La Repubblica
La Repubblica, 18/11/2009, R2
IDEE TROPPO PICCOLE PER DOMINARE TUTTO
Un bell' esempio di tuttologia è stato raccontato da un grande tuttologo, Timothy Garton Ash, quando si rivolse a un' assemblea di studenti in una università inglese, chiedendo se avrebbero preferito vivere in Europa o in America. In Europa, rispose uno studente prontissimo. Perché? «Perché ci sono meno probabilità che mi sparino, qui fuori. E se mi sparano, in ospedale mi curano gratis». Sono sempre più rari i casi di tuttologia applicata a problemi complessi; e d' altronde la "complessità" fu un totem intellettuale degli anni Ottanta, che richiedeva fulminei cortocircuiti intellettuali per essere semplificata. Lo studente inglese era un tuttologo vero, razza perduta. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVA Ancora adesso si avverte la necessità di mentalità e formule che riducano a ordine il nuovo caos, cioè la crisi economica mondiale. Una volta assunto che la grande recessione non è semplicemente una questione tecnica e di regole, bensì un problema di distribuzione fallita della ricchezza a vantaggio dei ricchi contro i poveri, ci vorrebbero i paradigmi del grande Novecento per provare a districare qualcosa dal disordine poco creativo del nuovo Ventinove. Occorrerebbero in sostanza le costruzioni culturali di Max Weber e di John Maynard Keynes, giganti del pensiero, architetti irripetibili della «modernità», altra parola totem dei nostri anni. Anche perché la tuttologia, qualsiasi cosa significhi, implica una concezione generale della società umana. Vero è che Weber ammoniva ironicamente: «Chi vuole delle visioni, vada al cinematografo». Eppure l' autore di Politik als Beruf, cioè «politica come professione e vocazione», aveva individuato con intuizioni trascendentali i processi novecenteschi di secolarizzazione e burocratizzazione, e gli urti semplificatori della vocazione carismatica. In modo complementare, opponendosi alle «procedure» giuridiche di Kelsen, Carl Schmitt aveva configurato la dialettica «amico-nemico», giungendo alla sintesi decisionista e fenomenologica attestata dalla tesi: «Sovrano è chi decide sullo stato d' eccezione» (a sua volta, simmetricamente, vale la pena di soffermarsi sulla inimitabile formula di Hannah Arendt, ovvero «la banalità del male»). E allora, esaurite le famose «ideologie», e perdute anche le radici socialdemocratiche che avevano costituito l' alternativa più efficace al socialismo reale, gli ultimi trent' anni sono stati il campo di tuttologi e tuttologie apparentemente irresistibili, eppure alla fine fallimentari. Quando finisce il keynesismo, c' è pronto il monetarismo; ma quando cade il monetarismo non esiste un altro paradigma collettivo, una tuttologia pronta a sostituirlo. Certo, finiscono in archivio i grandi tuttologi come Martin Laffer, l' economista capace di convincere Ronald Reagan, con la sua celebre «curva a campana», che riducendo le aliquote tributarie il gettito fiscale sarebbe aumentato. E finiscono maluccio anche le super-tesi come quella di Francis Fukuyama, l' autore di La fine della storia, che dopo il trionfo del capitalismo aveva previsto un hegeliano superamento dei conflitti (e invece aveva ragione il democratico eppure realista Samuel Huntington, che nel suo Clash of Civilization evocava il sorgere di guerre «fermentate dal basso», in un disordine mondiale perdurante lungo linee di faglia tribali-culturali). Alla fine, l' estinzione del tuttologo non esime dalla ricerca di una corrente intellettuale che possa offrire indicazioni di sintesi per lo sviluppo della società contemporanea. In Italia ci ha provato Giulio Tremonti, recuperando chissà quanto consapevolmente la distinzione di Tönnies fra Gemeinschaft e Gesellschaft, ossia fra comunità «calda» e società «fredda». Si ritorna così più o meno al primo Novecento, quando la modernità europea comincia a imprimersi sulle forme sociali del secolo. Oggi, occorrerebbero sintesi impressionanti; mentre c' è la sensazione che le idee siano troppo piccole e parziali per investire e controllare il tutto che ci domina.
La Repubblica, 14/11/2009, R2 CULTURA
IL CONTADINO BATTE IL MURO
Dunque Rossana Rossanda ha spiegato che il manifesto ha fatto una robina elegante glissando con una bella capriola, et voilà, sul ventennale della caduta del Muro di Berlino. D' altra parte non è che neppure i tedeschi si siano scalmanati: con le celebrazioni berlinesi, le reti televisive pubbliche hanno fatto ascolti mediocri, rivolti soprattutto alle fasce anziane di spettatori. I giovani sono rimasti indifferenti, forse infastiditi dalla quantità di programmi ripetitivi e dalla noia fisiologica del detto e ripetuto. Sempre le solite immagini di quel tale che picconava. Invece in Germania è andato benissimo, in esatta contemporanea sulla rete commerciale, il format Bauer sucht Frau, ossia "Contadino cerca donna": che forse offre l' idea di un paese meno murale e più rurale, ancora animato da sani appetiti alla bavarese fra stalle e mucche e aromi e signore procaci. Ma poi va tutto bene anche sul piano dei contenuti scientifici e materialistico-dialettici. Come si diceva una volta? La terra ai contadini. Adesso siamo a "la donna al contadino", ma forse il passaggio dal Mauer al Bauer, dal muro al sano bifolco, non dispiacerà del tutto alla pur raffinata Rossanda.
La Repubblica, 09/11/2009, MONDO
LA POLITICA DEL NOTAIO
QUANDO spunta la politica del notaio, l' impressione più chiara è la più semplice: Silvio Berlusconi vuole un impegno scrittoe stringente dei leader del centrodestra e della coalizione di maggioranza sulla riforma della giustizia, e lo pretende per motivi personali. Non c' entrano ragioni sistemiche o di efficienza dell' apparato. L' affannoso intervento sulla giustizia è figlio della caduta del lodo Alfano davanti alla Consulta. Per questo ora il capo del governo ha bisogno di un contratto vincolante con Gianfranco Fini (che però ieri ha detto che non firmerà nulla) e Umberto Bossi, per imbullonare prescrizione, intercettazioni, separazione delle carriere e divisione del Csm: tutto questo per togliersi dai guai giudiziari, a cominciare dal caso Mills; e per risolvere definitivamente il problema, gli occorre un documento e una firma. Le indiscrezioni provenienti da destra dicono infatti che se entro la data del vertice con Fini e Bossi, indicato per mercoledì, non ci saranno le sigle necessarie in calce all' atto notarile, Berlusconi proclamerà la fine della maggioranza, chiedendo il conseguente scioglimento delle Camere, nuove elezioni e guerra finale sul tema della giustizia. Ancora prima che inquietante, la prospettiva è ideologicamente contraddittoria. Il Cavaliere infatti oscilla fra un' idea iperpopulista, in cui il voto degli elettori, il cosiddetto "mandato popolare", è l' unico strumento giocato in politica, in una sorta di unione mistica fra il leader e l' elettorato, strumentalmente mediata volta per volta dai diversi punti del programma. Sotto un altro aspetto invece il capo della destraè indissolubilmente legato a una concezione contrattualee mercantile, dove gli accordi passano sulle scrivanie, finiscono nei cassetti e all' occorrenza possono essere recuperati per denunciare la malafede di chi li ha sottoscritti. Già a suo tempo il Contratto con gli italiani, sottoscritto nel salotto di Bruno Vespa, rappresentava una trovata propagandistica, mutuata alla meno peggio da analoghe esperienze neoconservatrici americane. Tuttavia oggi la politica del notaio contiene implicazioni nuove e pesanti. In primo luogo presenta seri rischi di attriti al vertice dello Stato, perché nessun atto notarile può spazzare via dal tessuto costituzionale la trama che per condurre allo scioglimento del Parlamento coinvolge il ruolo del Quirinale e dei presidenti delle Camere. Ma se gli aspetti in apparenza formali non preoccupano Berlusconi, a cui interessa soltanto la sostanza, e cioè l' obiettivo personale che vuole conseguire, esistono amplissime considerazioni da sviluppare sulla concezione della politica che ha il premier. A questo punto infatti tutti i discorsi sui programmi politici diventano inevitabilmente chiacchiere. La stessa strategia di coalizione, attraverso la politica del notaio, si rivela un disegno non fra alleati ma fra "soci". La trasparenza di un progetto elettorale, la mediazione fra ispirazioni culturali, e gli stessi fisiologici compromessi frutti del negoziato politico empirico, si trasformano in una transazione del tutto opaca. Transazione anche stravagante, visto che la destra gode di una maggioranza numericamente inscalfibile. Eppure così è: sottoscrivendo documenti davanti al notaio, con le carte bollate e i registri, la politica del nostro paese diventa una piramide burocratica al cui vertice c' è il socio primario Silvio Berlusconi, e sotto di lui i soci di minoranza Fini e Bossi. Lo sgarro democratico di una concezione simile, che per certi versi sfiora il ricatto, è indubbio. Sembra profilarsi perfino un esproprio collettivo, ai danni dei cittadini, dell' opposizione parlamentare, degli stessi meccanismi istituzionali e politici. Ma forse è un espediente soprattutto mediocre, esito di una sfiducia verso i membri della propria consorteria e di un' angoscia per il proprio destino personale. Con il risultato già prevedibile che la politica del notaio, trasformati gli alleati in soci, potrebbe alla fine ridurli, con una semplice firma, a complici. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 07/11/2009, R2
RAZZA D’ ANNATA
La pubblicazione degli ultimi due "Meridiani" novecenteschi sul giornalismo italiano potrebbe anche riaprire l' interesse sul ruolo dei giornali e dei giornalisti nella politica contemporanea. In primo luogo sui giornalisti. Vil razza d' annata, con l' apostrofo, fino a pochi giorni fa. Una schiatta più o meno in estinzione. Ma può riaprire anche l' interesse sui giornali, se è vero che perfino un innamorato storico della carta stampata come Giuliano Ferrara riconosce sull' ultimo Panorama che le gazzette non gli piacciono più, e gli procurano noia e fatica ogni mattina (mentre prima aspettava ansiosamente la mazzetta ogni mattina). Ma poi succede che perfino Silvio Berlusconi si adira ed erge il petto contro il Giornale di famiglia, a causa delle tirate di Vittorio Feltri, che gli avrebbero procurato solo danni. E quindi può anche darsi che la vil razza si riveli ancora una volta dannata, senza apostrofo. Per la categoria, una mezza consolazione: forse è sempre la stampa, bellezze.
La Repubblica, 04/11/2009
Perché Pinocchio batte il Grande Fratello
IL GRANDE Fratello arranca mentre la fiction in due puntate su Pinocchio si staglia nel cielo degli ascolti televisivi. Sorpresona mediatica da restarci secchi. Ieri sera, sette milionie mezzo di spettatori per la nuova trasposizione televisiva del romanzo di Collodi; due milioni in meno per la decima edizione del Grande Fratello. Con questo, forse si potrebbero archiviare diverse decine di volumi di teoria e tecnica della tv, con gran dolore di molti critici più o meno antennati. E poi, a mente finalmente sgombra, chiedersi dov' è il mistero. Mistero misterioso, anche perché il nuovo Pinocchio ha avuto il privilegio raro di venire malmenato indiscriminatamente da tutta la critica, per l' appunto: il Grillo parlante Luciana Littizzetto «molto meglio con Fabio Fazio», il pinocchietto Robby Kay giudicato all' unanimità la personificazione dell' antipatia puerile, Margherita Buye Violante Placido fuori ruolo, la regia di Alberto Sironi una schizofrenia. E allora? I tecnici del marketing televisivo proveranno a opporre disperatamente le cifre disaggregate dello share, mostrando il successo del reality condotto da Alessia Marcuzzi fra il pubblico giovanile; ma alla fine della fiera, della fiction e del reality i risultati li fanno i valori medi, e in media Pinocchio batte il Grande Fratello. Quindi il mistero permane e si aggrava. Non siamo più ai tempi eroici della prima televisione a colori e al kolossal di Luigi Comencini, quello con i divi nazionalpopolari e, chissà, gramsciani come Nino Manfredi, Gina Lollobrigida e Franchi e Ingrassia. E neppure siamo dentro le atmosfere del cinema postfelliniano dell' ambizioso Pinocchio di Roberto Benigni. Ci troviamo dentro un format di televisione pura, artificiale, astratta, digitale, che si rivolge a un pubblico sensibile più che altro al colore, catodico o al plasma che sia. In ogni caso, a un pubblico reso passivo dalla narcosi generalista, in cui tutti i Pinocchi sono grigi e legnosi, e anche la palpebra calante degli ascoltatori pre-dormienti fa la sua parte di audience. Ma non bisogna neppure cadere nel razzismo fastidioso del mercato. Se l' antico Collodi sbanca i giovani reclusi della Casa con il piccolo prato verde, devono esistere anche ragioni più profonde di quelle commerciali. Tanto per dire, se si assume che Pinocchioè il mitoe il Grande Fratello è la realtà, almeno nella forma particolare del reality, la vittoria sghemba del burattino di legno equivale al successo dell' immaginazione ottocentesca sulla verità sociologica odierna. Se si vuole, l' affermazione dell' Italia comunitaria di oltre un secolo fa sul paese frammentario dei nostri giorni avventurati. La fuga dal reality, dunque, rappresenta una fuga dal chiacchiericcio quotidiano, dal gossip domestico, dalla società tatuata, dai ragazzi che stanno cambiando sesso, dal consumo sociale della cocaina, dalla sessualità esibita fino a proporre come generale e comune un' estetica da viados. Ci sarà di mezzo anche un impulso difensivo, del genere: santo cielo, non se ne può più. Non ne possiamo più di calciatori e veline, di aspiranti letteronze con plateali ghiandole mammarie e di palestrati dai muscoli spettacolari, e dei loro cloni di quartiere. Ma l' atteggiamento in difesa comporta sempre anche un po' di vergogna. Si fugge dalla realtà perché si teme che il Grande Fratello sia davvero, come si dice con un' espressione abusata, lo specchio dell' Italia contemporanea. E in fondo, rivedendo nel teleschermo come il paese è diventato, è legittimo avvertire un sottile senso di ribrezzo. Senza esagerare, si può ammettere che «questa Italia non ci piace». O perlomeno che il Grande Fratello, come format, può fare schifo. E allora, di fronte a questo sentimento così profondo, scegliere Pinocchio, anche se come film fa pietà.
La Repubblica, 02/11/2009, R2
LE ZUCCHE VUOTE DI HALLOWEEN
Sarà la crisi economica, la disoccupazione, il contraccolpo sulle borse, ma si ha la sensazione che quest' anno la ricorrenza stregonesca e zuccona di Halloween sia precipitata nell' indifferenza generale. Tranne qualche vip svippato come l' ex tennista metanfetaminico e imparruccato Agassi e qualche scalandrata newyorkese con tre seni a vista non si è osservato granché (tranne forse Noemi Letizia mascherata da diavoletta, con i cornetti rossi d' ordinanza). Comunque, niente neurodeliri d' importazione e di massa. Anche il conduttore pluriadultero e forse divorziando David Letterman, in una delle sue conversazioni al suo Late Show, si è lasciato andare: «Vi ricordate quando si andava in giro per interi quartieri a bussare alle porte chiedendo "dolcetto o scherzetto"? Una fatica spaventosa». Conclusione: «Sarebbe bastato investire due centesimi di dollaro per comprare tutti i dolci che volevamo». Nessuno naturalmente piangerà per il tramonto di questa ricorrenza farlocca, e non per il suo contenuto pagano, come si è sempre lamentata la Chiesa cattolica. Ma semplicemente per la soddisfazione di un semplice rilevamento statistico: meno zucche vuote in giro, finalmente.
La Repubblica, 27/10/2009, CULTURA
IL PAPA, REAGAN E GORBACIOV I RICORDI DI NAVARRO-VALLS
Joaquín Navarro-Valls è stato per più di vent' anni il direttore della sala stampa del Vaticano e uno dei principali collaboratori di Karol Wojtyla. Ciò gli ha consentito di essere un osservatore privilegiato; e oggi l' osservatore diviene anche testimone, perché esce in queste ore un volume a sua firma (A passo d' uomo. Ricordi, incontri e riflessioni tra storia e attualità, Mondadori, pagg. 256, euro 18,50), che offre preziose tracce di una storia vissuta in prima persona. Il libro raccoglie gli articoli pubblicati negli ultimi anni su Repubblica, insieme ad altri inediti, ed è sostanzialmente diviso in due blocchi: una prima parte, "Incontri", che descrive in modo suggestivo l' esperienza vissuta in modo diretto durante gli anni del suo incarico a fianco del papa polacco, e il resto del volume, dedicato invece quasi integralmente a riflessioni morali, suggerite dall' attualità sociale e politica, evocate dai temi eticamente più brucianti della nostra epoca. Si può dire quindi che questo libro offre due volti di Navarro-Valls: da un lato il cronista (un cronista tutt' altro che alieno dalla filosofia, per la verità) e dall' altro il saggista che si lascia volentieri sfidare dai maggiori problemi etici della nostra contemporaneità. Nella prefazione del volume, l' autore segnala che se c' è una cifra riconoscibile in tutto il libro è un' attenzione speciale alla dimensione antropologica. Al centro di ogni incontro o di ogni approfondimento c' è infatti la persona: edè per questo chei ritratti della prima parte del libro appaiono particolarmente suggestivi. Navarro-Valls restituisce la concezione, che fu di papa Wojtyla, secondo cui esiste un' Europa che si stende «dall' Atlantico agli Urali»e che ha sofferto sanguinosamente la divisione post-Jalta. La riunificazione del continente non ha soltanto un significato storico e politico, ma anche uno spessore che deve definirsi "umano": l' Europa che vede cadere la cortina di ferro è un' Europa cristiana, l' Europa delle cattedrali, in cui è possibile riproporre il discorso cattolico, cioè universale, del bene comune, rivolto indistintamente a tutti gli uomini. È questa concezione di fondo che consente a Navarro-Valls di unificare i capitoli principali di questa parte del volume, in modo da analizzare i protagonisti del suo racconto attraverso una specifica chiave di lettura. Gorbaciove Reagan diventano sotto questa luce due emblemi di un' epoca e due simboli collocati dentro una concezione generale. Nell' interpretare il profilo di due figure così diversamente eminenti nella nostra storia recente, Navarro-Valls fa emergere anche quella che si potrebbe definire la filosofia politica di Giovanni Paolo II, cioè il suo modo di interpretare la storia non tanto come conflitto possibile ma come l' orizzonte di una potenziale pacificazione. In questo modo, che si tratti della Cuba di Fidel Castro, o della Terra Santa visitata da Wojtyla e da Ratzinger, traspare sempre la volontà non di giustificare, bensì di interpretare e capire, senza parzialità e senza indulgenze anche se con una partecipazione integrale. In modo analogo vengono rappresentate alcune figure del cattolicesimo contemporaneo, a cominciare da Josemaría Escrivá de Balaguer, il fondatore dell' Opus Dei (l' organizzazione a cui Navarro-Valls appartiene), identificato nel suo "buon umore", che man mano si rivela come la fiducia cristiana di poter agire positivamente nel mondo. Ma sono a loro modo rivelatori anche i resoconti dei due incontri di Giovanni Paolo II con suor Lucia, la depositaria del terzo segreto di Fatima, e con Madre Teresa di Calcutta, il cui sorriso viene individuato come l' unicità di un accostamento senza mediazioni al dolore del mondo. Sono due esempi diversi di fede, uno legato indissolubilmente al mistero, l' altro all' esteriorità scandalosa del dolore e dell' amore. Il resto del libro è dedicato ai principali temi filosofici ed etici sollevati dalla cronaca: la bioetica, i temi "non negoziabili", secondo la Chiesa, della vita e della morte; e poi il lavoro, la crisi del capitalismo, la laicità, il rapporto con il mondo animale, il problema ambientale, la posizione dell' uomo nella modernità e nei suoi riti effimeri. Ciò che caratterizza la riflessione di Navarro-Valls è una continua tensione fra la tradizione cattolica e gli strappi aspri della modernità. Colpisce, per esempio, il continuo dialogo con filosofi del passato, non soltanto del Novecento, nella ricerca di un filo che possa unire la sapienza antica con una saggezza utile alla modernità. Nel libro ci sono anche diverse pagine che descrivono il successore di Giovanni Paolo II, Joseph Ratzinger, sia nei suoi aspetti ufficiali sia in quelli più privati. E per certi aspetti spiace che ci sia un certo squilibrio fra il NavarroValls testimone e il saggista. Perché il commentatore dei problemi filosofici, che si appoggia a Carl Schmitt come a Sant' Agostino e al monaco Pier Damiani, è sicuramente interessante e offre un contributo prezioso per capire le posizioni della Chiesa; ma il Navarro-Valls "giornalista", testimone del suo tempo, osservatore delle rivoluzioni di fine Novecento, viste con gli occhi di un grande papa, deve ancora dare molto. E quindi converrà forse aspettare un nuovo libro, un nuovo autentico e meditato reportage che faccia infine i conti tra la filosofia cristiana e la storia, tra il pensiero cattolico e gli avvenimenti talvolta apparentemente indecifrabili che hanno costellato l' arco storico degli ultimi decenni.
La Repubblica, 26/10/2009, LETTERE, COMMENTI & IDEE
Il nono titolo di Valentino il Grande
NON è più un bambino. Non è più un Paperino. Non ha più i capelli ossigenati e gialli. A trent' anni, dopo avere conquistato il nono titolo mondiale, Valentino Rossi, figlio del pilota folle Graziano, sembra avere imparato il mestiere e la strategia dell' adulto. SEGUE A PAGINA 25 ASepang, in Malesia ha fatto una gara da calcolatore, e lo ha ammesso. Il terzo posto gli garantiva il titolo mondiale,e dunque perché rischiare? Dieci anni fa avrebbe messo in pista il tutto per tutto, avrebbe fatto impennate acrobatiche, si sarebbe inventato chissà quale sceneggiata giovanilistica per festeggiare vittoria e titolo. Questa volta ha detto semplicemente: «Gallina vecchia...». C' è un po' di malinconia, nel buon brodo. Non possiamo sapere se quella gallina conserva un' eco,o un coccodè, di quella che il suo eccentrico padre portava al guinzaglio nel centro di Tavullia. Eh, le Marche. Ma qui siamo a un passo dalla Romagna, cioè dai più meridionali fra i settentrionali, il Sud del Nord: e quindi le mattane sono pura normalità.A suo tempo, Valentino non vinceva: stravinceva, e poi inventava colossali sceneggiate, perché aveva capito che da un ragazzino di provincia il grande mondo si aspettava ogni volta un exploit. E lui non ha mai lesinato un "numero". Con la moto, inventando al termine delle gare vittoriose funambolismi da pazzo, e con le magliette, le trovate, i fan travestiti da sette nani, la bambola gonfiabile in bikini, la finta multa "per eccesso di velocità" da parte di una pattuglia di vigili al Mugello, in modo che i mass media potessero immortalarne l' estro, non soltanto la bravura nelle traiettorie. Era stato concepito ed era nato per correre, e non ha tradito il suo corredo genetico. A vederlo in gara è sempre stato un divertimento, perché si sapeva che il Valentino vestito di nuovo avrebbe sempre inventato qualcosa, un sorpasso, un' acrobazia. E quindi gli si perdonava praticamente tutto, compreso l' avere fatto il testimonial per il Cepu, bilanciato dalla laurea honoris causa in Comunicazione all' università di Urbino, perché ogni quindici giorni c' era l' occasione per un divertimento nuovo. Certo che diventare grandi è difficile. Bisogna lasciare alle spalle le storie di famiglia, il divorzio dei genitori, poche settimane fa il suicidio del nuovo compagno della madre, le storiacce da sessanta milioni di euro con l' agenzia delle entrate. Ma a mano a mano che l' età adulta prende il sopravvento risulta anche piacevole ricordare le grandi scommesse del passato, come il passaggio dalla Honda alla Yamaha. Nessuno credeva che fosse conveniente passare da un team vincente a una squadra meno competitiva, e invece fu un piacere straordinario scoprire che il "manico", il pilota, contava più dei motori e delle gomme. Solo che a diventare adulti ci si chiede anche che cosa si farà da grandi. «Vieni in Formula Uno, smettila con quei giocattoli», gli disse il pirata Flavio Briatore. E quindi si è favoleggiato mille volte sulle prove con la Ferrari a Fiorano. Ma alla fine il destino di Valentino è sulle due ruote, dove la moto qualche volta sembra tirata da una fionda, e non importa troppo se pochi millesimi dietro di te corrono scatenati i piloti giovani, Stoner e Lorenzo. Valentino imbocca le curve con la classe di sempre. Se sono le ultime dipende soltanto da lui.
La Repubblica, 26/10/2009, R2
IL RITORNO DEGLI URLATORI
Finora nei migliori talk show serali, quelli dove si dovrebbe parlare di politica o economia, avevamo assistito al trionfo della tecnica dell' Urlatore. Tanto per intenderci, l' Urlatore è generalmente di destra. Il suo metodo è semplice ed efficace: non appena l' ospite di sinistra comincia a parlare, l' Urlatore comincia a urlare, riducendo l' interlocutore alla disperazione. Ormai questa tecnica ha dilagato, e sembra di essere davvero alla fine degli anni Cinquanta: è un dilagare di imitatori di Modugno, Celentano, Dallara, Joe Sentieri, Mina, gli urlatori eccelsi. Ma adesso a destra si è studiata e imparata un' altra tecnica. Quando parla il povero ospite di sinistra, gli ospiti di destra fanno "no no" con la testa: così, quando vengono inquadrati, si vede il loro scetticismo, qualche volta il loro disappunto, perfino il profondo dolore, ovviamente per le menzogne provenienti da sinistra. Sicché dagli anni Cinquantae dagli urlatori siamo passati agli anni Sessanta e all' indimenticabile, per gli aficionados, Michel Polnareff. Mitico! E mitici gli ospiti di destra che lo reinterpretano! Insomma, non è più un talk show: "È una bambolina che fa no no no no". © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 22/10/2009, DIARIO DI REPUBBLICA
PRIMARIE Quando è il confronto a decidere il leader
Secondo le concezioni più futuribili, il Partito democratico doveva essere una entità volatile e "postpolitica", che aveva scelto deliberatamente di uscire dai vincoli organizzativi novecentes c h i : u n p a r t i t o s e n z a territorio, senza tessere, con leader selezionati dai media, e alla base costituito solo dagli elettori. E invece con le primarie di domenica 25 ottobre il Pd offre una dimostrazione di realtà, di radicamento, di mobilitazione. Diecimila seggi, un numero di volontari che si avvicina ai 70 mila:a un partito allo stato gassoso non sarebbe mai riuscito uno sforzo organizzativo simile. Ma ancor prima di questi numeri va rilevato che questa volta ci si trova di fronte a primarie vere, con una competizione autentica fra i candidati. Nelle occasioni precedenti si era trattato di una incoronazione, come nel caso di Romano Prodi alle primarie di coalizione del 2005, che comunque avevano portato ai seggi una folla inaspettata, oltre quattro milioni di sostenitori (che avevano trovato nel voto delle primarie anche una sorta di rivalsa contro l' avvelenamento dei pozzi praticato a fine legislatura dal centrodestra, con l' approvazione unilaterale del "Porcellum", la legge elettorale progettata da Roberto Calderoli). Oppure, come nelle primarie di partito del 2007 che insediarono alla guida del Pd Walter Veltroni, si era trattato di un voto con cui gli elettori di centrosinistra avevano tentato di reagire alle frustrazioni provocate dal governo dell' Unione con le sue divisioni interne. Oggi invece siamo davanti a una prova inedita per la politica nazionale. Il Pd è contendibile. Ci sono tre candidati, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Ignazio Marino, che dopo essere stati votati dagli iscritti ora si sottopongono al giudizio dei cittadini, accettando il rischio del giudizio popolare. In effetti l' esperimento del Pdè insidioso, dato che al livello del ceto dirigente e nelle articolazioni locali mette allo scoperto le diverse componenti del partito, nonché il residuo di culture ancora conflittuali. Ma di riflesso le primarie mettono in luce la differenza abissale fra il Pd e il Popolo della libertà. Nel centrosinistra infatti si assiste a un laboratorio di democrazia diretta, mentre il centrodestra continua a essere legato a una concezione proprietaria e plebiscitaria. Nel Pdl, nessuno può mettere apertamente in discussione la leadership di Silvio Berlusconi; inoltre non esistono procedure che selezionino per via democratica il ceto dirigente. Nel partito del Cavaliere la politica si riassume nella cooptazione e nel meeting, cioè in scelte personalistiche e in assemblee che ratificano fra musica e ovazioni i proclami berlusconiani. Si può certamente criticare la complessità bizantina dello statuto del Pd, soprattutto nella parte che mette in possibile contrasto il voto "interno" dei tesserati con il voto "aperto" delle primarie. Che cosa accadrebbe se nelle primarie il vincitore annunciato Bersani venisse scavalcato da Franceschini? Questa contrapposizione potenziale potrebbe essere fonte di attriti insostenibili per un partito alle prime prove, le cui diverse anime tentano faticosamente di fondersi in un corpo nuovo. Tuttavia, auspicate tutte le correzioni possibili, non si può fare a meno di notare che il voto popolare ha una funzione chiara, quella di smontare le cordate organizzate, togliendo di mezzo i sospetti che si sono addensati soprattutto su alcune aree territoriali del Sud, dove l' abitudine al traffico dei pacchetti di tessere a vantaggio di questo o quel candidato non è mai venuta meno. In secondo luogo le primarie "aperte" dovrebbero rappresentare un contributo al cosiddetto "rimescolamento". Uno dei problemi costitutivi del Pd infatti è costituito dal persistere di blocchi politici legati al passato: cattolici, laici, ambientalisti, socialdemocratici. Con ogni probabilità, per rimescolare le carte (e le appartenenze) non è stata sufficiente l' adesione alla mozione Bersani di esponenti cattolici come Enrico Letta, Rosy Bindi e Marco Follini (così come il sostegno al cattolico Franceschini giunto da ex comunisti di spessore, vedi Piero Fassino e Sergio Cofferati): questi sono endorsement che riguardano in special modo la classe dirigente del partito e semmai si riflettono a cascata negli apparati politico-burocratici nazionali e locali. Invece il voto di massa, scarsamente influenzato da valutazioni tattiche, contiene chiari elementi di immediatezza politica, se non proprio di emotività, che lo rende più "sincero", e quindi meno influenzato da calcoli opportunistici. Proprio per questo è lecito augurarsi che le primarie del Pd registrino una partecipazione alta, oltreché un risultato netto. Perché dalla partecipazione e dal risultato dipenderà la fisionomia del maggiore partito di opposizione, e nel medio periodo la sua potenzialità alternativa rispetto allo strapotere berlusconiano. Cioè è in gioco un fattore essenziale per la qualità della nostra democrazia. Il livello della partecipazione sarà essenziale anche per dissolvere il fumus di diffidenze e scetticismi sollevato per mesi da oppositori esterni e interni. È vero che le mozioni congressuali non hanno suscitato entusiasmo, e la discussione pubblica dei candidati è apparsa spesso autoreferenziale. Ma a questo punto il successo delle primarie è un elemento strutturale per il nostro sistema democratico: quasi quasi, in questa occasione conta più il meccanismo che il risultato.
La Repubblica, 22/10/2009
L’ ANTIPOLITICA DEL RANCORE
NEL social network Facebook, il gruppo "Uccidiamo Berlusconi", inaugurato nel settembre del 2008, è ancora attivo. Ieri sera alle 20 contava 12.333 iscritti; dopo poco più di un' ora se n' erano iscritti altri 600. Secondo l' «amministratore» del gruppo, si tratta di una iniziativa goliardica, che pubblica «affermazioni bizzarre». In realtà, basta scorrere i messaggi "postati" dagli iscritti per capire che è un catalogo di odio.Succede, nella Rete. Il web consente l' anonimato, e con l' anonimato il manifestarsi gratuito delle pulsioni più elementari e scandalose. Un incidente serio era già accaduto qualche giorno fa, allorché un giovane impegnato nel Pd di Vignola si era chiesto perché nessuno assoldasse un killer per togliere di mezzo il capo del governo. Adesso, la scoperta che 12 mila sciagurati si sono iscritti a un gruppo intitolato all' uccisione del premier peggiora gravemente la situazione. Perché è l' espressione collettiva di un' avversione totale, senza scampo, irriflessa: una specie di autismo espressivo, l' indizio di una malattia psicologica priva di antidoti culturali. Barbarie, insomma. Barbarie modernissima e arcaica insieme, come se tra i frequentatori del web, cioè nella parte più aggiornata della società italiana, allignasse un virus capace di spegnere l' intelligenza e di liberare gli istinti più insidiosi. Certo, basta un clic, cioè un gesto quasi automatico, per aderire ai gruppi d' interesse più inquietanti. Si può anche immaginare che, presi uno per uno, gli iscritti al gruppo "Uccidiamo Berlusconi" giustificherebbero facilmente e scioccamente la loro iscrizione e i messaggi inviati, magari con un' alzata di spalle: leggerezze senza importanza. Tanto è vero che su Facebook ci sono circa 500 siti con un titolo che comincia con "Uccidiamo...". E che nel frattempo è stato fondato un altro gruppo, simmetrico, intitolato "Uccidiamo chi vuole uccidere Berlusconi". Questioni di revanscismo. Ma si può anche legittimamente pensare che alcuni individui, fra le migliaia di antiberlusconiani iscritti al gruppo, siano davvero convinti che la politica italiana possa cambiare soltanto con un colpo violento. Oppure che, più semplicemente, affidino a una violenza figurata la loro frustrazione politica: «Un anonimo autocarro alle quattro di mattina, il prelievo, e poi nulla», come in un film di spionaggio, come i rapimenti e le vendette in un regime dittatoriale. Tutto questo ha effetti penosi sul clima politico, e non soltanto perché consente alla destra più animosa di alimentare polemiche che ogni volta alludono a una presunta simpatia della sinistra verso gli estremismi; ma perché contribuisce in primo luogo ad alimentare un clima di avversione di cui per molte stagioni proprio la sinistra («i comunisti») è stata ed è il bersaglio principale. Non è facile oggi, anzi è praticamente impossibile, immaginare atti reali di violenza politica ai danni di Berlusconi o altri uomini di governo. Anche il vecchio episodio del treppiede scagliato contro il Cavaliere, qualcuno lo ricorderà, apparteneva al genere degli atti folli quanto innocui. Ma le espressioni più o meno goliardiche, più o meno bizzarre, si collocano inevitabilmente a fianco delle lettere minatorie firmate da sigle terroristiche minacciose quanto sconosciute, e danno il loro contributo a illividire l' atmosfera politica. Seè possibile, tuttavia, "Uccidiamo Berlusconi" ha un significato profondo ancora più disarmante, in quanto testimonia una specie di abdicazione dalla politica. Certo minoritaria, legata a ispirazioni dettate dalla solitudine rancorosa della Rete, e tuttavia a suo modo significativa. Perché rappresenta una rinuncia implicita ai metodi e alle procedure della politica, come se fossero inutili.È una specie di antipolitica rovesciata, che mostra un profilo speculare all' antipolitica stessa, di cui Berlusconi è stato un maestro. E che sicuramente si sottrae al perimetro delle convenzioni che regolano la polis. Sembra quasi di assistere a una secessione silenziosa, a un esodo muto e rancoroso, accompagnato da una scia di risentimenti che si sottraggono a ogni norma politica e a ogni codice di civiltà. Probabilmente è in questa rinuncia, in questa secessione irresponsabile, il messaggio più preoccupante che proviene silenziosamente del web. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 19/10/2009, R2
POLITICI LOMBROSIANI
Oggi cade il centenario della morte di Cesare Lombroso, e sarebbe opportuno che le celebrazioni fossero adeguate. Per chi l' avesse dimenticato, il positivista Lombroso sostenne nel suo libro L' uomo delinquente una tesi affascinante e visionaria, secondo cui i criminali soffrono di una malformazione congenita, frutto di una regressione del processo evolutivo, riscontrabile nel cranio. In sostanza, il delinquente si può riconoscere dal volto. Facce mostruose, profili criminali, fisionomie inquietanti: ecco che è entrata nel lessico comune l' espressione "criminale lombrosiano". D' altra parte, scagli la prima pietra chi non ha mai avuto la tentazione di giudicare un uomo o una donna in base al suo aspetto fisico. Perfino una personalità di alto galateo come il cavalier Berlusconi non ha resistito alla tentazione di commentare il lato estetico della nostra Angela Merkel, Rosy Bindi. E allora anche noi dobbiamo confessare: siamo continuamente tentati di applicare criteri lombrosiani all' aspetto dei protagonisti della politica, specialmente di destra. Tuttavia chiederemmo indulgenza, proprio nel nome di Lombroso: si vedono certe facce, in giro.
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