La Repubblica
La Repubblica, 29/12/2009, R2 SPETTACOLI & TELEVISIONE
IL FASCINO IMMORTALE DELLA SORPRESA CHE NON HA TEMPO E NON HA ETÀ
Il cinema, a quanto pare, non muore mai. Non vuole saperne, di scomparire. E dire che per infilarsi in una sala cinematografica ci vuole un buona volontà quasi infinita: mettersi in macchina, trovare un parcheggio, imbroccare l' orario d' inizio, pagare il biglietto. E pensare che si starebbe così bene a casa, davanti a uno schermo televisivo da 52 pollici. Invece il fascino della vecchia, o nuova, sala buia è ancora inesorabile. Irresistibile. Perché ci si ritrova in una comunità casuale, selezionati da affinità elettive sconosciute, in cui si celebra un rito novecentesco, roba del secolo scorso: e ogni volta, evidentemente, è un tuffo nel passato, forse nella nostalgia, sicuramente in un' oscurità promettente, in un' attesa. Si è sempre detto che il buio del cinema assomiglia a una realtà uterina; calda, comunitaria, in cui si sta sempre a contatto di gomito. Forse era vero una volta: adesso il cinema è un' esperienza moderna, comoda, lineare. Al massimo si possono rimpiangere gli antichi cinema sterminati, dalla conformazione teatrale, sipario compreso. Mentre ora vincono la tecnologiae il design anche nello stile. Ci si accomoda, senza più dover conquistare un posto: mentre una volta occorreva magari sedersi sui gradini e sopportare scomodità inaudite. E allora: questione di psicologia, questione di tecnica e di eleganza. Questione di modernità, volendo. La liturgia cinematografica, così passatista, si rivela all' improvviso un lampo di presente. Una cerimonia pubblica che sembrava appartenere solo ai cicli della memoria diventa ogni volta un piccolo e grande choc cognitivo, che si spalanca all' improvviso nel colore. Per questo il cinema non scompare: perché ogni volta è una sorpresa. E le sorprese non hanno né tempo né età.
La Repubblica, 21/12/2009, LETTERE, COMMENTI & IDEE
LO SPOT DEL CAVALIERE
GLI ultimi sondaggi sembrano attestare una significativa crescita di consenso di Silvio Berlusconi dopo l' aggressione di Piazza del Duomo (l' indice sarebbe cresciuto di sei-sette punti).I numeri sono la prova provata del successo propagandistico ottenuto dalla campagna del Pdl. In sintesi, secondo Fabrizio Cicchitto e soci: i nemici del Cavaliere hanno creato un clima di odio, e in questa atmosfera livida siè scatenata la violenza di Massimo Tartaglia. Uno «psicolabile», che però ha riassunto nel suo gesto l' avversione antropologica verso il premier, un sentimento che secondo il sondaggista Renato Mannheimer accomuna il 20-25 per cento del centrosinistra. L' aspetto pubblicitario di questo argomentoè stato immediatamente raccolto ieri nella telefonata del premier ai giovani del Pdl radunati a Verona. Il ragionamento di Berlusconi è stato di una semplicità assoluta. Quando si racconta che il capo del governo non soltanto frequenta minorenni (e prostitute), ma viene additato anche come corruttore, mafioso e stragista, non c' è da stupirsi se certe menti deboli si fanno prendere la mano. Fin qui l' inversione dei fatti e delle responsabilità è vistosa. Le accuse, o almeno le critiche, a Berlusconi non derivano da un «cervello unico della sinistra»; a parlare di minorenni è stata Veronica Lario; di escort un' inchiesta giudiziaria barese; di corruzione di testimoni (il caso Mills) la sentenza di un tribunale, di mafia un pentito nel corso di un processo regolarmente istruito. Ma ignorare la realtà è una delle migliori specializzazioni del Pdl. Di fronte a ogni contestazione sui fatti, in base a notizie circostanziate, i portavoce della destra rispondono strillando contro i fomentatori di odio e i celebri mandanti morali. Quando in realtà, di fronte a ciò che dicono, che so, Marco Travaglioo Antonio Di Pietro, si tratterebbe solo di capire se è vero o se è falso. Al di là della loro aggressività possono essere smentiti o no? Da parte dei «combattenti» della destra, come Maurizio Lupi e Fabrizio Cicchitto, non si è mai ascoltata una contestazione seria su fatti ed episodi concreti. In questo modo la retorica nazionale sull' odio è diventata un dato di fatto, una specie di incontestata realtà ambientale. E Berlusconi, che ha fabbricato una carriera politica proprio dividendo in due la società italiana e separando i nemici, «i comunisti», dai cittadini per bene, oggi può consentirsi di fare il benevolo padre della patria, augurandosi che «da un male nasca un bene» e che l' odio svanisca dalla politica. Sarebbe tuttavia un fraintendimento, e grave, pensare che il premier sia cambiato. E che sia cambiata la sua concezione della politica. Veroè che dalla convalescenza di Arcore sfoggia formule di tolleranza volterriana («Da quest' ultima esperienza dobbiamo essere ancora più convinti di quanto abbiamo praticato fino ad oggie cioè che sia giusto il nostro modo di considerare gli avversari come persone che la pensano in modo diverso da noi, ma che hanno il diritto di dire tutto ciò che pensano, che noi dobbiamo difenderli per far sì che lo possano dire e che non sono nemici o persone da combattere in ogni modo, ma sono persone da rispettare. Lo facciamo noi con gli altri e ci piacerebbe che lo facessero gli altri nei nostri confronti»). Tuttavia queste sono parole. Dietro ci sono le idee. E le idee di Berlusconi sulla democrazia liberale sono a dir poco singolari. Perché il premier e i suoi uomini sono convinti di poter imporre la loro agenda politica anche all' opposizione. Sarebbe utile formulare un programma di riforme istituzionali per rendere più efficiente lo Stato e più giusta la giustizia? Già, ma per avviare un riforma condivisa il Pd faccia il piacere di liberarsi dall' alleato più ingombrante e vocale, cioè Antonio Di Pietro, ormai demonizzato senza pietà come un eversore. E Pier Luigi Bersani si tolga dai piedi le ultime cianfrusaglie movimentiste, rinunci alle idee «socialiste», e se è il caso abbandoni al loro destino anche gli esponenti più combattivi, i «bolscevichi bianchi» irriducibili al «consenso organizzato» (di brezneviana memoria) come la pasionaria Rosy Bindi. A suo modo la concezione di Berlusconi è talentuosa, anche se lontana da ogni concezione moderna della democrazia. Il premier sta rivelando ciò che ha sempre pensato, nella sua ormai lunga carriera pubblica. La politica è unica, senza distinzioni fra maggioranza e minoranze. Senza articolazioni culturali, ideologiche e neppure organizzative. Si tratta semplicemente di annettere per corporazioni, o per «caste», i blocchi politici dell' intero spettro rappresentativo. Il resto viene di conseguenza: riforme concesse dall' alto, come le costituzioni nell' Ottocento, per ritagliare giochi di ruolo da attribuire a partiti-simulacro. Una società d' ordini come nell' ancien régime. Retorica epocale su federalismi e autonomie, in modo da nascondere la realtà del comando unificato e dell' opposizione ridotta a flebile strumento di sua Maestà. Una Costituzione aziendale per assecondare il decisionismo post-democratico. E sullo sfondo, insieme con il perdono di Stato per il premier-sovrano da attuare con leggina ad personam, o con inciucio kolossal, ecco infine l' immagine che incombe sul sistema democratico: quella del «partito unico», approvato con elevati sondaggi e un senso di liberazione dall' odio dalla democraticissima e disincantata Italia contemporanea.
La Repubblica, 19/12/2009, R2
Cosa resterà degli ANNI ZERO
Confesso. Mi arrendo senza condizioni. Ammetto che non appena qualcuno accenna alla top ten delle preferenze, musicali, cinematografiche o letterarie, un velo oscuro precipita nella mia mente. Non ricordo nulla. Degli ultimi dieci anni, poi. Buio assoluto sugli Anni Zero (oppure anche zero assoluto sugli anni del buio). Mi sembra che niente degli ultimi anni possa essere ricordato. E quindi c' è da essere grati alla giuria di Repubblica per essere riuscita a comporre una specie di "canone occidentale" dell' intrattenimento. Materia alta e materia bassa, come è giusto. Perché ogni scelta è una specie di dramma cognitivo, qualsiasi esclusione fa male alla coscienza, ogni inclusione si misura con altre che avrebbero meritato sorte analoga. Ma poi c' è anche il piacere intrinseco a ogni compilazione di graduatorie. Decidere per esempio se premiare Il divo o Gomorra. Due film "civili", due ritratti della storia italiana identificata in tutte le sue asprezze, e anche nelle sue disperazioni. Più politico, il film su Andreotti, più radicalmente sociale l' hard movie tratto dal romanzo choc di Roberto Saviano. Ma entrambi testimoniano di un' Italia che si muove sul crinale dell' illegalità politica e di una normale, ordinaria criminalità quotidiana. Il post-neorealismo di questa cinematografia così spietata non è neppure una denuncia: sembra piuttosto la presa d' atto di un' abdicazione. Di fronte a film come quelli di Sorrentino e Garrone è più difficile del previsto trovare riferimenti nei film del passato. Forse nell' opera di Elio Petri, nei profili lividi e negli autunni caldissimi di La classe operaia va in paradiso, forse nelle ricostruzioni storiche di Francesco Rosi ( Il caso Mattei ). E sul piano internazionale non può allora sorprendere la prima posizione del film di George Clooney Good night and good luck, un' altra opera d' impegno, tradizionale nell' impianto narrativo eppure coinvolgente nel suo intento didascalico. Anche se naturalmente il postmoderno Parla con me di Almodóvar possiede ben altra visionarietà, e Non è un paese per vecchi, tratto dai fratelli Coen dal romanzo di Cormack McCarthy, contiene dilemmi etici così forti da segnare l' intera curvatura narrativa del film (così come anche in Gran Torino del quasi ottantenne Clint Eastwood, che riesce a contemplare il formarsi di una società multietnica con la curiosità di chi non ha più nulla da perdere, se non la sua stupenda Ford degli anni Settanta). Può darsi comunque che con le opere di cinematografia l' aspetto programmatico sia più facile da cogliere; mentre è nella narrativa e nella letteratura che le cose si fanno più complicate. Innanzitutto, visto che di nuovo in vetta alle preferenze nella narrativa spopola Gomorra, si può individuare uno schema nuovo, nella forma letteraria italiana? Il libro di Saviano infatti è un metaromanzo, e interpreta il tentativo di raccontare la realtà della camorra e della criminalità organizzata attraverso moduli non soltanto documentari bensì esplicitamente narrativi. Il risultato è stato clamoroso, dal punto di vista delle vendite e del successo fra i lettori. E allora, che cosa si può concludere? Che si tratti di fiction o di denuncia? Non solo: tanto vale soffermarsi per qualche istante su un altro libro decisamente anomalo e imperdibile, La vita bassa di Alberto Arbasino: un "non saggio" che illustra l' Italia di oggi nei suoi vizi antropologici e nelle sue superstizioni lessicali, cercando in ogni espressione l' indizio di un conformismo (e trovandolo, com' è ovvio). Oppure si potrebbe e dovrebbe mettere a fuoco il romanzo-verità, come si sarebbe detto una volta, di Walter Siti, Il contagio. Qualcosa a metà fra il reportage e l' interpretazione sociologica: un racconto duramente pasoliniano, in cui le periferie romane vengono descritte nella loro spettrale fenomenologia. Nelle borgate infatti non ci sono poveri. Ci sono ricchi estemporanei; e ci sono i miserabili. Consumo esasperato e nello stesso tempo "normale" di sesso e cocaina compongono un mercato in cui si entra facilmente, pagando poi prezzi estremi. Bastava leggere il libro di Siti per capire che Francesco Rutelli avrebbe perso, e male, le elezioni comunali (Veltroni poteva governare l' immaginario, Rutelli muoveva solo poteri). E induce a riflessioni anche queste sociologiche anche l' irruzione della realtà dentro la narrativa, come avviene nel libro di Ammaniti Io non ho paura, e ancora nella splendida ricostruzione di Antonio Franchini L' abusivo, dedicata alla morte per omicidio del giornalista napoletano Giancarlo Siani, cronista del Mattino ucciso dalla camorra. Dopo di che, si è autorizzati a passare al lato più ludico, ossia alla musica. Tuttavia anche in questo caso ci si accorge facilmente che non ci si limita a farsi prendere dalle spirali ipnotiche di Kid A dei Radiohead, oppure dal neobarocco di Anthony and the Johnsons, con la sua voce morbida e irripetibile. Anche guardando al mercato italiano, si nota che in diversi casi c' è anche qui un' irruzione di realtà. Succede con le canzoni dei Baustelle, in cui il leader Francesco Bianconi non rinuncia mai a inserire nei testi un contenuto forte, dal suicidio con il gas all' uso indiscriminato dell' ecstasy, nel contesto di un uso consumistico anche della morte e della dissipazione fisica. Mentre per restare sul sicuro ci si può affidare ai cantautori italiani vecchi e nuovi, da Fossati a Caparezza e Capossela. Come si vede, le classifiche selezionate dalla giuria di Repubblica non lasciano scampo agli esclusi. Chi c' è c' è. Quelli rimasti fuori rappresentano la galassia grigia delle preferenze minori. Tutte legittime, ma non di mainstream. D' altronde, che piacere ci sarebbe nel compilare classifiche se non fosse implicito il gioco crudele delle esclusioni? Alla fine, rimangono le scelte, più o meno arbitrarie, ma consolidate dal tempo e dal "piacere del testo". Come in una lezione di metodo di Roland Barthes, rimangono cinquanta "oggetti", simulacri di una cultura, che si possono analizzare, con odio o con affetto, come totem degli anni Duemila. Teniamoli nel cassetto, in attesa dei prossimi dieci anni.
La Repubblica, 12/12/2009, R2 CULTURA
UN LIBRO CANCELLA I FALSI MITI DELLE DIETE
Come bambini abbiamo creduto a tutte le prescrizioni alimentari che ci sono state propinate nei decenni. Siamo stati vittime di un infantilismo dietetico che ci ha consegnato alle superstizioni più indimostrabili. Adesso però abbiamo il libro antidoto, In difesa del cibo di Michael Pollan (Adelphi). Innanzitutto, è promettente che a occuparsi delle mitologie dell' alimentazione sia un editore che sul mito ha costruito un catalogo. In secondo luogo, il saggio di Pollan è un magnifico esempio di disincanto. Anzi, di laicità alimentare. Se si vuole, anche di dissacrazione. Insegna a diffidare delle diete ipolipidiche, a guardare con legittimo sospetto alla dieta mediterranea, a considerare con simpatia i valori del colesterolo, e a giudicare con animo scevro da pregiudizi le abitudini gastronomiche demonizzate dai nutrizionisti. L' unico comandamento è di mangiare bene. Evitare i falsi cibi all' americana, quelli che fanno diventare obesi senza aggiungere al corpo un filo di trigliceridi e che della sostanza commestibile «hanno solo la parvenza». Quindi: «Se davvero vi sta a cuore la vostra salute, evitate i prodotti che si dichiarano salutari». I bambini e i rimbambiti delle diete questa volta ringraziano. Di cuore. E di pancia.
La Repubblica, 11/12/2009, R2 CULTURA
Le canzoni del cuore l’ ultimo bene rifugio
Per i doni conviene affidarsi al penultimo paradigma. Non alla tecnologia più avanzata, fra palmari, laptop et similia, che fa tanto refugium peccatorum dell' ultimo istante, quando la fantasia latita e i media-store stanno per chiudere. Meglio un libro, un cd, un dvd. Evitare il Blu-Ray, data la carenza di dispositivi di lettura. C' è anche un piacere sottile nel cercare depositi di conoscenza consegnati a supporti già superati dalla modernità: addirittura la carta, il disco argentato. Piacere che diventa rarefatto e concreto nello stesso tempo allorché il libro, ad esempio, si rivela un patrimonio di sapienze tradizionali, come nel caso di Massimo Montanari, Il riposo della polpetta (Laterza), repertorio di consuetudini alimentari dal Medioevo in qua, fino all' Artusi e oltre; e ancor più il portentoso Misticanze di Gian Luigi Beccaria (Garzanti), sterminato catalogo letterario e linguistico dei cibi e vini italiani, regione per regione, cultura per cultura, variante per variante. In sostanza, grazie ai vecchi supporti si va alla ricerca del nostro tempo perduto, cioè di colori, sapori e suoni di cui altrimenti perderemmo le tracce. Un film di cui ricordiamo soltanto qualche immagine, un disco di canzoni rimasterizzate, un volume di curiosità rare e preziose. Sempre con l' idea che poi non è proprio necessario rileggere o riascoltare tutto. Il regalo ha un valore anche documentario: si può riporre in un cassetto, e poi magari contemplarlo quando lo si ritrova, anche per caso. Con un effetto di rassicurazione psicologica inconfondibile: ecco l' oggetto ritrovato, la sacrosanta reliquia del passato. Non c' è bisogno di riascoltare i Beatles in mono, e nemmeno di rivedere l' opera omnia di Ingmar Bergman. Basta sapere che sono lì, a disposizione, per quando verrà voglia di rivedere, rileggere, riascoltare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 05/12/2009, R2 CULT
LA FEDE TRA LE RIGHE
Uno sguardo alle classifiche dei libri riserva sorprese. Per esempio, nella saggistica c' è una forte presenza di volumi ispirati al cattolicesimo e alla fede. E non solo per il libro conversione di Paolo Brosio, folgorato da un raggio di stelle sulla via di Medjugorje: ecco l' enciclica ratzingeriana Caritas in veritate, le Meditazioni sulla preghiera del cardinal Martini, la Lettera di Natale alle famiglie di Dionigi Tettamanzi ( Anch' io ho qualcosa da dirti Signore; e il prelato milanese è presente anche con una lettera natalizia ai bambini, Tu scendi dalle stelle ). Volendo si può aggiungere il saggio sulla libertà La vita autentica, del teologo Vito Mancuso, e sul lato pop La grande storia di Gesù, di Sandro Mayer e Osvaldo Orlandini (lasciamo perdere Vaticano Spa di Gianluigi Nuzzi, che su altre opere di religione si applica). Ma anche nella narrativa c' è un lato "cattolico" nel romanzo di Alessandro Baricco, Emmaus. Fra i tascabili continua il suo successo dissacratorio l' Inchiesta sul cristianesimo di Corrado Augias e Remo Cacitti. Si dice che l' Italia sia un paese scristianizzato. Ma evidentemente nello spirito nazionale c' è voglia di un suono lontano e vicino di campane. Din don!
La Repubblica, 03/12/2009, R2 CULTURA
La fabbrica del volo Il "non scrittore" che batte Dan Brown
NELL' ULTIMO weekend il romanzo di Fabio Volo Il tempo che vorrei, ha venduto più di tre volte del Simbolo perduto di Dan Brown. Guerra totale di bestseller in casa Mondadori. Non ce n' è per nessuno, nelle graduatorie, né per le Donne di cuori di Bruno Vespa né per Ammaniti, De Luca o Camilleri. In sé e per sé il successo di Volo è spiegabile storicamente soltanto su base empirica. Le classifiche sono classifiche. I tabulati sono tabulati. L' ex Iena, partner di Simona Ventura, ha accumulato negli ultimi sette anni centinaia di migliaia di copie di vendita. Il giorno in più, il suo libro precedente (2007) era arrivato al milione, comprendendo la pubblicazione in paperback e le edizioni Club del libro. Tutti gli altri volumi, fra le 650e le 800 mila copie. Una decina di traduzioni all' estero, Spagna, Germania, Russia, Francia, comprese anche Turchia e Albania, più altre annunciate per la prossima primavera. Più fenomeno di così si muore. Spiegabile, inspiegabile, impagabile, invidiabile. Trentasette anni, bergamasco di nascita e bresciano di elezione, ex panettiere ed ex barista, insidiosa calvizie incipiente, barba cortae compensativa: «Sono un non scrittore», si autodefinisce. «Sfogo in ogni modo una sorta di creatività, una ricerca di equilibrio, un bisogno di benessere». Aldo Grasso ha detto di lui che qualsiasi cosa faccia « se sent la vanga, la provincia che avanza». Se è per questo Fabio Volo è stato anche un non cantante, un non presentatore, un non attore, un non protagonista televisivo: «Non sono originale, ma sono autentico, senza filtri». Facinoroso successo su Radio Deejay, con il personaggio di Zia Leti. Partecipazioni con discrete critiche a film come Manuale d' amore 2 di Giovanni Veronesi e Bianco e nero di Cristina Comencini, con Ambra Angiolini. In passato, una serie di successi dance cantati in italiano per il mercato europeo, perché qualcosa per campare si deve fare, fino a quando Claudio Cecchetto non lo porta a Radio Capital. Non è neppure un Moccia, non cammina tre metri sopra il cielo, non è oracolar-sentimentale. Sembrerebbe piuttosto uno baciato da una sorte glocal, dal genio della provincia abissale che entra nell' economia mondo, dotato di un carisma indefinibile ma che si sovrappone con immediatezza al gusto del pubblico. Fra chi lo frequenta, il giudizio è semplificatorio: «Piace alle donne perché le fa ridere». Le rassicura. E gli uomini? Mistero glorioso, come tutti i carismi autentici. Come non scrittore ha avuto l' audacia di mettere in exergo a Il tempo che vorrei una citazione di Cortázar e una di Borges («Ho commesso il peggiore dei peccati che possa commettere un uomo. Non sono stato felice»). E poi di esordire così: «Sono nato in una famiglia povera. Se dovessi riassumere in poche parole che cosa significhi per me essere povero, direi cheè come vivere in un corpo senza braccia davanti a una tavola apparecchiata». Si potrebbe facilmente parlare di trash letterario o di grado zero della scrittura, se non fosse che invece funziona alla perfezione un "effetto specchio" verso il pubblico: qualsiasi lettore, completato il romanzo di Fabio Volo, si convince che quel libro avrebbe potuto scriverlo lui, provando le stesse sensazioni, avendo letto gli stessi libri, visti gli stessi film, amate più o meno le stesse donne, combattuto battaglie maschili con gli stessi amici della sera. Con qualche incursione nell' immaginario soul meno prevedibile: «"I' ll trade all my tomorrows for a single yesterday..." cambierei tutti i miei domani per un solo ieri, come canta Janis Joplin». O per rifugiarsi in menù da cena perfetta, secondo la penultima moda della seduzionea sfondo gastronomico: «insalata, riso basmati e un' orata nel forno, con patate e pomodorini Pachino». Il suo romanzo è diviso sostanzialmente in tre parti. Uno, la vita erotica del protagonista, Lorenzo. Due, la sua vita di lavoro. Tre, il ricordo della vita famigliare, con il padre infilato ogni volta in iniziative commerciali fallimentari, bar troppo costosi, cambiali nel cassetto, creditori alle porte, e sempre in attesa di un responso su una malattia grave, un adenocarcinoma, ma forse operabile; non ci dovrebbe essere dramma nell' universo di Fabio Volo. Sotto l' aspetto sentimentale, ogni capitolo riporta un amplesso, una sessualità acrobatica, un cunnilinctus, un profumo intimo, un orgasmo o due o tre. Con alcune ossessioni sulle donne, eccitate dalle teorie ormonali degli amici: «Ma che cazzo ne sai tu di queste cose? Ma poi che cos' è il progesterone? Un animale preistorico che vive nelle caverne?». Con teorie maschiliste enunciate lì per lì nelle conversazioni dettate dalle consuetudini virili: «Per noi uomini è più facile. Tra uomini la domanda è: "L' hai scopata?". Tra donne, invece: "Ma secondo te ti richiama?». E poi aforismi a iosa, «L' amore è come la morte: non si sa quando ci colpirà». Scene di ordinaria vita quotidiana e di fastidi reciproci con la morosa: «Il rumore che faceva quando deglutiva. Al mattino quando aveva freddo e tirava su con il naso. Quando lasciava aperto il frigorifero. Quando masticava le fette biscottate. Quando con il dito pigiava le briciole a tavola e poi infilarsele in bocca...». Naturale che poi lei sposa un altro, anche se come in una canzone di Lucio Battisti viene da lui al mattino per un' ultima inferocita sessione d' amore. Mentre lui nel frattempo è diventato un genio della pubblicità e ha creduto di poter leggere l' Ulisse di Joyce «perché ritenevo che, avendo studiato l' Odissea alle medie, sarei partito avvantaggiato» (poi il suo mentore lo fa ripiegare su On the Road di Kerouac «L' ho letto in due giorni e quando ho incontrato Roberto gli ho detto: "Ma questo nonè un libro, questa è vita"»). Pura vitalità anche l' esistenza al limite di Fabio Volo? «Vado a Barcellona come a New York perché l' Italia mi sembra un paese immobile: politici vecchi, telespettatori vecchi, imprenditori vecchi. È più facile diventare una rockstar che aprire un' impresina». Ecco forse il segreto. Fabio Volo, da pronunciare e scrivere sempre con nome e cognome: uno qualunque. Il volto, di uno qualunque. Il talento, di uno qualunque. Lo stile, idem. E il suo libro, il manifesto inesorabile dell' Italia qualunque.
La Repubblica, 28/11/2009, R2 CULTURA
VITA ISTRUZIONI PER L’USO
lle spalle ci sono gli antichi manuali Hoepli, patrimonio tecnico dell' italianità, e la linea dei Bignami, ovvero il fai-da-te dei vecchi ripetenti. Per risalire nel tempo, le Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick, testo base della depressione modernizzante. E lo One minute manager, "cult handbook" degli anni Ottanta, fase decisionista. Alla fine le consolazioni seriali dello shopping romanzato secondo la Kinsella. Ma adesso il manuale è cambiato. Non nasconde l' idea di trasformare, insieme con le abilità, le competenze, gli skills dei lettori, la loro stessa vita. I nuovi manuali occorre accettarli integralmente: trovarci dentro il messaggio che risolve il problema. Come esprimersi, come guardare se stessi, soprattutto come accettarsi. Non si spiegherebbe, altrimenti, il perdurante successo di Allen Carr, da due anni nelle classifiche italiane con È facile smettere di fumare (se sai come farlo) (pubblicato da Ewi), undici milioni di copie nel mondo (Carr è anche autore di manuali sul controllo dell' alcol e del peso). l segreto del manuale di successo consiste nella sfasatura fra gli obiettivi proposti e i risultati conseguibili, in una specie di continuo deficit psicologico rispetto agli scopi programmati. E in effetti gran parte dei manuali presenti sul mercato non nascondono l' idea di agire su mente, psiche o almeno mentalità dei lettori, proponendo un metodo rispetto al caos quotidiano. Le grandi narrazioni storiche e ideologiche sono esaurite, e quindi tanto vale cercare un' alternativa. Una soluzione. Un' ipotesi. Una via. Anche una salvezza. Puoi fidarti di te, il recente libro mondadoriano di Raffaele Morelli, psicoterapeuta, direttore di Riza Psicosomatica, è un autentico "istruzioni per l' uso" dell' anima e delle sue forme. Oscuro e semplice nello stesso tempo, volutamente tributario di Carl Gustav Jung e James Hillman, sostiene lo scivoloso argomento che il disagio psichico deriva da una cattiva gestione dell' immagine vera che ci dovrebbe rappresentare: «Solo l' Originale che ci abita ha soluzioni autentiche», scrive Morelli, aggiungendo: «Io ragiono così: in ogni sintomo che ci viene a trovare si sta manifestando una forza dell' universo, che si sente appagata solo se le diamo spazio, se la accogliamo, se la "custodiamo"». Cosicché «in un mal di testa cronico, in un attacco di panico, in un' ansia persistente, in una depressione, si stanno manifestando delle forze cosmiche: vogliono vivere con noi...». Troppo oracolare per una mentalità razionalista? In ogni caso occorrono scorciatoie, metodi brevi. Per riequilibrare immagini mentali errate o in disordine la psicologia è un terreno privilegiato, anche perché prospetta risultati non «falsificabili», secondo Popper. La ricerca della felicità non ha ricette univoche. Per uno specialista di formule magiche, il catal a n o E d u a r d o P u n s e t , «avvocato, economista e divulgatore scientifico», autore di Alla ricerca della felicità (Fazi), «la felicità è nascosta nella sala d' attesa della felicità». Secondo Joe Vitale, pioniere dell' economia su internet, presidente di due società texane (una ha il suggestivo nome di Hypnotic Marketing), con il suo Zero Limits (Edizioni Il Punto d' incontro) si tratta di applicare il sottotitolo, cioè «Lo straordinario sistema hawaiano per gioire di una vita meravigliosa in cui tuttoè davvero possibile» (per chi invece volesse un antivirale a largo spettro, è appena uscito da Fazi il saggio di Till Neuburg, Astri e disastri. Manuale di sopravvivenza all' astrologia e altre superstizioni ). Fra le altre superstizioni dell' Occidente, c' è l' eterno dilemma del rapporto fra uomini e donne. Domande epocali quanto fortunose: Perché gli uomini sono fissati con il sesso... e le donne sognano l' amore?, si chiedono Allan e Barbara Pe ase (Rizzoli), autori del classico Perché le donne non sanno leggere le cartine e gli uomini non si fermano mai a chiedere. Diagnosi materialista: «Che cosa significa fare l' amore? È quello che fa una donna mentre un uomo la sta scopando». E via di seguito: Manuale per donne lasciate (Il Punto d' incontro), di Rosario Alfano, «trainer e life coach», disponibile anche a rapporti personalizzati su richiesta. Oppure il volume di John Gray, Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (Rizzoli), «il libro sui rapporti di coppia più venduto nel mondo». L' autore, «dopo nove anni di ritiro spirituale», ha cominciato a tenere lezioni sui rapporti «ancestrali» fra uomini e donne. Dopo 17 anni di onoratissima carriera il libro ha toccato il quasi record di dieci milioni di copie vendute. Per tornare sulla terra potrebbero venire buoni i manuali «per negati» pubblicati dal 2006 negli Oscar Mondadori, sulla scia delle americane guide «for dummies»: dal metodo per la chitarra a quello per il personal computer (ma anche per le allergie, i tarocchi, il poker, la meditazione, il massaggio, il blogging). Roba pratica. Oppure gettarsi sui manuali per sopravvivere all' ambiente di lavoro, a cominciare dallo storico e fortunato testo Il metodo antistronzi, di Robert I. Sutton. Per uno sprazzo di ottimismo si può scorrere Il piacere di lavorare (Erickson), di Giorgio Piccinino, «per ritrovare la passione del fare». Mentre per precipitare di nuovo nel più cupo pessimismo sulla natura umana e le organizzazioni si può approfittare degli sketch letterari di Pier Luigi Celli (il manager autore fra l' altro di Comandare è fottere ), che escono in questi giorni per Aliberti con il titolo Coraggio, don Abbondio. Di che cosa si tratta? Dell' «arte di arrendersie del rischio di resistere in un Paese che sta perdendo l' onore». In realtà è un manuale di autodissoluzione controllata: «storie e parabole, sermoni e invettive», ossia prediche inutili rivolte agli italiani «che ancora non si rassegnano al declino» e se non hanno il coraggio provano tuttavia a darselo, con una dose di masochismo ulteriore. Al termine di ogni manuale c' è infatti la possibile resa e rassegnazione. Un senso di inadeguatezza e disarmo rispetto ai miracoli promessi, con la frustrazione relativa. Tanto vale alla fine, esorcizzarla sul letterario, e rifugiarsi nel libro totem di Georges Perec, La vita istruzioni per l' uso, e perdersi nei suoi rebus.
La Repubblica, 22/11/2009, LA DOMENICA DI REPUBBLICA
Chitarra rock Quelle note elettriche che rifecero la storia
Ognuno ha scoperto la sua chitarra rocka modo suo. Nel profondo nero degli anni Cinquanta con Bill Haley, B. B. King, Bo Diddley, Chuck Berry e Muddy Waters, fra suoni che affondavano nella giungla urbana, e prima ancora nel fango del Delta, ma erano ancora il frutto di meccaniche semplici, di microfoni rozzi, di suoni elementari. Mentre viceversa la generazione degli anni Sessanta ha potuto ascoltare per la prima volta le chitarre nuove dotate di quell' attrezzo che allora veniva chiamato "fuzz box", ed era il primo distorsore. Modernità assoluta e artificiale, quindi felicità. Per i piccoli mondani di allora, lo shock sonoro originale fu portato naturalmente dall' attacco di Satisfaction, con il riff introduttivo di Keith Richards, semplice, anzi semplicissimo, ma che in ogni caso faceva ascoltare una musica mai sentita prima. Che cos' era quella novità? Qualcuno si ingegnò subito a cercare di capire che cosa fosse quel suono prolungato praticamente a piacere, quella vibrazione che per i più immaginosi ancora oggi sembra alludere implicitamente alla radiazione fossile dell' universo, fino a immaginare, allora, che si trattasse di un sassofono, altroché; poi la stampa giovanile di settore risolse ogni dubbio tecnico. Chitarra. A distanza di più o meno quattro decenni, Ivano Fossati ha potuto dichiarare che dopo i cinquant' anni non si può, non sta bene, non è né elegante né adulto entrare in scena imbracciando una chitarra elettrica. Sarà perché la chitarra rock ha un vincolo pressoché indissolubile e metafisico con i capelli lunghissimi, in disordine chissà quanto calcolato, e con petti nudi e sudati, su costole lucide e finanche oscene; ma allora, figurarsi, bastava uno sguardo a Jeff Beck che ancora in giacchetta e cravatta suonava con gli Yardbirds e «faceva ginnastica» con il suo strumento sull' assolo di Shapes of Things per restare felicemente sbalorditi (così come sarebbe successo con Eric Clapton per il blues e con Jimmy Page per un rock piuttosto hard, visto che dagli Yardbirds sarebbero discesi per vie traverse i Led Zeppelin, precursori dell' heavy metal e cultori dopo le solite pentatoniche blues, anche di inaspettate sonorità etniche e "tangerine". La caratteristica principale della chitarra rock è naturalmente di essere infinitamente versatile. Si può suonare, a esserne capaci, con la disinvoltura diabolica del Rolling Stone Keith Richards, aplomb in apparenza svagato e sigaretta fra le dita, spesso solo cinque corde al capotasto (eliminato il mi basso), con l' obiettivo di trovare il riff miracoloso, la sequenza che dà il tono e il ritmo a un intero brano, e che risolve integralmente una canzone (pensiamo soltanto, per dire, all' energia elettrizzante di Honky Tonk Woman, un' altra vibrazione che pervade il pezzo e lo anima di continuo con una sensazione entusiasmante di precisione e di forza). Ma potrebbe essere più che altro questione di stile: la chitarra elettrica può anche trasformarsi in uno strumento elegante, come nella tecnica scenica dei Beatles, in cui il rock si inserisce in un elemento visivo, iconografico, dove l' estetica del gesto si sposa indissolubilmente alla creatività light della musica. Con il tranquillo e preciso solismo di George Harrison, e anche con la ritmica di John Lennon, le chitarre del Quartetto di Liverpool entrano infatti in una composizione e raffigurazione totale, cooperando a operine d' arte insidiose e complete. Che tutto ciò figuri ancora nella categoria del rock ormai è dubbio, e difatti alcuni aficionados preferiscono gli album e le canzoni precedenti, anche quelle dei primordi, così grezze ma forse, chissà, anche più autentiche (difatti anche oggi i momenti migliori di Paul McCartney, quando se ne ricorda, sono legati a qualche supremo esempio di rock' n' roll classico, che riesce ancora a fare da fuoriclasse). Eppure nella chitarra rockè insito anche un richiamo tribale alla rivolta. Amplificatori fracassati, come nella violenza generazionale degli Who e dell' eversore Pete Townshend, e via con la sequela di strumenti distrutti, annichiliti, bruciati come fece Jimi Hendrix per ascoltare il suono del fuoco. E un appello erotico al manicoe alla cassa, alle corde, per sentire mugolare di dolore o di piacereo di rabbia le Fendere le Gibson, per trattenerle controi visceri con la forza o allungarle in basso verso la coscia e i jeans laceri, con tutta la nonchalance necessaria. D' altronde, basta guardare i campioni degli ultimi vent' anni per constatare che non ci sono regole. Bruce Springsteen si accompagna e accompagna la band pompando sulle sei corde con la forza di un meccanico del Midwest, come se si trattasse di un esercizio ginnico praticato davanti all' America e al mondo. Mentre a suo tempo Kurt Cobain riprendeva certe soluzioni ipnotiche, forse derivanti da Hendrix, che immettevano i suoni dentro spirali di esoterismo sonoro. E Prince si concedeva con calcolato relax agli accordi semplicissimi e tuttavia inconfondibili di Purple Rain. Quindi non c' è bisogno di figurare tra i guitar heroes come Eddie Van Halen, con la sua velocità formidabile, e il tap ping mutuato dal frenetico Heartbreaker di Jimmy Page (ma anche da Niccolò Paganini, dicono), e nemmeno occorre prendere come paradigma primario il potente rock mainstream degli Aerosmith. Per qualche tempo abbiamo assistito alla rivolta "no future" dei punk, con i tre accordi dei Sex Pistols, i power chords buttati in pasto al pubblico per sottolineare e approfondire l' urlo della voce tossica. Ma è fuori dubbio che per gli appassionati rimangono insuperate le opere stilizzatissime dei Pink Floyd, in cui lo sviluppo melodico si stagliava, e ancora si staglia, sulla riconoscibile matrice blues, con effetti di semplice e bella ricercatezza, un sound semplice e raffinato insieme, ancora implicitamente moderno. Ed è fuori dubbio che la chitarra rock non finisce mai di evolversi, e non soltanto per lo sperimentalismo tecnico di virtuosi come Steve Vai o Joe Satriani: chiunque abbia ascoltato con attenzione i temi musicali degli U2 deve riconoscere che oltre alla voce di Bono il contributo maggiore è venuto dal modo in cui "The Edge" ha reinventato il modo di suonare la chitarra, con le sue scansioni veloci, ritmate e inconfondibili. In fondo il segreto della chitarra rock è che non ha terminato il suo corso. Mentre diversi strumenti della musica "leggera" sono finiti in archivio, soprattutto sul piano degli arrangiamenti e dell' orchestrazione, la chitarra elettrica trova sempre un ruolo. Può bastare un palm muting, quell' effetto facilissimo che scandisce il ritmo smorzandolo, come andava di moda ai tempi del beat, per evocare una suggestione, un non so che. Insomma, un suono di chitarra. Ogni volta uguale, ogni volta diverso. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 21/11/2009
GENEROSE AMNESIE
AVEVANO promesso di adottare 45 monumenti, dopo il terremoto dell' Aquila, e poi se ne sono dimenticati. Un buco nella memoria. Soltanto dieci dei monumenti aquilani infatti hanno ricevuto "promesse" di finanziamento, da parte di Francia, Germania, Russia e, vedi un po' , il Kazakistan. Vedremo nel tempo se le promesse si avvereranno. Per il resto, tutto tace. Tace l' America di Obama, tacciono gli altri. Quella che il ministro Sandro Bondi aveva ottimisticamente definito la nostra «lista di nozze» resta più o meno lettera morta. Per questo il consiglio regionale dell' Abruzzo, con una mozione bipartisan ideata dal presidente Nazario Pagano, si è rivolto al ministro degli Esteri, Franco Frattini, perché si attivi con le ambasciate mondiali, in modo che i famosi "grandi della Terra", per ora piccolissimi, rispettino le promesse fatte al G8, davanti alle macerie che impressionarono tutti. A modo suo, questa vicenda locale ha un carattere esemplare e globale. In primo luogo perché testimonia della facilità superficiale con cui nelle occasioni solenni i leader accettano di mostrarsi generosi, almeno a parole. Visto per esempio Silvio Berlusconi, al vertice della Fao, parlare di miliardi di dollari programmati contro la fame e la malnutrizione, mentre l' assemblea riunita a Roma ha dovuto constatare una drammatica mancanza di finanziamenti. E in secondo luogo il caso dell' Aquila ha un rilievo anche simbolico, perché dimostra urbi et orbi che lavorare per la cultura è un compito difficile, complicato, spesso privo di esiti concreti. Risulta facile la politica degli annunci, specialmente sull' onda dell' emozione collettiva; molto meno facile è tenere fede alle promesse dichiarate pubblicamente. Tutto questo, ossia un episodio tutto sommato modesto nelle vicende mondiali, acquista un valore elevato perché mostra al popolo, senza filtri né mascherature, la scarsa credibilità dei grandi. Ci saranno di mezzo burocrazie e dimenticanze, le opacità degli organismi statali, ma il risultato è uno soltanto: la percezione di massa che le parole prevalgono sulle cose. E quindi il risultato possibile è il convincimento che quando si parla di arte, architettura, ricostruzione urbana, recupero di un patrimonio distrutto, conviene sempre promettere molto più di ciò che si vorrà mantenere. Poi si potrà contare sulla disattenzione susseguente di tutti. Terminato l' effetto annuncio, tra i flash dei fotografi e il luccichio anche mondano del summit internazionale, che cosa rimane, al di là della ricognizione deprimente delle rovine urbane residue e intoccate? Resta l' impressione di un chiaro cinismo mediatico, giocato con i sorrisi d' occasione e un senso evidente di complicità fra i partner. In fondo, mentre annunciano e promettono,i "grandi della Terra" sono già pronti a dimenticare ciò che hanno detto. Tanto, si tratta di cultura, anche se incorporata nelle cose, negli edifici, nei monumenti, in quella che era la vita reale di una città e di una polis. Probabilmente tenere fede alle promesse non paga. O non paga abbastanza in rapporto agli annunci. Bonificare qualche milione di euro per ricostruire i monumenti dell' Aquila, dal Palazzo della Prefettura alla Cattedrale, è assai più deludente dell' euforia con cui gli impegni erano stati presi pubblicamente, nel clima glorioso del G8. Alla fine, resta più che altro la disillusione. Quel senso talvolta inesprimibile e disarmante secondo cui le decisioni, anche quelle non prese, passano sulla testa di tutti. E che, in fondo, anche di questa cultura incardinata nelle pietre, e nel disegno materiale di una città, si può fare a meno. Basta avere davanti a sé giusto il tempo per un' amnesia. Lavorare per la cultura è difficile Risulta facile la politica degli annunci, molto meno facile è tenere fede alle promesse fatte in pubblico
La Repubblica, 21/11/2009, R2
QUANTO VENDE LA POLITICA
Ieri su queste pagine Filippo Ceccarelli ha raccontato l' inatteso exploit di Gianfranco Fini, che in libreria sta superando Bruno Vespa. Il futuro della libertà batte per il momento Donne di cuori, e già questo è vicino al paradosso: l' ospite del salotto, o della terza camera politica, si permette di sorpassare nelle classifiche il padrone di casa. La novità è grande, la sorpresa notevole, le invidie probabili. Chissà come reagiranno infatti al successo di Fini gli altri politici che hanno spedito sui banchi delle librerie le loro opere, da Rosy Bindi a Walter Veltroni fino a Dario Franceschini. Certo, i generi sono diversi, e vanno dall' intervista al romanzo, ma nel caso del presidente della Camera era un sacco di tempo che un libro totus politicus non finiva in testa alle vendite. La qual cosa consola. Non può esserci soltanto Dan Brown, che pure si vende soprattutto con lo sconto nei supermercati. È tornata la politica? Per il momento si può dire che la sigla del Pdl, «Popolo della libertà», può oscillare verso il «Partito del libro». E immaginare schiere di pidiellini che agitano il libro di Fini non può che fare bene alla dialettica dentro l' ideologia dei berluscones.
La Repubblica, 19/11/2009, DIARIO DI REPUBBLICA
TELEVISIONE I nuovi bisogni dello spettatore in frantumi
Lo switch off è ansiogeno. Il passaggio al digitale terrestre uno stress. Il decoder una dissintonia. C' erano state poche brevi stagioni di relax tecnologico, giusto per abituarsi al satellitare, ma poi per la tv è ricominciata la tensione trasformativa. A cominciare dall' alta definizione, piccola mitologia domestica che non cambia la vita ma cambia i prodotti, o induce a cambiarli, forse con qualche sollievo per il mercato degli apparecchi nuovi, e con qualche complicazione vitale in più per chi riceve a casa il pacchetto muto di Sky. Il risultato è che uno strumento come il televisore, che per anni aveva attraversato l' adeguamento tecnologico dell' etere con estrema lentezza (al massimo il colore, come innovazione), ha cominciato a essere il centro di un cambiamento frenetico. Prima era un totem, l' occhio permanente e immutabile del salotto, la finestra sul mondo oggettiva e riconosciuta come tale, «l' ha detto la televisione», poi l' oggetto televisivo ha cominciato a manifestare una improvvisa volontà di saltare in avanti. Grande balzo. L' epoca catodica è alle spalle, con i suoi apparecchi voluminosi e profondi, e le sue immagini praticamente perfette per il mondo analogico. Arrivano il plasma e i cristalli liquidi, il formato 16: 9, non ancora metabolizzato dai programmi. Ma arriva soprattutto la proliferazione delle piattaforme e dei canali, che probabilmente non basta a decostruire il duopolio Rai-Mediaset e neppure a scalfire il conflitto d' interessi di Silvio Berlusconi, ma è sufficiente a rendere informale e personalizzabile il palinsesto. La televisione comincia a diventare un ordigno che si modula a piacimento, e non soltanto grazie ai riproduttori di dvd e blue-ray. Non sono ancora in corso d' opera a pieno titolo gli archivi televisivi di massa praticabili grazie alla banda larga, ma ci vorrà pochissimo. Al massimo occorrerà verificare se l' aumentoa dismisura dell' offerta determinerà una nuova fidelizzazione nello spettatore oppure una disaffezione progressiva. Grazie al desencanto televisivo si sa che si paga tutto. Vecchi strumenti finanziari come il canone della Rai sono sempre lì, anche in tutta Europa, e se non è il canone c' è un sovraccarico pubblicitario così invadente da rendere i programmi insopportabili. Ma ci si è abituati a pagare i nuovi prodotti, e a considerare normale l' obolo familiare per il calcio e i film. Il resto è marmellata televisiva classica, roba colorata che tracima dal teleschermo senza pretese né culturali né estetiche. Le conseguenze sui telespettatori sono virtualmente colossali. C' è un "effetto di instabilità" che prende corpo a mano a mano che palinsesti e programmi si spezzano: alla fine non conviene a nessuno perdere tempo per seguire una trasmissione intera. Risulta più facile, e risulterà sempre più conveniente in futuro, approfittare delle risorse di strumenti per ora rozzi come YouTube e Google Video, con i quali si possono comporre memorie collettive di massa, che diventeranno sempre più facilmente praticabili una volta che si sia realizzata la convergenza fra la televisione e internet. Con tutto questo, e cioè con l' emancipazione dalle scomodità inevitabili del computer, la televisione diventerà un autentico centro di possibilità tecnologiche e culturali. L' internet "da divano" genera potenzialmente informazione, ma soprattutto intrattenimento: film da scaricare appena usciti, sesso di facile approccio, sport, musica, divulgazione scientifica, salute, viaggi, gastronomia. Un ventaglio di opportunità di cui non si colgono ancora al momento le valenze economiche complessive, ma di cuiè difficile ignorare le possibilità evolutive sul piano globale. Piuttosto, si tratterà di osservare fino a che punto la televisione del futuro sarà una tv inclusiva, e condivisibile sul terreno dei grandi numeri, oppure se si rivelerà una piattaforma a due livelli distinti. Pubblico e privato, élite e massa. Già oggi il cinismo dei tecnici del marketing televisivo li induce a parlare, come target di audience e pubblicità, delle "pensionate di Torre del Greco": per alludere in sostanza a un insieme di telespettatrici ultrasessantacinquenni, poco scolarizzate, fortemente esposte alla programmazione generalista, a cui si possono rivolgere perlopiù fiction sconclusionate, programmi pomeridiani irrilevanti e pubblicità di basso livello. Mentre al livello più elevato, dove i consumi di intrattenimento e il loro prezzo non costituiscono un problema, si verificherebbe il configurarsi della new television, con formati e format specifici, rivolti esclusivamente a un pubblico evoluto. Con questo si esaurirebbe quel ruolo in parte mitologico-ideologico, ma largamente sperimentato in Italia, che ha fatto della televisione una risorsa storica di integrazione nazionale (sul piano delle idee, delle convenzioni, del linguaggio, della pronuncia). Invece, nella prossima Biblioteca di Babele televisiva, lo specchio è infranto. Il colossale switch off a cui assisteremo nei prossimi anni produrrà la proiezione di una superficie enorme e spezzata. Prepariamoci alla televisione puzzle, con tutte le possibili ripercussioni di incongruenza fra le visioni frammentarie degli spettatori e quindi di sostanziale incomunicabilità fra le esperienze televisive. Attriti elevati fra competenze e informazioni "locali", contraccolpi conoscitivi e asimmetrie informative: forse nei nuovi decoder c' è di mezzo addirittura qualche problema sul funzionamento della democrazia, a proposito delle idee da condividere nelle nostre società in via di disgregazione.
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