gli articoli L'Espresso/

Compagno terrore

14/10/2004

Questa è la storia di un’ombra. Un fantasma. Un comunista fatto evaporare dalla Storia, da una delle tragedie politiche del Novecento che sono diventate catastrofi morali. «Un signor Nessuno per il grande partito di Togliatti, un detrito della battaglia fra Stalin e Tito». Si chiamava Andrea Scano, era un ragazzo sardo ribelle che la burocratica polizia fascista avrebbe bollato come «pericoloso in linea politica», e avrebbe cercato una fuga: prima in Corsica, poi in Spagna a partecipare alla guerra con le brigate internazionali contro i "tercios" di Francisco Franco, insomma «alla prova generale dello scontro fra i proletari d’Europa e la forza maligna di Hitler e Mussolini». Per poi tornare in Italia, a infilarsi nella Resistenza. E finire in un buco nero di disperazione, di violenza, di tortura, di umiliazione disumana. E infine, la mortificazione indicibile, il silenzio. Peggio di una condanna. L’accettazione di un destino, come una sottomissione. Si intitola "Prigionieri del silenzio" (Sperling & Kupfer, pagg. XII-446, 17 euro) il nuovo libro di Giampaolo Pansa, che esce il 12 ottobre, un anno dopo la pubblicazione dello scandaloso "Il sangue dei vinti". Dodici mesi fa Pansa aveva infranto il silenzio sulla violenza comunista dopo la Liberazione, su una giustizia intrisa di odio fino a diventare barbarie. Oggi racconta un’avventura che aveva narrato otto anni fa su "L’espresso": ed è un romanzo che talora apparirebbe incredibile, se non ci fossero le testimonianze, e se non ci fosse a garantirla il rigore assiduo della ricerca, la volontà di raccontare "tutto", benché questo tutto sia insopportabile. Un’ombra. Un falso protagonista, perché Andrea Scano in realtà è una vittima: un giovane isolano spinto dalla "balentìa" e da un oscuro senso di rivalsa, che si ritrova in Spagna, nel campo di Albacete, dove comanda Luigi Longo, alias Gallo, commissario politico e poi ispettore generale degli internazionali, e dove impara la prima regola della guerra civile: «Se ti prendono, ti fucilano». Perché la guerra ideologica non fa prigionieri. I "moros" di Franco, le truppe coloniali, castrano i morti e i vivi. I combattimenti a corpo a corpo esemplificano una ferocia che anticipa lo scontro fra visioni del mondo, non fra milizie contrapposte. Il libro di Pansa non è una biografia di Scano. Questi è un gregario che ha avuto la sfortuna di vivere "in tempi interessanti". Di attraversare la guerra di Spagna; di tornare in Italia e di finire al confino a Ventotene. "Prigionieri del silenzio" è un racconto storico più difficile e complesso del "Sangue dei vinti". La ricostruzione delle violenze contro i fascisti dopo il 25 aprile 1945 conteneva una carica provocatoria, che richiamava un dilemma etico: fino a che punto è giusta la giustizia dei vincitori? Quindi l’effetto scioccante del volume era prevedibile, come era prevedibile il trauma rappresentato dall’elenco minuzioso degli eccidi, e così come era prevedibilissimo lo "scandalo" a sinistra e in qualche caso lo sdegno un po’ stridulo per avere fatto il gioco della destra. Questo nuovo libro invece è politicamente più sottile, forse addirittura più insidioso. Il partigiano Andrea Scano, che come molti resistenti comunisti imbosca i mitragliatori dopo la Liberazione, e viene condannato dal tribunale di Tortona perché lo intercettano mentre sposta in una vigna un carico di armi ed esplosivo, è un personaggio simbolo di un progetto politico che sta abortendo. L’ora "X" non verrà. Come altri rivoluzionari di professione, per evitare il carcere nella «rassicurante Italia democristiana» cercherà rifugio vicino al confine orientale, nella Trieste che vive sotto l’incubo della polizia politica dei partigiani jugoslavi, per poi passare la frontiera, raggiungere Fiume, assistere all’esodo degli italiani cacciati via, mentre i miliziani comunisti seminano il terrore con la loro «muta tutta nera, nera la divisa, nera la bustina, neri gli stivali». Non c’è solo la pulizia etnica degli uomini di Tito. Non solo le foibe, non solo la pulsione violenta contro gli italiani. Sullo sfondo si profila un conflitto politico formidabile e inatteso, la rottura fra Stalin e Tito, in cui i "cominformisti", fedeli al blocco sovietico, diventano nemici, traditori, banditi. Milovan Gilas, uno dei numeri due di Tito, destinato in seguito a diventare uno dei critici "liberali" del comunismo jugoslavo, a quel tempo li aveva bollati con queste parole: «Bastardi, canaglie, merde umane». Per alcuni di loro l’accusa e la condanna furono più che qualcosa di incomprensibile: furono un «trauma culturale», che spesso in seguito li indusse a non raccontare niente a nessuno. Il comunismo, l’ideale di una vita si era spezzato in due, e un troncone cercava oscenamente di fagocitare i nemici, fossero pure i vecchi compagni o fratelli di lotta. Comincia qui l’epopea tragica di Scano e di altri italiani, di altri cominformisti, di altri comunisti che in quel momento avevano scelto la parte sbagliata, l’Unione Sovietica. Per loro si apriva «l’inferno speciale» di Goli Otok, l’Isola Calva nelle acque del Quarnaro, cinque chilometri quadrati riarsi d’estate e gelidi d’inverno: un sistema repressivo perfetto nel suo sadismo, ideato da Edvard Kardelj, il braccio destro di Tito, per spezzare la fibra di qualsiasi opposizione all’ortodossia titina. Alcune stime dicono che fra il 1949 e il 1956 passarono per l’Isola Calva 32 mila internati; vi morirono presumibilmente 4 mila persone; gli italiani furono più di 300. Scano fu catturato dalla polizia politica nel luglio del 1949 a Fiume, e rimase a Goli Otok per tre anni, dal 1950 al 1953. Le tracce che riconducono a lui consentono di avere il resoconto delle torture a cui i prigionieri venivano sottoposti: lo "stroj", il gioco della lepre stanata, in cui il nuovo arrivato subiva una via crucis fra due file di detenuti che lo riempivano di botte; il boicottaggio, che consentiva a tutti di umiliare anche fisicamente chi lo subiva; la "jama", una buca in cui al condannato venivano inflitte le mortificazioni peggiori; la "jazbina", ossia la caverna, con il derelitto che veniva sommerso da cumuli di coperte e poi picchiato selvaggiamente, «così il diavolo di Stalin uscirà dal tuo culo». «Eravamo dei vinti, totalmente, senza rimedio». Percossi non solo dagli aguzzini di Goli Otok, ma dalla sensazione di avere subito una violenza umiliante della storia. «In Spagna, nei campi di internamento francesi, a Ventotene, noi eravamo degli sconfitti, però mai ci siamo sentiti dei vinti. Moralmente ci sentivamo dei vincitori». In un gulag jugoslavo, invece, massacrati di lavoro, i comunisti della parte sbagliata erano schiuma della terra, gente senza diritti, autentici reietti, condannati a tacere per sempre. È un racconto che si avvia alla fine con l’incontro fra Krusciov e Tito nel 1955, che liquida la rottura e il conflitto fra Urss e Jugoslavia come un banale incidente geopolitico, uno scampolo dello stalinismo, e quindi consegna alle vittime dell’Isola Calva la sensazione straniante della «terribile inutilità» delle sofferenze patite. Dopo, infatti, rimane soltanto il silenzio. Gli archivi vanno distrutti, perché evidentemente non devono restare tracce della guerra che aveva dilaniato il movimento comunista. I reduci dalle prigioni e dai lager jugoslavi furono obbligati a tacere. Come avevano fatto i torturatori del regime jugoslavo, per ragion di partito il Pci di Togliatti ordinò il silenzio ai propri militanti, in una «cinica sintonia fra il vertice delle Botteghe Oscure e gli ufficiali della polizia politica che comandavano il gulag di Goli Otok». "Il sangue dei vinti" ha spezzato un silenzio lungo quasi sessant’anni, ma lasciava il campo diviso in due fazioni riconoscibili: da una parte i comunisti, qualcuno in cerca di rivoluzione, qualcun altro in cerca di vendetta, e dall’altra le vittime di cui bisognava tacere. "Prigionieri del silenzio" è un libro meno facile, meno spettacolare nell’individuazione delle ragioni e dei deliri politici, ma forse ancora più provocatorio: perché parla del modo in cui le ragioni del potere hanno lacerato dal di dentro la solidarietà del movimento comunista. "Una storia che la sinistra ha sepolto", recita la copertina: proprio per questo, il lungo dramma di un’ombra, di un detrito, di un uomo che per sbaglio o per eccesso di convinzione è finito in quel meccanismo crudele, anzi, in un automatismo ovvio e feroce, sembra dirci oggi che a sinistra non c’è più bisogno di revisioni. C’era, e c’è, bisogno di verità: una verità che oscura l’ideale con il gioco osceno del potere. Perché solo riconoscendo la verità più crudele, fuori dagli opportunismi dettati dall’epoca, fuori dalle convenienze, fuori dalla ragione politica, si può salvare di una storia ciò che non è stato violenza, non è stato calcolo cinico, non è stato irragionevole assimilazione ai comportamenti dei nemici.

Facebook Twitter Google Email Email