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Prodi al bivio della legge elettorale

29/03/2007

Secondo la logica aristotelica, non ci sono grandi possibilità di approvare una legge elettorale efficace. Quando Romano Prodi sostiene che occorrerà trovare un accordo con l’opposizione, e ribadisce il suo «mai più» alle leggi di sistema unilaterali, come avvenne con il Porcellum, tocca soltanto metà della questione. D’accordo, una riforma strutturale come la legge elettorale deve essere bipartisan. Ma anche l’opposizione, come la maggioranza, è composta da partiti che sul tema elettorale hanno idee, preferenze e soprattutto interessi diversi. E allora? C’è una via d’uscita a quella che fino a questo momento ha tutto l’aspetto di una grande melina, fatta di passaggi laterali, di avanzate e ritirate, mosse e contromosse, soglie che si alzano e si abbassano secondo le convenienze? Se si accetta il punto di vista del massimo scienziato della politica italiano, Giovanni Sartori, non appena si procede alle consultazioni delle sette chiese, come ha provato a fare il ministro Chiti, si cade nella "regola dei nanetti": vale a dire che si subisce il veto dei partiti minori, che vedono in qualsiasi formula elettorale seria una minaccia alla propria esistenza. Dunque, una buona legge risulta impraticabile; e produrre un’altra riforma inefficace sarebbe aggiungere disastro a disastro. Conclusione: tertium non datur. E allora, a che cosa serve l’attivismo di Romano Prodi? La risposta è che il premier si è assunto il compito di esploratore sul terreno elettorale perché dopo la crisi di governo era necessario individuare un ambito negoziale con l’opposizione. Nel momento in cui Prodi ha assunto il compito di trattare la nuova legge elettorale, ha anche accettato di ridimensionare la portata del suo governo. Ha prospettato implicitamente un orizzonte temporale che non va oltre le elezioni europee del 2009. L’esperienza dell’Unione non appare più un progetto di legislatura, bensì un incarico a tempo; ciò che qualifica il governo non è la realizzazione del programma, quanto il conseguimento della correzione della legge elettorale. Naturalmente, nel centrodestra si guarda con diffidenza a quella che Silvio Berlusconi considera una manovra dilatoria. E nel centrosinistra ci sono varie entità politiche, al centro e a sinistra, che osservano con altrettanto sospetto le ipotesi di razionalizzazione politica praticata attraverso una nuova legge elettorale. Applicando lo "schema Sartori", l’unica possibilità di procedere a una riforma funzionale implicherebbe una accordo diretto fra i partiti maggiori, del centrodestra e del centrosinistra. Ma è altrettanto ovvio che Prodi sia diffidente verso tutto ciò che ha il sapore di intese più o meno larghe: nel senso che fin dalla crisi in Senato sulla politica estera lo spauracchio principale per il premier è stata l’eventualità di un governo tecnico o istituzionale, in quanto premessa della scomposizione degli schieramenti attuali (e quindi sconfessione integrale dello schema su cui Prodi ha operato dal 1996 in avanti). La grande melina elettorale rischia quindi di non produrre niente. Tanto più che alcune riforme implicherebbero la necessità di conseguenti modificazioni costituzionali, con il rischio aggiuntivo di riforme a stralcio, estemporanee, non inserite in un disegno istituzionale complessivo. È per questo che una figura vicina a Prodi come Arturo Parisi ha continuato a puntare sul referendum. Sulla base di una riflessione politica stringente e a suo modo anche drammatica: ci siamo avvicinati all’implosione della politica italiana, con il fallimento finale del bipolarismo e il possibile ritorno a un’occupazione permanente dell’area di governo da parte di un blocco centrale di partiti. Il referendum, pur con l’effetto prevedibile di una torsione fortissima della struttura politica, e con effetti vistosi sui partiti e le alleanze, è nello stesso tempo una pistola puntata sul Parlamento e una fortissima garanzia sul mantenimento del formato bipolare e dell’alternanza. Una volta esaurite le liturgie, il dialogo, l’ascolto delle forze politiche maggiori e minori, occorrerà procedere a una sintesi. E Prodi si troverà di fronte alla necessità di scegliere se cercare un compromesso al minimo, oppure se tentare la strada della fantasia politica. Per ora la melina a centrocampo continua. Ma fra qualche settimana si tratterà di vedere se Prodi ha voglia di sacrificarsi come l’ostetrico del nuovo sistema politico, oppure se impegnerà la propria funzione alla ricerca di un compromesso. Nel momento in cui dovrà decidere qual è la sua funzione, sarebbe auspicabile che la sua scelta fosse congruente con la sua storia politica.

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