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Gruppo di famiglia in televisione

07-08 1994
l'anno scorso a Marienbad / 2

Con l’apparizione in Italia di una destra ufficiale, riconosciuta espressamente in quanto tale e in quanto tale proposta senza remore agli elettori, sono tornati sul terreno politico alcuni temi a cui in passato era stata offerta un’attenzione secondaria. Si tratta in particolare della scuola e della famiglia. Sarebbe possibile svolgere analisi in profondità sul significato politico relativo alla scelta di questi temi. Ma, anche a un primo sguardo, si notano facilmente alcune ragioni che hanno determinato la selezione e la sottolineatura di issues convenzionalmente attribuite alla sfera d’interessi del mondo cattolico e in passato sostenute, seppure non troppo strenuamente, dalla Democrazia cristiana. Innanzitutto, come è stato spesso notato, la nascita dell’aggregazione elettorale coagulata da Silvio Berlusconi è stata premiata per il suo intento di sostituire la rappresentanza politica dei ceti moderati, e non invece per la volontà di scomporre questi ceti sulla base degli interessi e di riallineare gli schieramenti in modo netto. Il tramonto di un partito sociologicamente versatile come la Dc suggeriva l’opportunità di creare uno schieramento capace di fare presa a raggio molto vasto. Occorreva quindi, per rendere efficace l’operazione anche sotto il profilo delle simbologie di riferimento, assicurare al Polo delle libertà e del buongoverno un’ispirazione di fondo che potesse contemperare la varietà e talora la contraddittorietà delle ispirazioni politiche delle forze raccolte nel cartello di centrodestra. Il primo fattore di coagulo è stato senz’altro un pronunciato anticomunismo, protratto fino a non riconoscere all’alleanza dei progressisti uno statuto di stampo democratico-liberale, e quindi a negare tenacemente ai competitori una qualità fondamentale di legittimazione politica. Ma in positivo, fuori da questa contrapposizione duramente antagonistica liberali/illiberali, è stato il richiamo alle concezioni cattoliche una delle chiavi più sfruttate dalla coalizione berlusconiana. In parte per obiettive ragioni di interesse dei partiti raccolti nel Polo: sia Alleanza nazionale sia il Centro cristiano-democratico avevano una convenienza primaria nel proclamarsi eredi del patrimonio elettorale democristiano; mentre Forza Italia, che non nascondeva nel suo programma l’obiettivo di divenire un altro (dopo la Dc) «partito-società», virtualmente egemonico su un amplissimo ventaglio di fasce sociali, aveva bisogno di illustrare con un contenuto meno mondano il suo ottimismo neoliberista. Ne è discesa una specie di «retorica del cattolicesimo» in cui si sono espresse connotazioni piuttosto variegate. Di solito è prevalsa l’intonazione sorridente, con revocazione rassicurante di un sentimento generico ma – si suppone – condiviso da una quota maggioritaria della popolazione; talora l’appello ai principi cattolici ha assunto invece coloriture polemiche accese, come quando il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli ha definito l’aborto un omicidio (posizione su cui si è dichiarato in seguito d’accordo anche il leader di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini) o in occasione del dibattuto intervento «integralista» di Irene Pivetti al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. Ma più generalmente il richiamo alle idealità cattoliche è echeggiato come una tonalità di fondo, che appariva in grado di aggiungere gradevolezza e moderazione alle promesse di ristrutturazione dello Stato e all’attuazione di una concezione neoliberista dell’economia e della società. È anche per questo che, a dispetto dell’appoggio della gerarchia al tentativo di Martinazzoli di resistere al centro, Forza Italia ha esercitato un’attrazione molto forte su quella parte di mondo cattolico, come la galassia di Comunione e liberazione, particolarmente attenta alle ragioni del fare, dell’operare, dell’intraprendere: e che quindi, trovatasi alle prese con la scelta secca fra le pastoie dello «statalismo» e le opportunità della de-regolazione, ha provato come minimo un’immediata simpatia per chi più evidentemente prospettava opportunità. Sotto questo profilo, la scelta della scuola privata (cioè, se si escludono esperienze laiche assolutamente minoritarie, della scuola cattolica tout court), come tema qualificante dell’attività di governo ha un senso poco più che evocativo, settoriale e limitato com’è, dal momento che il messaggio favorevole all’istruzione privata si rivolge quasi soltanto verso quelle riserve di mondo cattolico particolarmente interessate – per più acuta sensibilità religiosa e per il conseguente rifiuto di una scuola secolarizzata e fuori controllo per ciò che attiene alle ispirazioni dell’insegnamento – a processi di formazione sostanzialmente autogestiti. Invece quello della famiglia è un tema dai contorni pressoché universali, e che contiene una grandissima pluralità di implicazioni, che possono riverberarsi su aspetti molteplici della vita collettiva. Oltre tutto, proprio la famiglia in quanto tale, sia come fondamento sociale sia come simbolo di «eticità naturale», rappresenta un anello decisivo nella catena fra le due polarità ideologiche del centrodestra attuale, vale a dire fra tradizione e modernizzazione. Tanto più interessante perché si situa strategicamente in uno spazio in cui da una parte ci sono matrici di giudizio attinenti al complesso law & order, concezioni para-corporative dell’ordine produttivo, vocazioni nazionalpopuliste, e tutto quanto si può iscrivere in una visione fortemente regolata della vita collettiva; e dall’altra invece una deriva consumistico-individualistica complementare a una concezione in cui è difficile distinguere la società dal mercato, gli individui dai consumatori. Proprio per questo il vessillo della famiglia, «nucleo fondante della società», esposto al pubblico con frequenza rituale, risulta interessante, addirittura a partire dalla stessa condizione familiare dei principali esponenti del nuovo corso. Si badi che le riflessioni che seguono sono esenti da qualsiasi sottolineatura moralistica: ma una delle caratteristiche inedite (una fra le altre, naturalmente) del ceto dirigente emerso al livello più alto con la discontinuità politica sanzionata dalle elezioni del 27-28 marzo 1994 è data proprio dalla presenza, in ruoli politici e istituzionali di primissimo piano, di uomini e donne caratterizzati da una situazione familiare non tradizionale1. Pura casualità, si può dire, oppure fisiologico allineamento del personale politico agli standard comportamentali del Paese reale dopo decenni di mancato ricambio che aveva significato di fatto separatezza. Forse tuttavia è possibile stabilire senza essere accusati di accanimento antigovernativo (le biografie in sé sono piuttosto eloquenti) che, quanto meno per ciò che riguarda le situazioni matrimoniali e familiari, pur rivolgendo intensi atti d’ossequio alla tradizione il centrodestra propende naturaliter per la modernità. Si può benissimo dire, come ha fatto nell’agosto ’94 a Rimini la presidente della Camera Irene Pivetti, che la Dc ha dato un contributo risolutivo alla scristianizzazione dell’Italia accettando la legge sull’aborto, «tradendo» cioè i principi a cui dichiarava di rifarsi. Ma resta poi da vedere se l’accettazione democratica di una legge votata dal Parlamento, e passata indenne al vaglio di un referendum popolare, sia stata la maggiore responsabilità democristiana in termini di corrività verso il processo di secolarizzazione. Che sia mancata una testimonianza dura e pura, che la propensione scudocrociata all’accomodamento si sia espressa compiutamente anche sulla questione dell’aborto, è fuori dubbio. Resterebbe da vedere anche se il venire a patti con una deliberazione parlamentare, assunta nel rispetto delle procedure democratiche, sia da ascrivere ai peccati o ai meriti della Dc: e d’acchito verrebbe spontaneo catalogarla nel registro di quella particolare saggezza, sovente tortuosa e non priva di unzione, che la classe politica democristiana ha sempre dimostrato verso la regola democratica. Infine, come ultima cosa da vedere, si potrebbe valutare se la polemica fondata su un cristianesimo intransigente porta politicamente molto più in là di una divisione manichea dei cattolici fra buoni e cattivi, con la cattiveria che starebbe inevitabilmente dal lato dei compromessi modernisti di «Famiglia cristiana » e dei cattolici senza troppe certezze, mentre la bontà allignerebbe fatalmente sul versante dei più convinti vandeani. Se si respinge la fascinazione semplificatoria del «pensiero reazionario», deliberatamente antimoderno e intriso di animose velleità integrali, risulta probabilmente più utile, anche in termini sociologici, cercare di analizzare quali sono stati i veri «peccati contro il cattolicesimo» della Dc. E per una volta si potrebbero evitare i temi di gran fondo: si potrebbe cioè evitare di chiedersi quali danneggiamenti il lassismo di stile doroteo o andreottiano relativamente ai conti pubblici abbia inferto, non solo al bilancio dello Stato, ma anche al tessuto etico della collettività, e fino a che punto l’esercizio del potere abbia logorato, insieme alla fibra morale dei dirigenti politici, la struttura della convivenza civile. Potremmo prendere invece il caso dell’utilizzo del mezzo televisivo, sicuramente uno dei più potenti fattori di produzione culturale, se non il più potente in assoluto, e certamente uno dei principali strumenti atti a creare, se non vogliamo pronunciare una parola impegnativa come consenso, convenzioni politiche diffuse. Certo in questo caso è particolarmente difficile risalire dagli effetti alle cause (ammesso che un rapporto causale ci sia) e individuare se il risultato finale rappresentato da una società che viene giudicata incline a una concezione edonistica della vita, all’ammirazione della ricchezza, alla tutela gelosa delle prerogative individuali o corporative sia da porre in relazione con il messaggio corale che la tv ha propagato negli ultimi dieci-quindici anni. E ci si può anche chiedere, nel caso di una risposta positiva, se esistevano effettivamente possibilità obiettive e realistiche di proporre standard culturali e comportamentali diversi. Sta di fatto che mentre gli intelletti più consapevoli del mondo del cattolicesimo politico si sforzavano, anche nell’ultima campagna elettorale, di richiamare l’attenzione degli elettori sull’importanza della concezione che era alla base del popolarismo cattolico, quel «personalismo comunitario» che impronta di sé la prima parte della Costituzione, la televisione di Stato ha continuato per anni e con sistematicità a proporre una visione del mondo sostanzialmente antitetica. Abdicazione morale? Cedimento alle logiche di un mondo sconsacrato? Non si può escludere, ma è anche possibile che il messaggio individualistico-consumista della televisione pubblica sia semplicemente intrinseco al mezzo, plasmato dalla tecnica e dal rapporto con il pubblico; e che quindi non esistessero possibilità ragionevoli di curvare il complesso di idee trasmesso dal piccolo schermo secondo una traiettoria più consona alle ispirazioni culturali del suo principale, come lo definì Bruno Vespa, «editore di riferimento». In linea di semplice ipotesi si può anche pensare che l’intento di tenere sotto controllo i meccanismi dell’informazione politica avesse sull’altro piatto della bilancia un miope laissez-faire sul versante della produzione di spettacolo. Può anche darsi che la nascita del duopolio Rai-Fininvest abbia determinato automaticamente, con la rincorsa delle quote di audience e la concorrenza sullo share, una programmazione particolarmente attenta ad attrarre il pubblico proponendogli «sogni d’oro», anziché una severa pedagogia socio-culturale. Certo è che il cambiamento negli stili e nelle proposte è stato molto netto. Un esempio, per quello che vale. Nella tv di vent’anni fa, auspice e massimo cerimoniere Mike Bongiorno, uno dei principali prodotti televisivi era il quiz. Vale a dire una struttura spettacolare non esente da una sua implicita, per quanto rozza, moralità, dal momento che i gettoni d’oro costituivano una contropartita alle capacità del concorrente. Dai tempi di Lascia o raddoppia al Rischiatutto, da Degoli alla signora Longari, il premio in denaro, la ricchezza, il sogno di un improvviso benessere avevano come premessa una competenza, magari eccentrica o perfino aberrante, una prestazione eccezionale, qualcosa di talmente raro da far meritare automaticamente la straordinaria ricompensa che veniva dopo la domanda finale in cabina. Il pubblico assisteva agli esercizi di memoria di paranoici della specializzazione così come si poteva assistere al triplo salto mortale di un acrobata: il funambolo apparteneva a una realtà «altra», separata dalla quotidianità; esisteva come fenomeno in tutto e per tutto televisivo, di cui non si aveva altra esperienza se non attraverso l’occhio del piccolo schermo. Invece, a mano a mano che i palinsesti saturavano tutte le fasce orarie e che le ore morte venivano riempite dai programmi, attraverso l’infinita varietà di «giochini» telefonici e di premi grandi e piccoli si veniva configurando un’interazione fra televisione e pubblico in cui la felicità, il denaro, il premio erano praticamente svincolati da una prestazione quale che fosse. La premessa fondamentale, quella che dava di fatto un quasi-diritto alla ricompensa, era semplicemente quella di seguire il programma. Alle solitudini degli appartamenti metropolitani si rispondeva con un’offerta continua di illusioni, per modeste che fossero: facendo capire che quella solitudine era calata in un flusso meraviglioso di immagini, un mondo etereo dove il benessere era a portata di mano. Anche tu, assenteista insoddisfatta, piccolo-borghese inquieta, casalinga frustrata, pensionato ingrigito, potevi indovinare il numero dei fagioli della Carrà, accedere per un momento alla celebrità, «partecipare» a un evento, acchiappare la scia della cometa delle illusioni. Sono i primi esempi di televisione interattiva, in cui lo spettatore può tentare di diventare attore. Si vince sempre. E se non si vince oggi, si vincerà domani, con un’altra telefonata, con un altro programma. D’altra parte, non si vinceva sempre anche in Borsa, prima del martedì nero e del venerdì magro, non si stava realizzando il sogno di moltiplicare i soldi senza fatica, semplicemente puntando su questa o quella società quotata, su questo o quel fondo d’investimento? Non si avverava il miracolo di un capitalismo autenticamente popolare, un gioco del lotto a colpo sicuro, in cui tutto il parco buoi scopriva di avere diritto alla ricchezza? «Che ho vinto? Che ho vinto?», chiedevano con perfetta improntitudine al telefono i falsi giocatori inventati da Arbore in Indietro tutta, prima ancora di avere ascoltato la domanda, il quiz, il giochetto. Potrebbe essere noioso e non immune da ritorsioni moralistiche procedere a un elenco delle categorie spirituali prodotte, o se non prodotte selezionate, amplificate e diffuse, dalla televisione. Eppure, che cosa otterremmo se mettessimo nel frullatore l’intera programmazione televisiva e ne distillassimo come quintessenze il significato morale di fondo? Alla rinfusa: un’esasperazione della sessualità presentata di norma come diritto individuale al piacere, a cui fa da sfondo l’esaltazione del corpo, sia nei programmi sia nella pubblicità; una celebrazione enfatica della ricchezza esibita e del consumo vistoso; un clima di festa perenne, di sagra irresponsabile. Nulla di sobrio, niente di austero, ci mancherebbe. Il fatto è che questo brodo molto moderno viene preparato praticamente all’unisono dalla Fininvest come dalla Rai. Da questo punto di vista il duopolio è una finzione, e non è un caso che si cominci a parlare con sempre maggiore appropriatezza di «sistema» televisivo. Si interpreti in tutte le accezioni praticabili il termine «sistema», ma riesce difficile negare che dopo avere partecipato alle giostre di Dallas e di Dynasty (televisione privata) assistere ai mediocri fasti di Beautiful (televisione pubblica) rappresentasse un’immersione nello stesso fiume. Si disse, ai tempi di Dallas, che questo serial concedeva alla «gente comune » (ma forse allora, all’inizio degli anni Ottanta, qualcuno poteva ancora arrischiarsi a dire proletariato senza passare immediatamente per retrò) la chance di sentirsi moralmente superiore ai ricchissimi personaggi della finzione televisiva. A distanza di tempo, registrato il trascendentale successo politico di Silvio Berlusconi, viene da pensare che in realtà il sentimento del pubblico rispetto al perfido J.R. Ewing, il tycoon del petrolio, fosse di tutt’altro tipo. Ma se è adeguata alla realtà l’idea di una omologazione di fondo, negli stili e nei contenuti, fra televisione pubblica e privata, non sembrerebbe allora del tutto convincente nemmeno l’identificazione dell’attuale presidente del Consiglio come il «grande scristianizzatore» dell’Italia contemporanea. Il giudizio è stato espresso con estrema chiarezza dallo scrittore cattolico Vittorio Messori, in alcune dichiarazioni successive all’exploit pivettiano al Meeting di Cl2. È certo che, proprio per stigma genetico, essendo nate con l’obbligo di stare sul mercato senza la protezione del canone d’abbonamento, le reti della Fininvest hanno dovuto rincorrere il pubblico puntando su ciò che fino ad allora la tv di Stato si guardava bene dall’offrire; e quindi, ecco la maggiore spregiudicatezza, qualche strappo alle regole, scollature più profonde, libertà di parolaccia. E forse potrà anche risultare sorprendente che, malgrado tutti gli inchini che si sono visti ai valori del cattolicesimo e della famiglia, una rete Fininvest mandi in onda spettacolini soft core prodotti dalla factory di «Playboy». Ma sono inezie, sfumature, nient’altro che variazioni su un tema: «Ebbene sì, ho fornicato – come diceva l’anziano aristocratico inglese – ma è stato tanti anni fa, in un Paese straniero, e la ragazza è morta». Per l’appunto: si commettono peccati di entità lievemente maggiore quando l’ora è tarda, i bambini sono a letto, e le coppie, regolarmente sposate, in attesa di andarci. Nella morale cattolica «fai da te» che sembra essere il vero criterio assimilato in tutte le sue implicazioni dai ceti moderati (che sono poi quelli a cui si propongono modelli di riferimento in genere smodati), potrebbe darsi che anche questo venga considerato un buon viatico all’intesa coniugale, alla stessa stregua della luna durante la serata romantica nella reggia di Caserta durante il G7. Ci sarebbe spazio per considerazioni non insignificanti sul delinearsi di stili di comportamento che percorrono il doppio binario dell’accettazione di un cristianesimo più che altro sentimental-convenzionale e del rifiuto del carattere vincolante dei precetti ecclesiastici in tema di morale, sessualità, matrimonio compresi; ma fermiamoci a questa idea della famiglia, sbandierata al di là di qualsiasi forma abbia assunto in quanto istituzione e di qualsiasi cosa voglia significare sul piano sociale. Anche con echi lievemente imbarazzanti, tenuto conto che, mentre il senso dello Stato è sempre stato carente, il senso della famiglia non è mai mancato. Forse, ecco, con la differenza che i vecchi imprenditori politici democristiani la consideravano un serbatoio di voti mentre per i manager di Publitalia sarà un target di consumi, e per gli homines novi scremati da Forza Italia l’embrione di un club politico moderato. Sia come sia, dire famiglia evoca qualcosa. E quindi, spettacolo inevitabilmente «per le famiglie» i varietà del sabato sera e della domenica pomeriggio, i Biberon e i Saluti e baci, il nazionalpopolare di Baudo e la telenovela: accomunati, per chi li produce, da una spessa indifferenza per la qualità dello spettacolo, e perciò stesso, come conseguenza diretta, con la convinzione sottostante che anche la qualità delle famiglie non sia gran che. Non si corre troppo in là a dire, se il sillogismo funziona, che anche al culmine del processo di modernizzazione la premessa dell’«ideologia» televisiva è esattamente simmetrica alla convinzione attribuita al realismo di Ettore Bernabei, secondo cui gli italiani erano, fatti i conti, «cinquanta milioni di teste di c.». Alla luce di questa indifferenza estetica ed etica, può anche venire il sospetto che nel giudicare il rapporto fra televisione e società possa essere replicata – su un altro piano ma con la medesima intenzione moralistica – l’idea metafisica della distinzione fra il Paese legale e il Paese reale, fra la politica e la società: potrebbe delinearsi cioè, anche solo a scopi polemici, la concezione di una televisione «cattiva» capace di esercitare un’influenza nefasta su una società intimamente «buona». Si tratta di una riduzione semplicistica che con ogni probabilità non reggerebbe a verifica. È una tesi che nei suoi tratti essenziali può assumere un suo rilievo strumentale se viene fatta propria da settori limitati, «corporativi», di opinione pubblica, interessati a promuovere istanze polemiche proprio nei riguardi dei processi di modernizzazione e quindi a eleggere come bersagli polemici i più vistosi idola di una contemporaneità ritenuta nel suo complesso un inquietante e stordente procedere della perdita di valori. Come si è accennato, se c’è uno schema che inquadra il rapporto televisione/pubblico è piuttosto quello di una loro progrediente identificazione. È anzi all’interno di uno schema di sovrapposizione senza attriti che si potrebbero analizzare i giochi di specchi fra emissione di modelli e comportamenti di massa, esaminando come gli uni interagiscono con gli altri. Si potrebbe registrare, ad esempio, che la tendenza dei programmi di intrattenimento è rivolta a incorporare il pubblico nella trasmissione, annullando il diaframma fra chi produce spettacolo e chi lo riceve. Mentre lo spettacolo televisivo tradizionale (il vecchio Studio Uno, per capirci) non usciva dallo schema teatrale (di qua lo spettacolo, di là un pubblico in platea), a poco a poco la distanza è stata annullata. Una delle prime efficaci sottolineature di questa evoluzione, elaborata in piena consapevolezza «critica», è stata offerta dal programma di Renzo Arbore Indietro tutta, dove spalti di figuranti facevano da pubblico finto e da coreografia vera allo spettacolo. Ma chi ha approfondito più deliberatamente questo modello, perfezionandolo ed esasperandolo via via nel tempo, è stato più propriamente il vecchio sodale di Arbore, Gianni Boncompagni. Prima con il «contenitore» di Domenica In, nel quale un folto gruppo di ragazzine è stato istituzionalizzato come elemento dello spettacolo, «coro» messo rigorosamente in uniforme, chiamato a scandire, ad accompagnare e ad animare i passaggi del programma. E alla fine con l’equazione totale praticata con Non è la Rai, la trasmissione di Ambra. Chi ha fermato almeno una volta il telecomando sul programma di Boncompagni sa che, nel suo genere, è geniale. Si tratta di un evento quotidiano senza pubblico, una «macchina celibe» di intrattenimento, dove i ruoli sono intercambiabili, a rotazione, fra protagoniste e gregarie. Vederlo dal tinello di casa, per un’aspirante Ambra, è come guardare un acquario in cui tutto è variopinto, così spontaneo in apparenza, dove quelle sue coetanee sexy ma non troppo, e belle ma non tanto da mortificarti («Le vogliamo carucce – ha teorizzato Boncompagni – perché se sono eccessive poi non c’è identificazione»), quelle sue virtuali compagne di scuola ridono, ballano, cantano, si entusiasmano, si commuovono e versano lacrimoni di soddisfazione a turno, le une per le altre. Tutto perfettamente confezionato, più vero del vero, per quanto sigillato ermeticamente, sotto vuoto spinto. A prima vista si direbbe che questo congegno è un formidabile produttore di esclusione. E però, in via complementare, chissà che emozione illudersi di essere là, oltre lo schermo, dentro la scatola magica; quindi, chissà che frustrazione umiliante non poterci essere, con le «magiche» Pamela, Francesca e Roberta, e dovere sopportare invece, fuori dalle ore della trasmissione, la noia della vita con papà e mamma e il fratellino piccolo e lo strazio della scuola e dei professori. E dunque, per esserci, nel luglio ’94 si affollano e sfilano in quindicimila alla selezione per la nuova serie della trasmissione, davanti allo sguardo allenato di Boncompagni, il quale osserva, giudica, e alla fine approva o condanna. I resoconti sui provini sono rivelatori dell’atteggiamento con cui le ragazze guardano alla promessa di felicità televisiva. Succede per esempio che il regista ne boccia una ma quella capisce invece che l’hanno promossa: «Ed è scoppiata in un pianto liberatorio così terribile, con singhiozzi così esagerati, così bestiali, buttandosi addosso alla ragazza che l’accompagnava che tutti gli occhi si sono appuntati su di me con un rimprovero preventivo. Ho detto: okey, presa, non parliamone più». Per un’Ambra Angiolini che sembra essere nata professionista, che ha in repertorio un catalogo intero di furbizie espressive e di strumenti comunicativi, ci sono migliaia di casi sociologici al ribasso, esemplificazioni rionali, eccessi, ottusità e cecità di una provincia profonda, sconvolta dal richiamo della televisione. Boncompagni – lo ha confidato in un’intervista a «L’Espresso»3 – ha conservato tutti i provini registrati: «Perché sono sicuro che fra vent’anni saranno un documento storico, un reperto d’epoca prezioso». L’occhio clinico-cinico del regista cataloga un campionario sociale ed esistenziale «inquietante», perché le aspiranti sembrano tutte «clonate», «fascia sociale medio-bassa», «tutte apparecchiatissime, acconciate con pettinature inverosimili, con quei tacconi orribili che vanno quest’anno, strozzate in vestiti minimi. Più erano formose più si stringevano». E ancora: «Tutte che dicevano "borza", "danza" con la zeta dolce… Tutte un po’ intimidite a spiegarsi con parole assolutamente identiche: facevano tutte ancora la scuola dell’obbligo e, se erano state bocciate, era sempre "perché i professori ce l’avevano" con loro, mentre il tempo libero lo passavano tutte a fare "gnente". Nessuna lettura, nessun interesse preciso». La crudeltà fredda, come da entomologo, di Boncompagni fissa con lo spillo istantanee di solitudine, interni di case dell’hinterland, caseggiati in periferie dove «dal punto di vista dei rapporti uomo-donna la nostra è la stessa civiltà contadina di duemila anni fa», in cui «il maschio è terribile, antico, ignorante», e dove lo schema infallibile di giudizio trasmesso di padre in figlio è «la ragazza che ci sta è una troia, quella che non ci sta è una stronza». Nella crudezza delle espressioni si coglie la visione disincantata di una società italiana in pericoloso bilico fra dimensione arcaica e secolarizzazione apocalittica. Al centro esatto di questo equilibrio così funambolico c’è il mondo colorato della televisione. Che cosa ci si può aspettare allora dalla tv? Che riesca nel miracolo di trasformare l’emarginazione sociale in riscatto, la subalternità culturale in protagonismo? L’afasia in comunicazione? La bambina involgarita della porta accanto in una sophisticated lady? No, piuttosto la produzione di miti, e autoconsumo di mitologie. Cioè conformismo adeguato ai tempi, prodotto dalla televisione e da essa replicato e intensificato all’infinito. Rispondono infatti le giovani italiane, tutte già piccole Parietti e simil-Marini, confessando obiettivi esistenziali da serial californiano e già abituate a replicare alle domande in stile da rotocalco: «Mi vorrei comprare la villa con la piscina, come si vede in tv». «Faccio animazione nelle discoteche». «Non ho assolutamente tempo per i fidanzati». Se è vero quello che dice Boncompagni a proposito delle periferie metropolitane e della provincia più marginale, siamo ancora in una condizione che non trova migliore descrizione rispetto a quella della stranota formula «il medioevo più la televisione». Una società arcaica nei suoi sentimenti più profondi e nei suoi comportamenti primari su cui attecchiscono però, almeno in superficie, tutte le varietà standardizzate del comportamento up-to-date. Ci si potrebbe sbizzarrire a enumerare le possibili combinazioni di arcaico e ultramoderno offerte da un sincretismo di questo genere, le aspirazioni su cui modellare la propria vita. Ciò nondimeno si tratterebbe di un esercizio non eccessivamente fruttuoso, se l’intento fosse di individuare ciò che si ritiene positivo, e di puntarci sopra a fini pedagogici. Proprio l’impasto così difficilmente districabile fra antico e nuovo, fra premoderno e postmoderno, sembra in realtà la cifra più diffusa nella società, al livello collettivo come per gli individui. È per questo che alla fine riesce incongruo proporre come caratterizzazione politica specifica, come interesse selezionato, temi aurorali come quello rappresentato dalla famiglia: proprio perché l’audience è ugualmente sensibile sia all’evocazione sentimentale o melanconica di valori tradizionali sia all’attrazione della convenzionalità «moderna» scandita dai piaceri e dalle trasgressioni (sempre a un passo dal tramutarsi in convenzioni) della civiltà di massa. Un tema che richiama costitutivamente saldezza di convinzioni e coerenza di comportamenti risulta efficace solo per quelle minoranze (avanguardie o retroguardie che dir si voglia) che puntano su fattori forti di identificazione, e che si sentono in grado di sfidare polemicamente il senso comune, l’atteggiamento convenzionale delle maggioranze. Ma su un piano generale la testimonianza, anche nei suoi contenuti di contrapposizione esplicita a una tendenza omologata, tradotta in messaggio televisivo, appoggiata a un supporto massmediale, si presta a una ricezione frammentata, tende a non differenziarsi dagli altri elementi proposti alla sfera del consumo. Anche se fosse spendibile una proposta continua e sistematica di valori, ispirazioni ideali, complessi simbolici riferiti a modelli «comunitari», questa proposta tenderebbe ad appiattirsi, a depotenziarsi, a configurarsi senza soluzione di continuità come una delle numerosissime configurazioni della mappa che disegna l’orizzonte tradizione-modernità. Si potrebbe concludere insomma con un pronunciato realismo, il che equivale detto più esplicitamente a sostanziale sfiducia, verso i tentativi di invertire eroicamente la rotta; ma anche, per ciò che riguarda il passato, verso l’attribuzione di imputazioni e responsabilità specifiche in ordine a processi complicati come la scristianizzazione. Come in Non è la Rai, probabilmente, è caduta la paratia fra spettacolo e pubblico. A questo punto l’identificazione è esatta, la sovrapposizione perfetta. Una certa idea della televisione, così come una certa idea della famiglia, appartengono al passato, quando l’una e l’altra erano diverse. Oggi, presentare alla società – agli spettatori – oleografie pacificanti e richiami a convenzioni nostalgiche vuol dire con ogni probabilità non produrre né intrattenimento né politica, ma più prosaicamente far confluire echi ideologici in una proposta, alla fine, che attiene all’estetica dei mulini bianchi: insomma, alla pubblicità. Questo articolo venne originariamente pubblicato su «il Mulino», n. 4, 1994, pp. 659-670 e successivamente ripreso in E. Berselli, L’Italia che non muore, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 77-94. 1 Almeno in parte, e sotto una luce sarcastica, coglie questo aspetto Massimo Fini su «L’Europeo» del 7 settembre 1994: «Arridatece Forlani perché anche lui aveva una moglie ma nessuno l’ha mai vista. E la cosa, a dire il vero, vale per tutti i leader democristiani: saranno stati quello che saranno stati ma perlomeno non ci hanno mai inflitto le loro mogli, che erano un po’ come le consorti dei segretari del Pcus (prima dell’infame Gorbaciov) che si vedevano solo ai funerali degli augusti mariti strette in lise pelliccette di astrakan». 2 «Io ero a Rimini, quando lei ha parlato. Li ho sentiti, gli applausi che riceveva per quella sua sortita sul "popolo in esilio", quando demonizzava la Dc che secondo lei sarebbe responsabile della scristianizzazione in Italia. Io non demonizzo nemmeno Berlusconi, vediamo come va. Ma devo ricordare a Pivetti che se c’è stato un responsabile della scristianizzazione, in Italia, questo è il Cavaliere. Le sue reti sono il simbolo di un’umanità per cui Dio non è neppure un’ipotesi. Certo, il degrado morale è un trend di tutto l’Occidente, ma Pivetti non può ignorare che le paillettes di Berlusconi, che la sua idea di tempo libero come ricerca di cose lontane dalla serietà della vita, son ben più responsabili della scristianizzazione che non la spartizione delle tessere che faceva Sbardella» (intervista a Silvia Giacomoni, «la Repubblica», 30 agosto 1994). 3 Cfr. l’intervista raccolta da Stefania Rossini, Ambra e le altre? Serena disperazione, «L’Espresso», 22 luglio 1994.

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