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Un’altra tv è possibile

24/09/2009
PRIMO PIANO

Flashback uno. Siamo al "Musichiere", con Mario Riva che ospita il fantasista parigino Charles Trenet. Il "romanaccio" Riva parla un disinvolto francese; con Trenet allestisce un vero teatrino, come gli era riuscito con Joséphine Baker: il divo transalpino si schermisce, fa il ritroso, confessando il dubbio, se non la certezza, che nessuno qui in Italia conosca le sue canzoni. Mentre Mario Riva eccepisce: ma monsieur, volete scherzare, le conoscono tutti. Ne cita una, chiedendo al pubblico se c’è qualcuno in grado di accennarla, e si alza uno spettatore, che è in realtà un cantante professionista, e intona lì per lì "Que reste-t-il de nos amours". E così via con altre canzoni di Trenet. Un trionfo, un divertimento di grande classe, colto e popolare insieme. Flashback due. È un sabato sera, ci troviamo in uno di quei programmi che hanno fatto la storia della tv italiana: "L’amico del giaguaro". Marisa Del Frate, Gino Bramieri e Raffaele Pisu intonano una parodia canora, a più voci. Niente di improvvisato, ovviamente. Tutto è stato scritto e preparato con cura durante la settimana, con prove assidue, e la prestazione alla fine risulta un piccolo show di professionismo esemplare. È la televisione a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta: la tv democristiana che sta facendo tesoro delle professionalità che vengono dal varietà e dal cinema, dai teatri di rivista e da Cinecittà, approfittando così del contributo di scrittori, soggettisti, tecnici, registi, operatori che nella televisione di Stato stanno trovando nuove opportunità. Capacità di alto livello, che conferiranno alla Rai uno standard qualitativo d’eccezione. Eccola qui la televisione di qualità, eccola la cultura, non soltanto con la Rai dell’"Approdo" e con la pedagogia nazionale del maestro Manzi ("Non è mai troppo tardi") rivolta ai semianalfabeti di un’Italia che si modernizza. C’è anche "Carosello", che insegna agli italiani a consumare, e alle aziende a comunicare, e che visto oggi rivela nei suoi sketch una impressionante quantità di invenzioni narrative, di sorprese nella scrittura, di felici scarti linguistici. Dopo di che, anche per misurare gli scarti di egemonia politica, occorre tornare nella realtà contemporanea. Triste realtà. In primo luogo perché stiamo assistendo a un nuovo assalto della destra al sistema tv. Il tentativo di neutralizzare anche l’enclave di Raitre, liquidando il direttore Paolo Ruffini ed esercitando pressioni di vario genere sui programmi come quello di Milena Gabanelli (con lo strumento vilissimo del ritiro della copertura legale). Poi le gomitate a Michele Santoro, che pure è sempre stato sostenuto da Antonio Marano, ex direttore di Raidue e ora vicedirettore generale, nel nome di un principio di funzionalità: «Santoro? Un comunista sfacciato, ma una bestia televisiva unica». Sullo sfondo, i tg già ampiamente normalizzati. Insomma, si va verso l’omologazione totale. Questa volta senza bisogno di editti bulgari, e facendo in modo di non lasciare martiri sul terreno. Nello stesso tempo si afferma integralmente il modello televisivo, e politico, degli ultimi vent’anni, teso a ipnotizzare l’audience, e a condizionare, come scrisse il filosofo Carlo Galli, «le platee implose nella privacy». E si sa che oggi la postpolitica, ha come obiettivo la conquista del maggior numero di voti: si potrebbe dire, in gergo tv, di "share". A colpi di mano e con colpi bassi. I partiti sono generalisti come alcune reti televisive. Secondo il politologo Giovanni Sartori, analista dell’"homo videns", la tv attuale soggiace a una legge dell’entropia, nel senso che la rincorsa all’audience, imposta dalla logica della pubblicità (che richiede grandi eventi e grandi ascolti), implica un ribasso continuo della qualità culturale, in un circolo vizioso che non ha fine. D’altra parte va considerato che il pubblico è bugiardo: interpellati dai sondaggi di marketing tv, i telespettatori francesi affermano di preferire cultura, documentari, reportage e informazione, e riservano solo un 14 per cento di gradimento ai serial americani; ma poi i dati di ascolto premiano sempre questi ultimi, con un notevole effetto di sbugiardamento. In realtà non è facile fare cultura in senso stretto, nella televisione di oggi. Jean-Marie Charon, sociologo dei media, ha una tesi precisa: «Dopo l’estinzione del "Bouillon de culture" e dell’"Apostrophes" di Bernard Pivot, la tv francese vive con l’incubo di criticare letteratura e cinema in quanto è accusata di essere all’origine del loro declino. Inoltre, con la riforma entrata in vigore in gennaio, che cancella la pubblicità sulle reti pubbliche a partire dalle 20, la parte dello Stato si è fatta più importante. Diviene una presenza preoccupante per i professionisti dell’audiovisivo, che temono tagli alle risorse in caso di ristrettezze di bilancio, e una dipendenza sempre più forte dall’Eliseo, che ha in mano le nomine di controllo». E allora, fuori dall’isola "elitista" della rete franco-tedesca "Arte", il problema della tv di qualità è dato interamente dalla miscela di intrattenimento, pubblicità e tv "trash". Il professionista disincantato sosterrà che la televisione è sempre televisione, sia che la facciano Santoro e Travaglio, la Gabanelli e Riccardo Iacona, o viceversa Alessia Marcuzzi con il "Grande Fratello", come pure Mara Maionchi e Morgan con "X Factor", non importa se insieme a Simona Ventura o alla nuova prevedibile diva, Claudia Mori, chiamata a sbancare simpatie e antipatie del pubblico. Ma c’è da considerare anche il modello dei due canali della Bbc, finanziati dal canone e del tutto esenti dalla pubblicità, e in cui l’intrattenimento, soap opera comprese, si avvale di una scuola nazionale di attori che riscatta ogni trama, comprese quelle più esili o quelle più popolari (come almeno in parte avviene anche nelle reti tedesche, dove fa scuola l’esempio di "Derrick"). Il trash è escluso dalla Bbc: per quello c’è Itv, e a volte Channel Four, che trasmette la versione inglese del "Grande Fratello"; e la ragionevolezza pragmatica di stampo britannico si mette in luce nella tendenza a nominare dirigenti di altissimo profilo (vale per tutti l’esempio dei fratelli Attenborough, due registi prestigiosi, che sono stati rispettivamente nel comitato di Channel Four e alla direzione di Bbc 2). La spazzatura semmai è il regno della tv spagnola, specialmente nei palinsesti della berlusconiana Telecinco: la "telebasura", come la chiamano gli spagnoli, è la cifra di tutte le programmazioni, suffragata da un’inflazione pubblicitaria che occupa 30 minuti in ogni film. Pura tv marmellata. Eppure si sentono anche pareri diversi. «L’audience non è un fine in sé. È la conseguenza del nostro lavoro»: questa è la filosofia di Luis Fernández, presidente della Corporación Rtve, la tv pubblica spagnola che spopola con i programmi di informazione. Ma l’opinione più diffusa è che «la televisión española es mala». Per il David Letterman nazionale, il presentatore Andreu Buenafuente, «se esiste un dio della tv, sicuramente è italiano», tanto è evidente «la povertà della tv spagnola, fondata sul predominio della telebasura, la telespazzatura». Secondo l’associazione degli utenti dei mezzi di comunicazione, Telecinco è la rete leader della tv basura, poiché offre il 75 per cento del trash. A proposito, il successo più grande l’ha firmato "Sin tetas no hay paraíso", senza tette non c’è paradiso, una novela di Telecinco che aggancia più di 4 milioni di spettatori. Allora che cosa si può concludere? Che c’è un problema politico, innanzitutto. Quanto più lo stile televisivo e lo stile politico si sovrappongono, tanto più diventa insidioso lo schema retorico, cioè propagandistico, dei programmi. L’evento della consegna delle prime case in Abruzzo, non importa se finanziate dalla Croce Rossa e non dal governo, auspice la diretta di "Porta a porta", diventa l’atout politico della stagione, e mette nell’angolo "Ballarò", programma non allineato a priori. E c’è di conseguenza un problema qualitativo e culturale, perché la televisione omologata, le sei reti possedute o condizionate da Berlusconi, hanno due obiettivi complementari: uno, mostrare tutto; due, non dire nulla. Mostrare tutto significa illustrare ogni impresa di regime. Non dire nulla implica sottrarre dalla spazio della comunicazione pubblica ogni segno di conflittualità, ogni polemica, ogni scandalo. In sostanza, riparleremo a suo tempo di tv di qualità e di cultura televisiva. Cioè di quella televisione fatta di tecnica, di professionalità, anche di cinismo, che conduce a prodotti confezionati a regola d’arte. Qui da noi siamo all’ipnosi. E quando l’audience è in anestesia, di che qualità o cultura si può parlare? Al massimo si può, amaramente, ricorrere ai classici e alla piccola memoria poetica: dalle platee narcotizzate si levò alto uno sbadiglio. n

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