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PARTITO MINIMALISTA ITALIANO

13.02.1998

Era ingenuo aspettarsi da D’Alema invenzioni, scarti di lato, impulsi dettati da improvvisi accessi di fantasia politica. Se c’è una caratteristica dominante nel leader del Pds, è la sua prevedibilità. Quindi non era il caso di alimentare aspettative incongrue sugli «stati generali» della sinistra inaugurati ieri a Firenze. Già si sapeva che la novità di maggiore rilievo di questo semi-congresso sarebbe consistita nell’abbandono tombale della simbologia comunista. Via falci e martelli residuali, spazio a querce e rose: ma anche quest’ultima metamorfosi del maggiore erede del Pci avviene senza sconvolgimenti emotivi, come per via burocratica. Ci si doveva arrivare. Eccoci qua. Questa volta a ciglio asciutto. Già: il passato del Pds e del Pci oggi può essere un problema, storico e di coscienza, ma non appare più un vincolo politico. Quadri e militanti del Pds hanno cercato una piccola passione succedanea nella possibile dialettica fra ulivisti e «cosisti», ma si è trattato di un interessamento accademico, con la consapevolezza che lo schema di D’Alema era uno solo, non ammetteva repliche, non avrebbe lasciato spazi a illusioni blairiste o veltroniane. E difatti ieri il segretario si è sbarazzato alla svelta del miraggio «giacobino», della «reductio ad unum», del virtuale partito unico del centrosinistra. Un’ipotesi politica che a suo giudizio, semplicemente, «non esiste». Dunque l’unica mappa nella geografia politica della sinistra è quella che illustra l’Ulivo come una buona coalizione elettorale, e l’attuale Pds come il partito cardine della maggioranza di governo. Siamo all’acme del realismo dalemiano. Un realismo che induce il leader pidiessino perfino a riprogettare la sinistra riconoscendo la vicenda comunista e socialista come due fallimenti, «due facce della stessa sconfitta». Sarà possibile allora costruire la vittoria futura facendo combaciare due sconfitte? Di per sé, le argomentazioni di D’Alema sono tutte ragionevoli. Ciò che non si capisce è l’enfasi sul difficile, faticoso, impegnativo lavoro che a suo dire aspetterebbe i «democratici di sinistra». Con tutto il rispetto per chi come lui ha una concezione alta della politica, non si coglie bene la necessità di tutto questo impegno. La nuova incarnazione del Pds avviene sulla base di un disegno politicamente limitato e culturalmente tutt’altro che sovversivo. Non sono in gioco scissioni, il partito non rischia nulla: più che di nuovi scismi, è probabile che ci sia un rischio di eccessivi ingressi. Tutt’al più, sembra che lo scopo ultimo e finale della Cosa 2 sia quello di congelare la situazione politica a sinistra: la sinistra democratica a matrice Pds diventerà di fatto l’unico referente dell’Internazionale socialista in Italia, e occuperà tutto lo spazio socialdemocratico nel panorama politico. Il «cantiere» per la sinistra annunciato a Firenze assomiglia in realtà a un lavoro di giardinaggio per sagomare meglio il centrosinistra. Razionalizza il paesaggio, nel senso che metterà in ordine i cespuglietti. Ma è anche un’iniziativa segnata fortemente da una concezione fin troppo classica, perfino togliattiana, della politica. Non è un caso che i giudizi più positivi sul discorso di Firenze siano venuti da Franco Marini: cioè dal custode dell’integrità e dell’identità di partito dei Popolari, da un altro esponente politico abituato a negoziare le alleanze e che gelosamente vede come il fumo negli occhi qualsiasi ipotesi movimentista. Si tratta di vedere in questi giorni se la linea dalemiana passa senza diffcoltà. In linea di massima, non saranno alcune isolate tirate retoriche pro-uliviste a metterlo in difficoltà. Nel breve periodo D’Alema ha ragione. Nel nome del realismo ha scelto un’alleanza elettorale, ha vinto le elezioni, ha incoronato Prodi, ha governato, ha progettato la riforma costituzionale. Chi può metterne in discussione l’abilità politica? Chi può contestarne il ruolo? Nessuno, ovviamente. L’unico rischio, non oggi e non domani, è che la strategia di D’Alema sia perfetta per tenere il Pds così com’è e l’Ulivo com’è adesso, ma che insomma consegni la sinistra democratica a un ruolo importante quanto delimitato. In passato, prima il Pci e poi parzialmente il Pds avevano scambiato l’esclusione dal potere con la consapevolezza di una propria egemonia culturale. La sinistra non governava, ma ispirava pensieri dominanti. Adesso è cambiato tutto. I «democratici di sinistra» parteciperanno all’amministrazione del paese, ridefiniranno i loro programmi per ciò che riguarda l’economia in termini autenticamente liberali, come sottolinea Michele Salvati. Ma dato che il realismo non concede chance alle utopie, ancorché modeste, che le speranze di massa si assottigliano e che alla fine i programmi e le politiche li faranno coloro che gestiscono sul campo il potere – i Ciampi, i Prodi, e magari anche i Bersani – può venire il dubbio che il rischio della sinistra dalemiana sia di una ineliminabile subalternità. Una confortevole subalternità di governo. Ma, in fondo, sempre subalternità sarebbe.

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