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Il bipolarismo realizzato

05-06 2001
Una cosa almeno si può dire: dalle urne è uscita la conferma di un sistema finalmente bipolare. Gli elettori (e il sistema elettorale) hanno premiato il centrodestra e il suo leader, cui spetta ora il governo del Paese. Agli sconfitti resta il non facile compito di mettere ordine tra le proprie file, riacquistando credibilità dall'opposizione, con un programma e un leader.

Una nuova svolta nella lunga transizione politica italiana, questo sono le elezioni del 13 maggio. È presto però per affermare che si sia giunti al termine della stagione iniziata con Tangentopoli. Certo è che il quadro politico si è modificato in maniera radicale e, forse, stabilizzato per vari anni. Berlusconi ha concluso la sua quinquennale «traversata del deserto» dell’opposizione approdando ad una vittoria netta ma non clamorosa. I rapporti di forza tra gli attori politici si sono comunque radicalmente ridefiniti ai diversi piani della nostra complicata architettura. Al piano alto, quello delle coalizioni, la Casa delle libertà ha ottenuto una netta vittoria in termini di seggi, con un margine che promette una navigazione tranquilla delle proprie proposte di legge in entrambe le camere. Al piano intermedio, quello dei rapporti all’interno delle alleanze, sono avvenuti i cambiamenti che promettono di alimentare la cronaca politica per molto tempo. A destra Berlusconi ha attirato su Forza Italia una parte consistente dei consensi degli alleati. A sinistra il tavolo dell’Ulivo ha trovato un nuovo equilibrio tra la componente dei Ds e quella dei centristi radunati nella Margherita. Anche al piano più basso – quello delle singole formazioni politiche, più o meno estemporanee – i prossimi mesi promettono sviluppi importanti, con scelte più meditate, che tengano conto del nuovo quadro politico, dei vincoli dei sistemi elettorali (che, pur diversi, sono accomunati dall’incentivo a creare ampie coalizioni) e della ragionevole prospettiva di avere di fronte un triennio senza elezioni generali. Nelle prossime pagine i risultati del 13 maggio saranno presentati nelle loro linee generali, facendo attenzione a rinvenire le più rilevanti linee di tendenza, sia in termini di confronto con le elezioni precedenti, sia in prospettiva dei possibili sviluppi politici e istituzionali dei prossimi mesi e anni. Una cosa almeno si può dire: dalle urne è uscita la conferma di un sistema finalmente bipolare. Gli elettori (e il sistema elettorale) hanno premiato il centrodestra e il suo leader, cui spetta ora il governo del Paese. Agli sconfitti resta il non facile compito di mettere ordine tra le proprie file, riacquistando credibilità dall’opposizione, con un programma e un leader. La marcia di avvicinamento: un elettorato stabile Il biennio precedente alle elezioni del 13 maggio è stato molto intenso dal punto di vista elettorale e istituzionale. Vale la pena di ricordare brevemente queste vicende perché costituiscono lo sfondo indispensabile per comprendere i risultati di queste elezioni. Nella primavera del 1999 il referendum indetto per abolire la quota proporzionale del Mattarellum non risulta valido per poche migliaia di astenuti. In tal modo gli oltre 21 milioni di voti a favore di un sistema elettorale integralmente maggioritario risultano inutili. Alle elezioni comunali del giugno ’99 la sinistra accusa la grave sconfitta di Bologna e perde altri cinque capoluoghi di provincia. Alle contemporanee elezioni europee il sistema elettorale, integralmente proporzionale, permette una precisa conta del peso delle diverse liste. A parte il positivo esordio dei Democratici e il successo della lista Bonino, i partiti che poi hanno costituito la Casa delle libertà ottengono il 44,3%, con oltre 3 punti di vantaggio sui partiti che compongono l’attuale Ulivo (41,2%). Ma la leggera superiorità numerica della Casa delle libertà risulta più evidente l’anno successivo, in occasione delle elezioni regionali. È in quell’occasione che si costituisce l’alleanza del Polo con la Lega, vera e propria chiave della vittoria di Berlusconi non solo alle regionali, ma anche alle politiche di quest’anno. Con la nuova alleanza il centrodestra conquista otto regioni, tra cui tutto il Nord, lasciando al centrosinistra solo le quattro regioni della «zona rossa» e tre regioni del Sud. In termini di voti il vantaggio del centrodestra oscilla tra il 6% (voto maggioritario) e il 7,5% (voto proporzionale). La sconfitta delle regionali è assai pesante per il centrosinistra, e costringe il presidente del consiglio D’Alema a rassegnare le dimissioni, dopo che incautamente aveva rivendicato il voto alle regionali come un referendum sul suo governo. Le elezioni regionali non solo confermano che tra le due coalizioni esiste un vantaggio elettorale a favore del centrodestra, ma attestano una rilevante rigidità dell’elettorato. Come sulla «Rivista italiana di scienza politica» hanno dimostrato Chiaramonte e Di Virgilio – confrontando le elezioni del 1996 con le europee del ’99 e le regionali del 2000 – a partire dal 1996 l’elettorato è stabilmente assestato all’interno delle due grandi aree politiche: circa il 55% si colloca nell’area di destra e il 44% si colloca nell’area di sinistra. Gli spostamenti di partito sono in gran parte interni alle due aree. Con queste rigidità, è destinata a vincere la coalizione che riesce a coprire tutta la propria area politica, dove non trova concorrenti in grado di sottrarle voti. Una campagna elettorale lunga diciotto mesi Molti osservatori hanno rilevato come il vero inizio della campagna elettorale sia il 9 ottobre 1998, data della caduta del governo Prodi. Certo è che la caduta del governo Prodi aveva aperto a Berlusconi ampi orizzonti per poter lanciare la sua controffensiva politica, innestata su due buoni argomenti: la mancata investitura popolare del nuovo governo e l’emigrazione di parlamentari eletti nel Polo a sostegno del nuovo esecutivo. In effetti la campagna elettorale è durata un anno e mezzo, senza soluzione di continuità. L’esordio è avvenuto con gli spot pubblicitari di Forza Italia che auguravano buone feste agli italiani in occasione del Natale 1999. Nella politica italiana una novità assoluta, peraltro ben comprensibile: quale altro partitoinserzionista avrebbe potuto permettersi le tariffe pubblicitarie in vigore nelle settimane natalizie? Ma in primavera è arrivato un ulteriore colpo di teatro: la crociera della nave Azzurra intorno alla penisola, che ha ridicolizzato la tradizionale propaganda degli avversari in vista delle elezioni regionali. Appena il tempo di assaporare la conquista di otto regioni ed ecco la campagna d’estate, con i grandi manifesti esposti in tutte le città, da cui il sorriso del leader vegliava sul caotico traffico urbano, accompagnato da messaggi vaghi quanto rassicuranti. Contro questa opulenza di mezzi il centrosinistra ha sostanzialmente giocato di rimessa, finendo per restare subalterno alle mosse del Cavaliere. Così, prima D’Alema ha cercato di recuperare lo svantaggio in termini di legittimazione esponendosi inutilmente alla sconfitta in occasione delle regionali; subito dopo, l’Ulivo ha dovuto bruciare i tempi per definire un candidato da contrapporre al Cavaliere, con effetti opposti a quelli desiderabili. Già l’apertura di una discussione sulla figura del leader rendeva evidente il deficit di leadership che gravava su un centrosinistra orfano delle sue figure più eminenti e prestigiose, traslocate a Bruxelles e al Quirinale. Inoltre la scelta, nel momento in cui veniva dibattuta, indeboliva tutti i papabili e lasciava un alone di debolezza intorno alla figura di Rutelli, sfumato solo nelle ultime settimane di campagna. Nel corso della campagna le mosse più appariscenti sono risultate quelle di figure non direttamente coinvolte nella competizione elettorale, come il durissimo manifesto anti-Berlusconi di Sylos Labini, le prese di posizione di Montanelli, Eco e altri intellettuali, il rilievo offerto al libro di Travaglio e Veltri. Per finire, si è avuto l’inusuale intervento della stampa straniera, a sollevare riserve sulla candidatura di Berlusconi a governare una grande democrazia. Il clima infuocato della campagna era, però, quello più congeniale a Berlusconi. Le denunce del conflitto d’interessi erano non solo tardive, ma destinate a lasciare freddi gli elettori del Polo e a infiammare solo i suoi avversari. Se poi è mancata la discussione sui programmi, non è il caso di gridare allo scandalo in un Paese che vive di antagonismi pregiudiziali. Casomai è da ricordare un’altra particolarità: è mancato un confronto televisivo tra i due candidati proprio dove il nodo delle televisioni assume un significato così rilevante. Un’altra mossa di Berlusconi per screditare Rutelli, considerato solo un «portavoce » di D’Alema e non il capo della coalizione. Il voto deciso dalle alleanze Dunque l’approssimarsi del voto si può osservare in una duplice prospettiva. Se si guarda ai risultati elettorali dal 1996 in poi si desume un quadro di grande stabilità. Gli elettori si muovono certo da un partito all’altro, ma restano in buona parte nello stesso recinto politico. Chi ha orientamenti di destra si muove tra partiti affini, e lo stesso si può dire per gli elettori di sinistra. Quando il sistema elettorale impone di costruire delle coalizioni (cioè sempre, a parte le europee), finisce per vincere l’alleanza costruita con più cura, cioè in grado di mettere insieme più partiti, che evita così il rischio di trovarsi concorrenti nella sua stessa area. Se si guarda alla lunga e inusuale campagna elettorale, il quadro è quello di un grande dispendio di mezzi, e di un ampio ricorso da parte di tutti i contendenti a toni da ultima spiaggia, evocando pericoli per il sistema democratico e la libertà dei singoli, nel presupposto implicito di un ampio numero di incerti da conquistare alla propria causa. I risultati elettorali hanno messo in rilievo che questo investimento ha avuto un solo effetto: ridurre l’emorragia di votanti che era divenuta preoccupante alle ultime prove. La partecipazione aveva segnato il minimo alle europee del ’99 (72,2% di votanti) e alle regionali del 2000 (73,0%). Invece, fatti i conti, l’affluenza alle urne è risultata quasi ai livelli del ’96 (81,2%), con poco più di un punto di calo. Anche il divario Nord-Sud ha ripreso la consueta fisionomia, con oltre diciotto punti di differenza tra la regione con la partecipazione più elevata (Emilia-Romagna, 88,8%) e quelle con la partecipazione più ridotta (Sicilia 70,3% e Calabria 70,7%). Ma in termini di partecipazione è da segnalare una vera novità per la storia elettorale del nostro Paese: le lunghe code ai seggi nelle città dove si tenevano anche le elezioni comunali, dovute alla riduzione del numero di sezioni elettorali decisa dal Parlamento uscente. A parte la tenuta della partecipazione, i risultati delle elezioni hanno seguito esattamente il trend messo in luce nelle elezioni precedenti. I dati principali possono essere sommariamente esposti secondo i seguenti rilievi numerici. 1) Al Senato l’Ulivo+Rifondazione comunista hanno battuto la Casa delle libertà di 400.000 voti ma il sistema elettorale maggioritario ha fatto la differenza. Così per ottenere 3 senatori il Prc ha raccolto oltre 1,7 milioni voti e, in termini aritmetici, ha determinato la sconfitta dei candidati dell’Ulivo in 32 collegi. Analoga considerazione riguarda la lista Di Pietro: oltre 1,1 milioni di voti per ottenere un seggio, il più caro dell’intera tornata elettorale. 2) Sia alla Camera, sia al Senato la distribuzione dell’elettorato è stata pressoché analoga rispetto al 1996. Nel 1996 al Senato Polo+Lega ottennero il 47,7% contro il 44,1% di Ulivo+Rifondazione. Tuttavia l’accordo elettorale consentì a questi ultimi la conquista di 167 seggi, contro i 116+27 di Polo e Lega. Nel 2001 al Senato Polo+Lega hanno ottenuto il 42,5% contro il 43,7% di Ulivo+Prc. Tuttavia l’accordo elettorale ha garantito alla Casa delle libertà la conquista di 177 seggi, contro i 128+3 di Ulivo e Prc. 3) Alla Camera, nella competizione proporzionale, nel 1996 le forze di sinistra hanno ottenuto il 43,8%, contro il 52,2% di Polo+Lega. Nel 2001 le forze di sinistra hanno ottenuto il 40,5%, contro il 49,6% di Polo+Lega. Da questi pochi dati sintetici il lettore può desumere quanto i risultati del 2001 siano allineati con quelli delle elezioni del periodo 1996-2000, ricordati sopra. La distribuzione dell’elettorato nelle due aree politiche è sostanzialmente stabile nel quinquennio. Entrambi hanno subito una leggera flessione di 2-3 punti che mantiene una differenza a favore della destra. Ai fini della vittoria finale, quello che conta è la geometria delle alleanze: l’area politica che si presenta unita è sistematicamente favorita; la coalizione che invece si trova un concorrente sullo stesso versante viene penalizzata e perde pesantemente in termini di seggi, anche se ottiene più voti. Sta proprio alla politica di mettere a punto le condizioni per creare alleanze. D’altra parte l’equilibrio tra i due elettorati rende particolarmente preziosa la cattura di alleati anche piccoli. Si tratta della «maledizione del Mattarellum» perché comporta come conseguenza l’eterogeneità delle coalizioni vincenti, che ha portato alla caduta prima del governo Berlusconi e poi del governo D’Alema. Berlusconi si è mangiato gli alleati Un altro modo per leggere questi risultati è che gli italiani hanno votato «a prescindere». Gli elettori sembra non si siano minimamente curati dell’interminabile campagna elettorale, dei toni accesi che denunciavano il conflitto d’interessi e paventavano pericoli per la democrazia. Tanto meno sembrano essere rimasti impressionati degli articoli allarmati della stampa straniera o degli sgravi fiscali generosi che qua e là facevano capolino. Il 14 maggio è emersa una fotografia quasi sovrapponibile a quelle già scattate nel ’96 e nel 2000. In termini più concreti: Berlusconi ha vinto le elezioni quando ha siglato l’accordo con Bossi alla vigilia delle europee e – per analogia – Rutelli le ha perse quando Bertinotti è rimasto fuori dalla coalizione. Ma occorre aggiungere un’annotazione di rilievo: come leader della coalizione ha solo vinto le elezioni, senza stravincere. Infatti ha perso due punti e mezzo (Camera proporzionale) e ben cinque punti (Senato) rispetto alla somma dei voti di Polo e Lega nel ’96. In termini assoluti mancano all’appello quasi 1,2 milioni di voti, sia al Senato che alla Camera. Dunque la faraonica campagna elettorale è stata inutile? No, perché la campagna è servita a Berlusconi per fagocitare gli alleati, che hanno perso tutti, anche mancando il quorum (Lega e Biancofiore). In tal modo si è assicurato nuovi equilibri a suo favore, con un partito che sfiorando il 30% risulta assai più forte della somma degli alleati (che insieme arrivano a poco più del 20%), e soprattutto riducendo fortemente il peso dell’alleato meno fidato, la Lega. È attraverso la focalizzazione dell’intera campagna elettorale sulla figura di Berlusconi che questi si è garantito le condizioni parlamentari per liberarsi della maledizione del Mattarellum, per uscire cioè dai condizionamenti di alleati scomodi. D’altra parte gli alleati sono stati ben lieti di mettersi all’ombra del Cavaliere, una volta rassicurati da un congruo numero di candidati in collegi sicuri. Così An ha ottenuto 142 parlamentari (96 deputati e 46 senatori), il Biancofiore 69 (40 alla Camera e 29 al Senato): rappresentanze parlamentari di tutto rispetto, che danno piena soddisfazione agli stati maggiori dei partiti. Ma la competizione proporzionale ha assunto in questi anni il significato di un metro di misura del peso elettorale dei diversi partiti, per cui – a parte la consistenza parlamentare – il peso politico degli alleati è in prospettiva destinato a cedere di fronte ai numeri di Forza Italia. Bossi ha capito subito di essere stato la principale vittima di questa eclisse degli alleati e ha subito cercato di rivendicare una parte del successo di Forza Italia e di alzare il prezzo del suo appoggio, in modo da poter recuperare un margine di manovra politica ripartendo dal modesto capitale di 47 parlamentari e del 3,9% di voti. Il bipolarismo è vivo e sta bene In queste elezioni, a differenza che nel 1996, erano molte le liste che si erano chiamate fuori dalla logica bipolare, contestando sia l’esistenza di una significativa differenza tra Casa delle libertà e Ulivo, sia la capacità del meccanismo maggioritario di garantire la governabilità. Se queste forze avessero ottenuto un ampio successo la duplice conseguenza sarebbe stata una maggior difficoltà a costruire una stabile maggioranza di governo e, in tempi medi, una forte spinta verso la modifica del sistema elettorale in senso proporzionale. Tutto questo non è avvenuto, dunque il bipolarismo si è rafforzato sia a livello sistemico, sia in base ai risultati nell’ambito dei due schieramenti. Vediamo di chiarire. 1) Il meccanismo bipolare ha funzionato a livello sistemico: coloro che hanno provato a sfidare il meccanismo maggioritario sono stati duramente puniti. Le principali liste fuori dai poli hanno sprecato oltre 4,7 milioni di voti (13,7%) per ottenere 6 seggi da senatore. Alla Camera le liste non allineate hanno dissipato il 15% dei voti proporzionali (più degli elettori della Margherita). Dal punto di vista politico occorre però sottolineare un punto importante: si tratta di un elettorato anelastico, che è rimasto insensibile alla differente efficacia del voto a seconda del tipo di scheda. Così la percentuale di voti è analoga sia nel proporzionale sia nel maggioritario della Camera. Addirittura i voti per le liste di D’Antoni e Di Pietro sono più numerosi nel maggioritario che nel proporzionale. Evidentemente si tratta di un elettorato che contesta entrambi i poli e ne rivendica l’equidistanza. Certo è un elettorato che ha sottovalutato la durezza dei verdetti del maggioritario e della soglia di sbarramento, e che finisce per assumere il valore di una testarda, sterile critica. Il sistema, alla fine, ne ha guadagnato in termini di riduzione del numero degli attori e in una più nitida fisionomia degli emicicli parlamentari: dopo i trasformismi della legislatura passata, non è davvero un guadagno da poco. 2) Il meccanismo bipolare ha funzionato all’interno dei due poli, premiando le formazioni che esprimevano il candidato premier. Nei due casi ovviamente la spiegazione è diversa, data la diversa esposizione mediatica e il differente modo attraverso cui si è arrivati alla designazione. A parte le molteplici differenze, Berlusconi e Rutelli hanno concentrato un’elevata quota di consensi anche nel proporzionale, contribuendo sensibilmente al successo di Forza Italia e Margherita. È impossibile non leggere in questi dati una esplicita adesione al meccanismo di contrapposizione primario, quello tra candidati premier, piuttosto che a quello tra partiti, più tradizionale ma proprio per questo capace di scaldare meno gli animi degli elettori. Berlusconi, segno di divisione e segno di contraddizione Si potrebbe dire in sostanza che il bipolarismo italiano, per come si è delineato, è il frutto della campagna-referendum su Silvio Berlusconi. Sembrerebbe persistere quindi, nella struttura della competizione politica, un elemento intrinseco di debolezza, o di fragilità costitutiva, se è vero che dal 1994 a oggi il capo di Forza Italia rappresenta il segno e il principio di divisione che solca gli schieramenti e designa il criterio di appartenenza e di scelta di campo per l’elettore mediano. È un uomo solo a creare le differenze, e a plasmarle politicamente. Dal punto di vista politico – anzi, addirittura ideologico – Berlusconi ha avuto il merito di innovare radicalmente lo schema italiano. Allorché nel 1993, ancora prima di «scendere in campo», dichiarò la propria sintonia politico-culturale con Gianfranco Fini (che competeva con Rutelli per la carica di sindaco a Roma), dal punto di vista fondativo il più era fatto. Si prefigurava in quel modo la disgregazione dell’«arco costituzionale», con le sue convenzioni classiche e stereotipate, che avevano sempre tenuto al margine l’estrema destra. Veniva identificato e delimitato uno spazio politico esplicitamente di destra (l’appellativo «centrodestra» costituiva e per qualche verso costituisce tuttora un eufemismo, legittimo simbolicamente ma non molto rilevante nella sostanza), che ridava decoro politico a una serie di posizioni che in precedenza non avevano cittadinanza al di fuori di settori circoscritti e tenuti al confine del mainstream pubblico. Una tendenziale relativizzazione della Resistenza e dei suoi valori fondanti, la contestazione dell’egemonia culturale della sinistra, la costante polemica antiazionista, la sponsorship a posizioni cattoliche di militanza confessionale, neoguelfe à la Buttiglione, e su altri piani la scelta di programmi politico-economici sufficientemente radicali nelle intenzioni per essere etichettati come neoconservatori, erano tutti fattori che inducevano a pensare che né Forza Italia nel suo codice genetico, né i suoi alleati, potessero riproporsi alla lunga come successori della Democrazia cristiana. L’eredità democristiana era incorporata, fino alle elezioni del 1994, nel Patto per l’Italia, con le due figure di Mario Segni e Mino Martinazzoli a rappresentare il primo la vena moderata e il secondo il partito «che guarda a sinistra», secondo la tradizionale inclinazione degasperiana. Il sacrificio della costellazione centrista sette anni fa, allorché la conquista di sei milioni di voti si tradusse in una drammatica sconfitta sul piano dei numeri parlamentari, fu il segnale che riedizioni democristiane erano improbabili, e non solo per meccaniche questioni di formula elettorale. È vero che per certi aspetti Forza Italia sollecita assonanze scudocrociate, fino ad assomigliare, a uno sguardo superficiale, a una «Dc senza preti». Ma oltre agli elementi di identità già citati, la differenziano la fortissima caratterizzazione leaderistica, che ha in Berlusconi il centro propulsore del partito e che sarebbe stata inimmaginabile nella prima Repubblica, e naturalmente un codice genetico marcatamente laico, o comunque secolarizzato, anche se facilmente propenso a espressioni confessionali. Privata della mediazione democristiana, l’Italia non è diventata improvvisamente un «paese normale». È diventata un paese che porta i segni di una secolarizzazione politica brutale, che ha smantellato l’area politica di governo (la Dc e il Psi con i loro alleati minori) e ha posto la sinistra postcomunista in una crisi che sembra produrre tutta la sua forza a tempo differito, come se i cerchi concentrici sollevati dalla caduta del Muro facessero sentire i loro effetti progressivamente, uno dopo l’altro, portando via a ogni passaggio un po’ di sostanza vitale. La persistenza nel tempo dei due blocchi politici principali, di cui abbiamo già detto – anzi, la sostanziale impermeabilità fra gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra – dà l’idea di una società che non ha ancora metabolizzato questa secolarizzazione. Forse non esistono più ideologie distintamente riconoscibili, ma fanno sentire il loro effetto gli ideologismi residui, gli echi della contrapposizione fra comunisti e anticomunisti, le esclusioni, le antipatie e i rancori che hanno segnato la storia del dopoguerra, l’avversione per una destra che ha abbandonato il fascismo ma non certe volgarità di stampo missino, e così via. Non si spiegherebbe altrimenti la facilità con cui l’opinione pubblica filoberlusconiana ha accettato la persistenza del conflitto d’interessi come un elemento inessenziale nella situazione politica. E non si spiegherebbe neppure come sia stato possibile passare da un’esaltazione giustizialista, ai tempi di Mani pulite, con Antonio Di Pietro eroe popolare, all’assoluta indifferenza per la condizione giudiziaria di Berlusconi, che continua a restare problematica nonostante il successo evidente della protratta iniziativa anti-procure. In questo senso, il giudizio della stampa straniera – a partire dall’intervento più noto e più pesante, il reportage dell’«Economist» su Berlusconi, giudicato in copertina «unfit» di governare l’Italia – ha potuto essere consegnato senza esitazioni dal centrodestra alla categoria del giornalismo spazzatura, o all’«internazionale della calunnia», quando non addirittura a una «congiura di sinistra» (non importa se gestita da un giornale programmaticamente neoliberista, e sulla base di un reportage di notevole qualità professionale). L’indifferenza per la condizione patrimoniale di Berlusconi e per le sue interferenze con l’azione politica sembrano rispecchiare non solo la campagna mediatica che nel corso degli anni ha tentato, con notevole successo, di ridurre il conflitto d’interessi a una fisima bizantina, gestibile tranquillamente attraverso l’onestà personale, l’equilibrio, le capacità discrezionali del leader di Forza Italia; ma rispecchia anche uno spirito di corpo, se non di fazione, che ha condotto gran parte dell’elettorato forzista e polista a giudicare irrilevante la ricchezza personale di Berlusconi, il suo coinvolgimento in numerosi settori di attività, così come il problema del possesso e del controllo del duopolio televisivo italiano. Di conseguenza si giunge a considerare strumentale, da parte degli avversari politici, l’individuazione del conflitto d’interessi come tema politico cruciale nel funzionamento della democrazia. Per comprendere il berlusconismo occorre dunque identificare una miscela di valori nuovi e antichi, in una combinazione a suo modo postmoderna, probabilmente déracinée, che per alcuni aspetti sembra sovrapporsi con buona esattezza alla miscela di arcaismo e di modernità che fa da sfondo alla vicenda italiana contemporanea. Questi valori delineano una risposta ai problemi della società italiana radicalmente contrapposta rispetto a quella offerta dalla classe dirigente democristiana e comunista nella vecchia «Repubblica dei partiti». Le classi politiche tradizionali, generalmente allineate con la tradizione risorgimentale, intendevano lo stato come fattore di modernizzazione della società e dell’economia. Nel collage postideologico di Berlusconi, lo stato è «leggero», «snello», depurato finanche da qualsiasi sospetto di finalizzazione etica, una macchina che deve incamerare tasse (poche) per rilasciare servizi (efficienti). Nonostante le capacità persuasive del leader di Forza Italia, sono molti gli aspetti della sintesi berlusconiana che risultano gravemente sospetti di incoerenza. C’è innanzitutto un embrionale programma politico-economico che mette insieme supply side economics (taglio delle tasse per fare schizzare in alto la crescita) ed economia sociale di mercato, in puro stile da modello renano. Neoliberismo più Welfare, per capirci. C’è un liberalismo declamatorio che tuttavia risulta poco sensibile e permeabile alle regole, almeno quelle che investono il patrimonio. L’accettazione tiepida della matrice antifascista si affianca alla propensione irresistibile verso qualsiasi sperimentazione «revisionista». L’adesione pubblicitaria ai valori «cattolici» si combina con l’assecondamento di stili di vita di stampo televisivo, largamente plasmati da una concezione di fondo tipicamente edonista. Tutto ciò è servito per offrire prima una sponda ideologica e poi una casa comune a tutti coloro che contestavano la diagnosi di arretratezza della società civile (e quindi la simmetrica funzione dello stato in termini di Zivilisation) formulata dai settori «progressisti». Borghesia law and order, ex e post-fascisti emancipati grazie al successo di An e al fortunato congresso di Fiuggi ma comunque rancorosi verso la tradizione resistenziale, e desiderosi di ridurre il fascismo storico a una variante dell’antropologia italiana (quindi qualcosa di inevitabile, sottratto alle responsabilità politiche). Nuovi ceti imprenditoriali liberati dalla pressione dei partiti dopo la scoperta di Tangentopoli, ma anche insofferenti al sistema delle regole e delle garanzie imposto sul mercato del lavoro e in azienda dai partiti pro labour, compresa naturalmente la Dc e ovviamente i sindacati. Cittadini disposti a vedere nella nascita di Forza Italia un’alternativa allo strapotere dei vecchi partiti, e un baluardo all’azione dei magistrati, comunque inclini all’idea, testimoniata da un formidabile coming out televisivo di Iva Zanicchi, che valga la pena dare una chance a un uomo che ha dimostrato di saperci fare. E, non ultime, classi di «poveri» disposte ad affidare ai ricchi il management della società, nella speranza di ritagliarsi al margine qualche vantaggio economico. Forse il rapporto con il mondo cattolico è la spia più evidente dell’eterogeneità implicita del progetto berlusconiano. È sufficiente sfogliare Una storia italiana (il rotocalco spedito massicciamente agli elettori nelle settimane prima del voto) per rendersi conto delle pruderie sul secondo matrimonio, dell’enfasi sulla famiglia, la moglie e i «cuccioli», sulla vecchia madre e l’indimenticabile papà. Senza citare, è ovvio, la foto che immortala l’incontro con Karol Wojtyla: non occorre una vena troppo pronunciata di moralismo per identificare un post-cattolicesimo che riesce a tenere insieme devozione formale e edonismo, consumismo euforizzante e dichiarazione di impegno morale alla solidarietà per chi «è rimasto indietro», adesione ufficiale alla morale sessuale cattolica e comportamenti disinvolti, almeno secondo quella stessa morale. Un cattolicesimo «divertente» se non mostrasse una tendenza ricorrente a usare il lato confessionale come strumento di ricerca del consenso, sensazione che si ha spesso allorché dall’empireo dei valori, dalle ispirazioni sturziane e dalla sussidiarietà, si passa alle prospettive pratiche (sulla parità scolastica, per esempio). L’opposizione, in prospettiva Detto questo, un’ipotesi molto malevola indurrebbe a pensare che la contraddizione principale del centrosinistra consista nell’avere attaccato con un certo accanimento Berlusconi proprio sui temi che non avrebbero spostato un voto. Ciò è avvenuto presumibilmente perché la sinistra, e i Ds in particolare, non hanno prodotto uno sforzo significativo per capire e interpretare politicamente gli orientamenti della società italiana. Bastava una conoscenza sommaria delle indagini sociologiche sulle preferenze nazionali, sui codici valoriali, sugli orientamenti culturali, sul costume, sul gusto e i consumi, per comprendere che ogni riferimento al conflitto d’interessi come fonte di incompatibilità politica avrebbe lasciato freddi buona parte degli elettori, e soprattutto quelli propensi a votare a destra. Magari il cinismo italiano non ci fa abboccare alla fotoromanzata biografia di Berlusconi; ma nello stesso tempo quel cinismo esorcizza le preoccupazioni attinenti alle regole, nel senso che il conflitto d’interessi rappresenta su scala maggiore un tipico problema italiano di frizione tra sfera privata e sfera pubblica: a suo modo intensifica il problema. In questa cecità delle forze di sinistra rispetto alla condizione del nostro spirito pubblico, o se si vuole della nostra cultura civica, risiede con ogni probabilità il motivo che ha indotto l’Ulivo a gettare via il doppio miracolo della vittoria politica del 1996 e dell’ingresso nell’euro. Ha scambiato per tattica combinatoria la costruzione del centrosinistra, e ha inteso come esercizio di potere la pratica del governo, senza interrogarsi a fondo sulle ragioni che avevano consentito i due miracoli, sul «valore aggiunto» del prodismo (ancor più che del centrosinistra). Valore aggiunto che da un lato implicava il rapporto con le élite culturali, con l’establishment economico, con il mondo cattolico specialmente di base; dall’altro, lo sforzo di aggregazione del consenso sui temi programmatici fondamentali come il risanamento dei conti pubblici in chiave europea, per conseguire l’approdo dell’euro, e il ridisegno selettivo dello stato sociale. Uno sforzo sostanzialmente riuscito, dal momento che ha plasmato un’opinione pubblica orientata positivamente (anche se nel caso del Welfare i risultati sono stati molto inferiori rispetto alle ambizioni originarie). Avere lasciato filtrare l’impressione, magari anche con qualche compiacimento, che l’arte di governo coincidesse essenzialmente con la tecnica del potere, ha fatto sì che Berlusconi potesse accusare ogni giorno la sinistra di avere occupato illegittimamente il governo dopo l’operazione trasformista che aveva condotto al governo Massimo D’Alema (oggettivamente trasformista, si potrebbe dire per usare un lessico consono alle radici culturali del leader diessino). La sconfitta del centrosinistra è risultata tanto peggiore quanto poco contrastata. Per concedere al candidato Francesco Rutelli una dignità politica sufficiente a competere, diversi partiti e formazioni del centrosinistra hanno atteso gli ultimi giorni di campagna elettorale, quando l’impegno fisico e mediatico a cui l’ex sindaco di Roma si è dedicato lo hanno imposto sulla scena pubblica. In precedenza si era tenuta una sagra di errori politici, di cattive valutazioni, di egoismi partigiani, che erano andati sotto l’etichetta di «sconfittismo». L’accordo con Rifondazione comunista, che avrebbe potuto rovesciare il risultato, è scivolato via come per inerzia, probabilmente perché al momento opportuno Rutelli non aveva ancora la caratura del leader riconoscibile, e quindi in grado di impegnare credibilmente un possibile partner riottoso. Ora invece, il periodo post 13 maggio risulta sismico, per l’Ulivo, perché nel panorama politico- elettorale si stagliano ormai due figure precariamente compatibili, i Ds precipitati al loro risultato storicamente peggiore e la Margherita rutelliana, che invece ha smentito i sondaggi e si è issata a poche centinaia di migliaia di voti dal partito di D’Alema e Veltroni. A causa delle elusive posizioni assunte in campagna elettorale dai principali leader della Quercia, con Walter Veltroni impegnato nella corsa per il Campidoglio e D’Alema autoconfinato nel collegio di Gallipoli, manca anche il capro espiatorio. Non c’è un responsabile oggettivo della sconfitta, e i Ds appaiono come un partito acefalo, che si trova a fare i conti con la novità emersa il 13 maggio, e cioè l’affermazione della Margherita. Si tratta di un successo non esclusivamente politico. È un successo infatti che rivela l’esistenza di ceti irriducibili a Forza Italia. Nello stesso tempo il movimento fortemente voluto da Francesco Rutelli è l’incarnazione politica di un progetto radicalmente alternativo a quello centrato sull’egemonia diessina. Ancora sfuocata culturalmente, indefinita come profilo politico, la Margherita sembra interpretare comunque una domanda dell’elettorato. Riporta nell’arena politica l’eco prodiana di un programma orientato ad assecondare lo sviluppo e nello stesso tempo a reinterpretare modernamente lo stato sociale. Può apparire una proposta ancora debole, ma la sua indeterminatezza non cela il fatto che essa si colloca in antitesi ai progetti attribuiti alla componente «socialdemocratica» dei Ds. Purtroppo per D’Alema, la prospettiva socialdemocratica è stata stroncata dalla combinazione del notevole risultato di Forza Italia e dalla pessima performance diessina. Il realismo politico dice che non si possono coltivare illusioni di egemonia con un partito che numericamente è la metà della formazione guidata da Berlusconi. A questo punto l’orgogliosa tesi dalemiana del «partito della sinistra europea che non delega a nessuno la rappresentanza dei ceti moderati» (un’espressione che riprende il lessico della rifondazione mitterrandiana del socialismo francese) sembra più una velleità che un progetto effettivamente praticabile. Non esiste nessun partito socialista competitivo in Europa che abbia alle spalle i numeri minimali dei Ds. Le riflessioni su una nuova Epinay socialista in versione italiana sembrano illusioni e il frutto della coazione a ripetere, più che una prospettiva culturale e politica. La realtà è che il 13 maggio probabilmente è entrata in gioco la leadership sostanziale della coalizione. La sinistra dovrà rendersi conto piuttosto rapidamente che il risultato elettorale ha fatto emergere quel pilastro centrista dell’Ulivo che era sempre mancato e che ora si propone come l’elemento di resistenza del centrosinistra dopo la grandinata berlusconiana. Perché di fronte all’egemonia postmoderna di Berlusconi sarebbe anacronistico ricorrere alla nostalgia dei grandi progetti novecenteschi. Per tornare a essere competitivo, al centrosinistra serve ovviamente una politica, e una politica delle alleanze. Ma la tonalità complessiva di questa politica deve rifarsi a concezioni modernizzanti: capaci di eludere i riflessi condizionati dei Ds e di fronteggiare la sfida liberalizzatrice del centrodestra. In grado di contestare il patrimonialismo di Forza Italia ma anche di smarcarsi dal sistema delle garanzie ineguali tutelato dal sindacato. Negli ultimi due anni il contenuto e il ritmo del confronto politico sono stati dettati dal Polo delle libertà. A Rutelli tocca il compito di mettere allo scoperto l’aspetto politicamente decrepito delle ovvietà rassicuranti di Gianfranco Fini, le contraddizioni programmatiche di Forza Italia (l’industrialismo delle grandi opere e il terziario depauperato della New Economy, le demagogie subculturali delle «tre i»), il confessionalismo anche questo rétro di Rocco Buttiglione: vale a dire tutto il catalogo delle meraviglie del centrodestra, che forse meraviglie non sarebbero, se non si pretendesse di smascherarle con i santini socialdemocratici, cioè con un partito che non c’è più.

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