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COGNATI & COMPRATI

25/02/2010

"Otto e mezzo", prima serata de La 7, domanda di Lilli Gruber a Piercamillo Davigo, giudice alla Corte suprema di Cassazione, ex punta di lancia di Mani pulite: «Dottor Davigo, c’è un metodo per interrompere il rapporto malato fra politica e affari?». Risposta: «Basta smettere di rubare». Lo sguardo raggelante di Davigo era una risposta implicita a un’altra retrostante domanda: l’Italia è un paese strutturalmente corrotto? Vale a dire, gli episodi legati alla vicenda Bertolaso, e altri come la tangente simil-Chiesa del consigliere milanese Milko Pennisi, o certe disponibilità informali alla Delbono, nonché l’universo variamente corrotto della sanità, sono tutti episodi a sé stanti, macchie di leopardo in un paese sano, oppure rappresentano un "sistema", corrotto e infinitamente corruttibile? Si può rispondere come Davigo: «Siamo l’unico paese al mondo in cui anziché arrestare i ladri si attaccano i giudici». La semplicità esemplare del giudice milanese sembra disegnare un paese in cui la corruzione è un tessuto fondamentale, un’abitudine, un dato di fatto, una malattia cronica. Al Sud il pizzo, al Nord gli assessori. Il che porterebbe a pensare che la condizione italica non ha rimedio: il vecchio "familismo amorale" di Edward C. Banfield funziona sempre a meraviglia, se soltanto si guarda al proliferare di cognati che fanno contorno alla vicenda di Bertolaso e Balducci. Quindi non c’è altra soluzione se non la rassegnazione? Intanto sarebbero da smontare alcuni dogmatismi alimentati negli ultimi anni: il primo dei quali consiste nel credo populista per cui il voto, la doccia di schede, la "turbodemocrazia" sono il rimedio sovrano a qualsiasi peccato. Un altro dogma è che il «fare» autorizzi a qualsiasi sbrego dalle regole, e che in sostanza il fine giustifichi i mezzi. Si tratta di mezze verità che sfumano nel machiavellismo deteriore, e conducono a un esibito fastidio per leggi, norme, regole, moralità. Quasi vent’anni fa, Mario Chiesa si giustificava così, indicando l’ottima gestione del Pio Albergo Trivulzio: «Prendevo due soldi, ma che gran manager ero». Oggi sono svanite le ragioni manageriali, tanto che l’emergenza giustificherà lo sfondamento del tetto di una piscina olimpica, ma non svaniscono i legami opachi fra gli appaltatori; e sullo sfondo si staglia l’uomo che tutto il mondo ci invidia, Guido Bertolaso. Difeso naturalmente dal premier Berlusconi più o meno nel seguente modo: c’è un uomo che "fa", e quindi lo attaccano. L’insofferenza per le regole va di pari passo con il comandamento supremo che dice: nessuno mi può giudicare perché sono stato eletto dal popolo. Dunque la domanda viene davvero spontanea: come si esce da questo "sistema"? Dall’intreccio "voto più corruzione"? Fino a vent’anni fa esistevano istituzioni pubbliche (i partiti storici, la Chiesa, il sindacato, le associazioni) che potevano disciplinare e moderare gli appetiti individuali. Oggi invece non c’è quasi più nulla. Non ci sono autorità a cui rispondere. I partiti sono entità generiche, incapaci di suggerire principi etici, che spesso danno l’impressione di essere stati acquisiti dalla politica per questioni d’affari. È una tesi già delineata dai politologi, quella degli affari che inglobano la politica: nel declino dell’ideologia e delle ritualità di partito, vincono le individualità carismatiche, gli uomini del "fare", le vacche sacre, gli assessori infastiditi dai vincoli di legge e disposti a incassare mazzette anche "brevi manu". È la bella Italia dei Balducci, dei De Santis, degli Anemone, dei Della Giovampaola. Tutti arrestati, e tutti innocenti almeno fino al terzo grado di giudizio. E poi dicono che il problema sono i giustizialisti, nel Belpaese.

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