modello inglese viene addolcita dalle invenzioni multiple dei partiti. Anche la nuova legge elettorale risulterà quindi inevitabilmente interlocutoria: un’altra delle infinite «riforme da riformare» di cui è costellata l’esperienza italiana. Le elezioni amministrative del 6 e 20 giugno Anche nei confronti della legge sull’elezione diretta dei sindaci si poteva pensare tutto il male possibile: anch’essa è un centauro, con il mezzo uomo del sistema maggioritario innestato sul mezzo cavallo della proporzionale. Anziché produrre una semplificazione del sistema politico, in una prima fase ha favorito la proliferazione di liste e listine di ogni genere, tutte interessate ad apparentarsi a un candidato per puntare su una quota di premio di maggioranza. Tuttavia si poteva immaginare che, nonostante il lassismo della prima fase, il collo di bottiglia del ballottaggio, al secondo turno, avrebbe dato una stretta ai criteri di scelta dei cittadini. E ciò è puntualmente avvenuto. Anzi, per alcuni aspetti non c’è stato neppure bisogno di aspettare il ballottaggio. La sera del 6 giugno, fin dai primissimi exitpolls della Doxa, il primo turno delle amministrative dava l’idea di riportare tutta la politica italiana sul piano della realtà. Chi continuava a credere che i giochi si potessero ancora fare nel clima deformato del Parlamento, nelle contrattazioni in corso fra gli esponenti di una classe politica sul viale del tramonto, veniva sonoramente smentito. Dal punto di vista del metodo si era ancora in pieno sistema proporzionale, ma non occorrevano molti sforzi per capire che il voto dei cittadini stava continuando e approfondendo lo sconvolgimento del sistema politico. Il voto nelle principali città sanzionava una dura punizione per la Dc, e il contemporaneo abbattimento del Psi. Ma questa semplice constatazione assumeva un significato ancora più plateale se si considerava in combinazione l’affermazione della Lega, a Milano e pressoché in tutto il Nord (Torino compresa, anche se il candidato leghista Comino non riusciva a entrare nel ballottaggio). Tra i fattori di maggiore presa sull’opinione pubblica, si doveva considerare il valore simbolico della conquista di Milano, che per Formentini e Bossi a quel punto appariva a portata di mano. E anche l’affermazione di lista a Torino, dove la Lega diveniva in termini di voti il primo partito, e i vistosi successi in tutto il Nord del paese. Sulla base di queste considerazioni aggiuntive, la sconfitta democristiana e il crollo socialista assumevano la veste della disfatta del vecchio contro l’avversario più nuovo e accanito, quello che si è assunto come funzione storica l’abbattimento del «regime». Disfatta totale, quindi, a maggior ragione perché fra i partiti storici soltanto il Pds manifestava una tenuta, e qua e là un miglioramento, e quindi sarebbe stato il solo a poter rivendicare la titolarità di unico vero oppositore della Lega. C’erano anche altre tendenze da decifrare, come la discreta prova di Alleanza democratica e dei Popolari per la riforma di Mario Segni, che mandavano in ballottaggio Valentino Castellani a Torino e Enzo Bianco a Catania. Ma soprattutto risultava evidente una sensibile spinta a sinistra: come se gli elettori, non avendo ancora altri strumenti per esprimere il rifiuto nei confronti dei vecchi partiti, avessero deciso di utilizzare ciò che rimaneva a disposizione, radicalizzando comunque il proprio voto, rivolgendosi (oltre che alla Lega) verso Rifondazione comunista e la Rete. Si poteva cogliere anche una lezione, da quei risultati: e la lezione era che si poneva un problema cruciale, quello di dare un’efficace rappresentanza e un’opportuna chance politica agli elettori moderati. Dopo i risultati del 6 giugno si assisteva in numerosi casi alla disintegrazione del centro. La competizione era avvenuta assai spesso fra posizioni estreme o squilibrate. Diveniva quindi necessario valutare sul piano nazionale in che termini fosse possibile in futuro trovare una sintesi capace di restituire uno strumento politico all’elettorato moderato. Ci sarebbe stata anche un’altra lezione, a volerla imparare: in base ai risultati del voto si dimostrava che il turno unico non conveniva più a nessuno se non alla Lega Nord. Le forti perdite democristiane non consentivano più a Martinazzoli di scommettere realisticamente su questa soluzione. Ma nei giorni successivi, anziché prendere in considerazione le migliori opportunità del doppio turno, si provvedeva a infarcire il turno unico di tutta la zavorra proporzionalistica che si riusciva a recuperare (fra i grandi perdenti del confronto sul doppio turno vanno annoverati il Pds, che in seguito si è accontentato di votare contro la legge Mattarella ma reggendo nello stesso tempo il sacco in cui sono stati infilati tutti i bidoncini proporzionalizzanti; e soprattutto Segni, convertito dell’ultima ora al doppio turno, che si è ritrovato a perdere questa battaglia senza averla mai né preparata né sostenuta). Domenica 20 giugno si aveva poi la dimostrazione pratica di come il sistema a doppio turno con ballottaggio costituisca un formidabile strumento di semplificazione. I pilastri dell’ancien régime venivano recisi alla base. Tuttavia il processo di ristrutturazione politica restava incompleto: spazzava via dai principali comuni la Dc e il Psi, rendendo palese lo scarsissimo credito guadagnato dai loro malcerti tentativi di rinnovamento, e sanzionava di riflesso la forza della Lega Nord, almeno fino al Po. Ma lasciava praticamente integro il terzo caposaldo della Prima Repubblica, e cioè il Pds. L’alleato di tutti La posizione del partito di Occhetto appariva subito assai singolare. Sopravvissuto a fatica alla mareggiata post-comunista, il Pds oggi è una forza politica la cui consistenza su scala nazionale non dovrebbe superare di molto il 15 per cento dei voti. In alcune zone la concorrenza ai suoi danni di Rifondazione comunista si è dimostrata micidiale. Dovrebbe essere pertanto un partito a scartamento ridotto, il quale però ha potuto giostrare nelle elezioni amministrative di giugno rimorchiando tutte le alleanze ritenute convenienti: anzi, l’unico partito, fra quelli old style, in grado di esercitare un «potere di coalizione» a trecentosessanta gradi. All’indomani delle amministrative il contributo alla chiarezza risultava perciò limitato. Il Pds aveva vinto a Torino e a Catania insieme con Alleanza democratica, aveva perso a Milano e ad Agrigento intruppato con Rifondazione comunista e la Rete, aveva vinto di nuovo in importanti città come Ravenna, Ancona, Siena e in alcune località meridionali proponendosi come tradizionale stella fissa di tutta la sinistra, da quella moderata a quella estrema. Si trattava di risultati sufficienti per fare emergere una specie di nuova «questione comunista». Quando si andrà alle urne per le elezioni politiche occorrerà sapere chi è e che cosa vuole il Pds: è un partito che insegue l’unità a sinistra, pedinando il neocomunismo di Rifondazione e il radicalismo demagogico di Leoluca Orlando? Oppure è un partito di «sinistra-centro», come ha tentato di presentarlo in qualche occasione Achille Occhetto, che intende porre la sua candidatura al governo del paese stringendo patti d’azione con Alleanza democratica? Fino alle amministrative di giugno, Occhetto ha potuto rivestire tutte le parti in commedia, e sull’incerto canovaccio del nuovo ha recitato secondo il suo stretto interesse, magari solo presunto. Ma allorché si dovrà votare per le elezioni politiche, il segretario pidiessino dovrà anche spiegare all’opinione pubblica se il Pds è il partito della guarnigione massimalista che a Milano appoggiava Nando Dalla Chiesa oppure il partito neo illuminista che a Torino aveva scelto (bongré, malgré) di stare dalla parte di Castellani contro le suggestioni retrò e il populismo di Novelli. D’accordo che la logica del collegio uninominale, determinata in parte dal confronto fra persone, consente qualche acrobazia tattica. Ma questo è vero solo fino a un certo punto, e pensare che la scelta dell’elettore nel collegio avvenga generalmente in base alla figura dei candidati è un’illusione intellettualistica: siccome si dovrà eleggere un Parlamento e giungere alla formazione di un governo, occorrerà anche scegliere sulla base di un indirizzo politico di fondo. Altrimenti chi votasse un Pds alleato di tutti contribuirebbe a eleggere un plotone di parlamentari unito formalmente dalla sigla e composto in concreto da individui appartenenti ai più vari filoni della sinistra, dai riformisti ai comunisti integrali. In ogni caso, fra i risultati del ballottaggio del 20 giugno sembrava serpeggiare una linea di tendenza che poteva apparire discriminante: la strategia di tipo «comunista», cioè la scelta del Pds di legare il proprio destino a Rifondazione e alla Rete, non si dimostrava pagante. Si rafforzava l’idea che l’avvenire del Pds consistesse davvero, a questo punto, nel proporsi come forza nazionale di governo, partito che rovescia la celebre formula degasperiana sul «partito di centro che va verso sinistra» e si qualifica come perno di un raggruppamento di sinistra-centro. Ammesso tuttavia che le altre forze politiche glielo lascino fare. La questione democristiana Fatti e rifatti i conti, la sensazione è che si rimaneva comunque nell’ambito di un’alternativa imperfetta. Da un lato si profilava infatti uno schieramento che dovrebbe comprendere Pds e Alleanza democratica, dall’altro la Lega Nord, segnata dai propri limiti di partito settentrionale. Alternativa tanto più zoppa in quanto almeno nella fase immediatamente successiva alle amministrative il Pds si presentava come un inquilino troppo ingombrante per l’ancora informe Alleanza democratica, un autentico uovo di cuculo nel nido in cui cinguettavano un po’ stonati i Popolari di Segni e i resti sparsi del riformismo laico italiano, socialisti disillusi, liberali alla ricerca dell’onor politico perduto, repubblicani atipici come Ayala e Bianco. E nel frattempo ancora non si capiva che cosa avesse intenzione di fare Martinazzoli. La Dc rimaneva prigioniera nelle gabbie di un proprio pensoso fatalismo. Il suo segretario appariva recluso in una dimensione montaliana («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»), ma fuori dalle evoluzioni retoriche, sul piano espressamente politico, si era potuto ormai registrare a che cosa fossero serviti i suoi temporeggiamenti, la rassegnata ostinazione nel credere che un giorno la «sbornia» antidemocristiana passerà: a vedere ridotto a un fazzoletto il vessillo democristiano nelle città di tutta Italia. Fino a quel momento, tuttavia, il futuro della Dc aveva ancora l’aspetto di una questione politica. Ma allorché mercoledì 23 giugno il capo della segreteria politica democristiana, Pierluigi Castagnetti, annuncia l’«autoscioglimento» del partito e la prossima nascita di «un’esperienza politica nuova», la portata del dibattito sul destino della Dc cambia in misura drammatica. L’annuncio del portavoce di Martinazzoli viene smentito, respinto, ridotto al rango di incidente lessicale. In sé e per sé dimostra in modo plateale una scollatura nel vertice democristiano, una défaillance organizzativa che la dice lunga sulla crisi del partito. Tuttavia proprio le reazioni che suscita, dalla ribellione violenta della vecchia Dc alle nuove spinte centrifughe che ne nascono, dimostrano che il futuro dello Scudo crociato è uscito dalle contingenze della politica per tramutarsi a pieno titolo in un problema che non è esagerato definire storico. Ciò che è entrato in discussione è proprio il ruolo della Dc in quanto partito-tutto, partito-stato e partito-società, partito di cattolici e laici, in grado di proporsi come sintesi e composizione di una fascia amplissima di ceti e di interessi. Le ragioni di questa perdita di identità e di funzione sono molteplici. Di sicuro, la fine dalla contrapposizione con il Pci, dopo l’Ottantanove, ha fatto evaporare la rendita, che sembrava eterna, di baluardo democratico contro le forze antisistema. Altrettanto certamente, il capillare affermarsi della Lega Nord ha rastrellato settori di elettorato tradizionalmente democristiano, per i quali è divenuto intollerabile il criterio redistributivo e il carico clientelarassistenziale di marca andreottiana, e che in prospettiva vedono i propri interessi meglio tutelati dalla promessa leghista di abbattere il patto sociale finora sottoscritto e garantito dalla Dc piuttosto che dalle oscure promesse di Martinazzoli di rifondare il partito. E infine l’ondata nera di Tangentopoli ha sommerso il partito che, con il Psi, incarnava la continuità e la responsabilità del potere, e uno stile di governo che all’improvviso appariva inaccettabile alla generalità dei cittadini. Tuttavia la Dc non è stata soltanto il partito al centro del sistema politico, la stella fissa, il pilastro o la base d’appoggio di ogni coalizione: è stata anche il cemento, molle e roccioso, del particolarissimo sviluppo italiano, l’interprete e l’esecutrice di un modello che impastava insieme i contrari: le fatiche della piccola e media impresa e l’ipertutela sindacale, uno stato sociale che era nello stesso tempo un costosissimo «socialismo dei ceti medi» e un dilapidatorio assistenzialismo clientelare, la modernizzazione non guidata e l’arretratezza tutelata a spese della collettività. Per queste ragioni, i dilemmi che lacerano la Dc non sono semplicemente di collocazione politica o di raccordo con altri partiti. È una consapevolezza di questo tipo quella che induce Martinazzoli alle sue pensose esitazioni. Il leader democristiano capisce che una Dc che subisse la tentazione «cossighista», neocentrista, proponendosi come la controparte meridionale della Lega, con il proposito implicito o esplicito di venire a patti con Bossi, farebbe partire un fortissimo contraccolpo alla propria sinistra. In modo analogo, la collocazione in una indeterminata quanto affollatissima «area di progresso» farebbe scattare lo scisma sulla destra, da parte di chi intende occupare lo spazio politico-elettorale moderato. Da camera di compensazione la Dc sta diventando una camera di scoppio. E allora? C’è stata un’occasione, nel consiglio nazionale democristiano di giugno, in cui Martinazzoli ha parlato in modo più esplicito del solito, sottolineando che l’esigenza «non è tanto di riallacciare i rapporti con le forze politiche ma di tentare una grande riconciliazione con la società». Dietro queste parole si legge una convinzione: la sorte della Dc è legata alla sua capacità di riproporsi nella sua interezza. Cioè di reinventarsi completamente nuova e completamente uguale. Allorché lanciava l’idea dell’ «assemblea costituente», insidiosamente vicina alla data simbolica del 25 luglio, Martinazzoli si accingeva all’impresa prodigiosa di tenere insieme tutto il corpo della Dc e nello stesso tempo di dargli un’anima nuova. Sfidando il probabile risultato di non guarire il corpo e di non salvare l’anima. Mentre tutto appariva in movimento frenetico, Martinazzoli si ritrovava una sola carta da giocare: stare fermo, anzi immobile, offrendo tutt’al più un po’ di cosmesi come se fosse chirurgia, mediazione come se fosse scelta stringente, silenzio o mugugno come se fosse parola dirimente. Forse covando nel suo intimo l’illusione che la Prima Repubblica non fosse del tutto declinata, e che nel pieno di uno straordinario rivolgimento politico fosse possibile rivolgere al tramonto della Dc la miracolosa invocazione biblica «fermati o sole». Martinazzoli entra nell’ «assemblea costituente» del 23 luglio essendosi convinto che la Dc, o come si chiamerà, deve continuare a essere un partito di centro, anche se il sistema elettorale uninominale maggioritario definisce il centro come una posizione da contendere fra gli schieramenti, e non come una trincea o una roccaforte da occupare stabilmente. Continua a pensare che la Dc costituisce una garanzia dell’unità nazionale. È giunto a pensare che nel codice genetico democristiano è iscritto un avvenire «tedesco»: la Dc del futuro potrebbe essere un partito come la Cdu, di stampo popolar-conservatore ma non alieno da volontà modernizzatrici. Il fatto è che questa soluzione viene con estremo ritardo, mentre il partito è una galassia in espansione, dilatata da una spinta verso lo spazio esterno che minaccia di disintegrarla per sempre. Rosy Bindi ha lanciato la Dc del Veneto verso sinistra, riafferrando la coda del solidarismo e dando voce alle nuove, o vecchie, velleità cattolico-sociali che non hanno mai smesso di guardare a sinistra: il rosibindismo dichiara attenzione a Segni, culla l’ipotesi che si avveri alla fine il fatale incontro con il Pds, e non rinuncia nemmeno a ipotizzare il «recupero» di Leoluca Orlando. Altri settori del partito stanno invece nutrendo tentazioni definite enfaticamente «giscardiane», comunque neomoderate. In Sicilia invece Sergio Mattarella cerca di fare della Dc un esperimento politico radicale, sfidando consapevolmente il rischio che lo Scudo crociato diventi un partito di semplice testimonianza minoritaria. In tutto il Centro-Sud si avverte il desiderio dei notabili di regionalizzare il partito (naturalmente senza confessare apertamente che la cosiddetta regionalizzazione significa in sostanza una cosa sola: mano libera nella formazione delle liste e sfruttamento intensivo delle reti clientelari che finora hanno tenuto insieme l’elettorato e che si prospettano ora come l’ultimo strumento di sopravvivenza politica). Con ogni probabilità, il «partito tedesco» era un’opzione percorribile fintanto che Mario Segni restava nella Dc. Ma il leader referendario se n’è andato in anticipo, ha portato a casa il referendum da non democristiano, e costituisce da mesi la più acuminata spina nel fianco di Martinazzoli. Per i democristiani si profila, minacciosa, la rivalità di Alleanza democratica. Alleanza democratica e l’arca della coalizione Ad ampi settori moderati, le iniziative di Segni dopo l’uscita dalla Dc sono apparse perlomeno indecifrabili. Dopo il18 aprile, molti si aspettavano che il leader dei Popolari si sarebbe candidato a capo di uno schieramento moderato. E invece, già a metà maggio, con il primo lancio di Alleanza democratica, Segni ha dato l’impressione di infilarsi in un’altra formazione di sinistra, inflazionando ulteriormente lo spazio politico «progressista». Date le caratteristiche di Segni, la scelta è apparsa incongrua, ma le analisi al riguardo sono state generalmente epidermiche. L’evidente fastidio dei settori ultramoderati per lo slittamento a sinistra dei Popolari ha prevalso sull’esame a freddo delle ragioni di una strategia di questo tipo. In realtà, Segni e i suoi avevano cominciato a giocare una partita senza scampo, dominata da un’alternativa secca: o i Popolari riuscivano a sfondare, oppure erano destinati all’insignificanza. Per questa ragione, un campione del moderatismo e delle idee semplici come Segni ha puntato su un’ipotesi vistosamente movimentista, fondata sull’inutilità delle vecchie contrapposizioni destra/sinistra: e in un primo tempo anche sulla scommessa che nulla del vecchio ordine poteva salvarsi, e in particolare che non si sarebbero salvati i due pilastri del sistema politico della Prima Repubblica, né la Dc né il Pds. Il ragionamento è stato avvalorato dalle elezioni amministrative di giugno per ciò che riguarda la Dc; ma è stato in apparenza smentito per la parte che attiene al Pds. Il partito di Occhetto si è sentito un vincitore, fino a pensare di potere approdare sulla sponda del nuovo sistema politico senza altri sacrifici. E dunque per Segni è sorto un problema. Oltretutto, vista con gli occhi dei più freddi fra i Realpolitiker, Alleanza democratica appare da un lato come uno strumento di riciclaggio di giovani e meno giovani notabili, dall’altro come un plotone di colonnelli senza esercito. Gente capace di impettirsi spiegando a Occhetto come e perché il Pds dovrebbe rapidamente sciogliersi in Alleanza democratica, e di dimostrare infallibilmente a Martinazzoli che la Dc appartiene al passato. Ma tutto questo fa parte dei circenses della politica. La costituzione di Alleanza democratica, annunciata in due riprese a metà luglio, rappresenta la sintesi di un processo politico importante, che intercetta almeno due questioni di grande rilievo. La prima questione riguarda il destino dell’elettorato centrista. Se si prevede che nella Dc le spinte centrifughe si andranno accentuando, dentro Ad i Popolari di Segni costituiscono un magnete potenzialmente in grado di attrarre, piuttosto che tronconi di nomenklatura democristiana, consistenti settori dell’elettorato dc, sia i cattolici stanchi di un partito ormai bollato come sentina di corruzione sia i laici orfani dei partiti di centro. La seconda questione concerne un principio o un fattore strategico in un sistema politico ristrutturato con le nuove regole elettorali. Pur con un meccanismo elettorale ancora mediocremente ibrido, le maggiori possibilità di successo non appartengono al partito teoricamente più forte: se così fosse, non ci sarebbe rimedio alla famosa Italia «tripartita», con la Lega trionfante al Nord, il Pds vittorioso al Centro, e un Meridione a pelle di leopardo spartito fra residui democristiani, destra, Rete. Le chances di affermazione più realistiche appartengono invece al partito maggiormente in grado di organizzare alleanze. Il partito cioè che detiene la quota maggiore del «potere di coalizione». Se si fa riferimento alla situazione attuale (rilevata con le elezioni amministrative di giugno), si può registrare che questo potere non lo ha certamente la Lega Nord, che anzi vuole continuare a caratterizzarsi per una solitaria contestazione di ciò che resta del sistema politico-istituzionale. E di certo non lo ha la Dc, dopo essere stata la stella fissa di ogni alleanza di governo: rimasta al centro di tutto per mezzo secolo, ora la Dc prova la sottile angoscia di trovarsi all’angolo (tanto è vero che ha combattuto con ogni mezzo la scelta del sistema elettorale a doppio turno proprio per il timore di una coalizione generale di «tutti gli altri» ai suoi danni). Per quanto possa risultare stupefacente, l’unico partito che mantiene un ampio potere di coalizione, come si è detto in apertura, è il Pds. Ma non in forza di una politica, di una scelta programmatica, di una particolare attrazione sull’opinione pubblica. Vale la pena di ripetere che il Pds è pur sempre una forza politica a sui era caduto in testa il Muro di Berlino, e in seguito anche qualche mattone di Tangentopoli. Il potere di coalizione del Pds è più o meno un regalo piovuto dal cielo. Tanto è vero che per esercitarlo Occhetto deve agire da trasformista, ora presentandosi come partito di sinistra che arruola la Rete, i comunisti di Rifondazione e i più rossi dei Verdi, ora guardando tatticamente al centro del sistema politico in nome del nuovo. Per questa ragione, Alleanza democratica nasce su una premessa fondamentale, a cui affida tutto il proprio destino. La premessa del successo di Ad risiede non tanto nella rottura con il Pds, ma sicuramente nel tentativo di sottrarre al Pds il potere di coalizione. Malgrado i molti «ponderi» di entrambe le parti, che cercano di salvare i rapporti con il Pds, ci vuole poco a riconoscere che gli interessi di questi due schieramenti sono in concreto estremamente divergenti. Al Pds servirebbe poter giocare gli accordi con Segni, Ayala, Adornato & c. quando e come gli fa comodo, tenendosi le mani libere per allestire coalizioni diverse dove gli risulta più utile. Ad Alleanza democratica il Pds può interessare soltanto come partner il più possibile subalterno, non qualificante. Anzi, posto come obiettivo la conquista degli elettori moderati, Ad ha tutta la convenienza a marginalizzare a sinistra il Pds. Se questo ragionamento è fondato, appaiono un esorcismo senza troppi significati i timori espressi da alcuni esponenti di Ad verso i rischi di una potenziale «deriva centrista» che si avrebbe nel caso di rottura con il Pds; e sono chiacchiere gli appelli accorati per un fumoso incontro «fra culture diverse». Salutando la nascita ufficiale di Alleanza democratica, il 15 luglio, con un articolo su «la Repubblica», Michele Salvati ha esordito dicendo di «nutrire la ragionevole fiducia che le forze confederate in Ad possano costituire il polo di sinistra-centro che contenderà alla Lega e alle forze di destra-centro il governo del nostro paese in una futura democrazia dell’alternanza»; ma nella conclusione si è dovuto realisticamente limitare all’«augurio» che l’incontro tra Ad e Pds sia possibile e dia vita al crogiolo di un grande «partito democratico». Ma se si esce dall’alone degli auspici, si potrebbe riconoscere facilmente che spingere il Pds sul margine sinistro della politica è una scelta che diverrà automatica non appena Occhetto si irrigidirà, come del resto ha già fatto, di fronte alle condizioni che gli verranno poste. E la condizione principale dettata da Ad non può essere che la sottoscrizione di un rapporto omogeneo su tutto il territorio nazionale, tagliando di netto quei rami della Quercia che si protendono verso il terreno dell’antagonismo politico, presidiato da Rifondazione e Rete. E dunque il vero obiettivo di Alleanza democratica potrebbe risultare per necessità lo sfondamento sul centro, cioè contro la Dc. E presumibilmente su questo terreno che si giocherà la partita più dura. La fortuna di Ad dipende quindi con ogni probabilità dalla malasorte democristiana. Conquistata l’arca con le tavole della legge, quel simbolo che assicura il possesso del potere di coalizione, ad Alleanza democratica spetterebbe poi di condurre la battaglia nei collegi, attaccando tutte le posizioni dominanti. Ma a quel punto non dovrebbe essere più un crogiolo di forze eterogenee, e neppure il frutto di illusioni ideali e di delusioni politiche, ma proprio un partito vero, con uno statuto politico e un programma. Scelte decisive attendono Ad, a cominciare dalla campagna per le amministrative di novembre (con la mina della candidatura di Leoluca Orlando a sindaco di Palermo, che potrebbe costituire un duro banco di prova per la collocazione di un soggetto politico ancora allo stato nascente). E la scelta fondamentale riguarda la necessità di esprimere, dopo i sempre più usurati appelli in nome del nuovo, le parole della politica.

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