gli articoli PANORAMA/

OTTIMISMO, ULTIMA DEA

11.01.1996
SPECIALE DUEMILA
2000 ITALIA PROSSIMA VENTURA / Dove va la società civile

Uno spettro si aggira per l’Europa, ed è un fantasma inatteso. Suscita brividi sottopelle nelle classi medie, riportando in superficie paure remote. E’ la crisi della sicurezza sociale, che sta diventando il nodo cruciale per qualsiasi partito e programma politico. L’ entropia del welfare state, divenuto un apparato che ingoia risorse per mantenere se stesso e garantire i già garantiti, impone soluzioni chirurgiche, tagli e amputazioni, come dimostra in Francia la contrastata ristrutturazione di Jacques Chirac e Alain Juppé. Noi invece coltiviamo ancora la speranza di poter uscire dall’ epoca dell’erogazione e dell’assistenza, delle pensioni facili e della sanità a buon mercato senza né lacrime né sangue. In realtà, malgrado gli ultimi lasciti della sapienza compromissoria andreottiana, gli anni di qui al Duemila saranno scanditi proprio dall’ insicurezza. Un sentimento a cui non siamo più abituati. La società italiana aveva imparato a concepire la ricchezza semplicemente come una questione distributiva. Screditate le ideologie molto prima del loro tramonto ufficiale, permanevano i loro detriti, gli ideologismi. E l’ideologismo principale consisteva nel negare l’obbligo delle compatibilità; considerava lo Stato come una pompa che doveva semplicemente erogare risorse. Il conflitto sorgeva eventualmente soltanto in relazione alla scelta sull’ indirizzo delle erogazioni. Nella stanza di compensazione del Parlamento il cosiddetto Partito unico della spesa pubblica negoziava i conflitti distributivi aggravando il deficit pubblico e scaricandolo sul debito. Eppure, anche in una situazione irresponsabile, non c’ era la sensazione diffusa della precarietà. Ed è stato anche per questo che è risultato possibile far circolare l’idea che si poteva sfrondare il welfare "particolaristico" (e cioè assistenzial-clientelare) attraverso metodi morbidi, coniugando, come forse si dice tuttora a sinistra, "solidarietà ed efficienza". Poco più che rassicurazioni, con l’ottimismo ultima dea. Ma poi ha cominciato a diffondersi sempre più rapidamente la sensazione che le cose sarebbero state molto più brutali. Per qualche mese l’invenzione politica di Silvio Berlusconi ha fatto balenare il "miracolo", cioè la possibilità di uscire dalla transizione senza fatica, puntando sulla crescita con un singolare intreccio di keynesismo e neoliberismo. Forse il buon governo codificato da Giuliano Urbani era puro "wishful thinking". E l’ultraliberismo di Antonio Martino un esercizio accademico. Ma molti italiani ci hanno creduto perché la via berlusconiana al benessere collettivo consentiva di scavalcare di slancio la fase penosa nella quale la collettività si era trovata di fronte ai conti con se stessa. Il punto di svolta è stato marcato dalla scoperta della grande corruzione politica, in cui si sintetizzava il fallimento di una classe dirigente, la tragedia dei conti pubblici, l’errore del dna politico che poteva condurre alla morte il Paese. L’ alternativa a quel punto era tra un approfondimento degli effetti e del significato di Tangentopoli, da un lato, e dall’ altro un effetto amnistia, cioè l’amnesia generalizzata. Se avesse accettato un esame di coscienza senza sconti, la società italiana avrebbe dovuto chiedersi fino a che punto era giunta la complicità implicita, o addirittura la collusione, con la sua classe politica. Ha scelto, come si è visto, la soluzione più comoda, attribuendo ogni responsabilità ai partiti e agli uomini politici dell’ancien régime. Trovato il capro espiatorio, tutto è venuto di conseguenza. C’ è stata un’autoassoluzione di massa, che sciacquava via tutti i peccati. Il peccato mortale era quello di essere stati sudditi anziché cittadini, di avere accettato le mance del sovrano anziché, quando era il caso, rivendicare diritti e servizi. Si transigeva sul funzionamento delle poste in cambio di qualche spicciolo. Ci si è quindi subito dimenticati delle pensioni ottenute grazie al padrinaggio politico, dei posti di lavoro assegnati dal favore del portaborse locale, via via fino a perdere memoria dei vantaggi, ampiamente goduti, che uno Stato approssimativo consentiva attraverso i bot, e che costituivano un "free riding" di massa, una speculazione degli italiani a proprio danno, o a danno dei propri figli. Mani pulite e i referendum elettorali, ma anche Umberto Bossi e la Lega, hanno permesso senza volerlo una spericolata acrobazia morale, consistente nell’ attribuire a qualcuno (la partitocrazia) ciò a cui avevamo partecipato. Liquidati quasi tutti i vecchi partiti, la collettività si è trovata nuovamente sola di fronte a se stessa. E in condizioni fortemente instabili, in cambiamento tumultuoso e chissà come controllabile. L’ innovazione tecnologica distrugge posti di lavoro, la concorrenza mette a repentaglio abitudini e stili di vita consolidati, i sindacati si trovano nella condizione di dover contrattare al minimo misure di ristrutturazione rispetto alle quali non hanno una strategia se non difensiva. I mercati si aprono, i capitali prendono strade imperscrutabili, la finanza scarica tensione ogni giorno sugli investimenti, il risparmio viene messo a rischio. Ciò che ieri sembrava un’ipotesi astratta, la globalizzazione con i suoi rischi, comincia a interferire direttamente nelle nostre vite, e Ralf Dahrendorf non perde l’occasione di dare corpo alle angosce di chi si sente in balia di forze e di poteri fuori controllo. Nello stesso tempo, le città entrano in turbolenza, fra crisi da traffico e tracollo dei servizi, vanificando il più delle volte le aspettative politiche suscitate dall’ elezione popolare dei sindaci (dato che un Bassolino non fa primavera). La stessa composizione della società entra in una fase nuova, con l’immigrazione che muta anche visivamente l’immagine e il colore delle strade e delle piazze. Ci si può aspettare quindi un contraccolpo inatteso, la richiesta di protezione, di tutela, di comunitarismo? Dopo avere cantato l’elogio del mercato potremmo assistere a un nuovo balzo delle sinistre "antagoniste", fondamentalisticamente o esteticamente avverse al capitalismo? Alla ripresa della formula socialdemocratica in versione italiana? A un rifiuto insomma dell’attrezzatura liberista che era stata presentata come il rimedio della modernità contro l’arretratezza? E perfino a una forma non dichiarata ma serpeggiante di nostalgia per il potere molle, continuamente adattabile, della Dc? Prima di rispondere bisognerebbe cominciare a censire la collettività in modo realistico. Il fallimento, la zoppia della politica rispetto alla società che Giuseppe De Rita rileva nell’ ultimo rapporto Censis, va interpretato senza cadere nella trappola del bipolarismo, che può funzionare nella politica, ma non descrive nulla della società. Non si può tagliare in due la società ripartendola sulla direttrice Polo-Ulivo, magari attribuendo alla destra una qualità più moderna e alla sinistra un atteggiamento conservatore. Il fatto è che gli italiani possono semmai dividersi fra arcaici e postmoderni, e queste tendenze non sono prerogativa di una sola parte. Se immaginiamo l’interno di una casa della periferia metropolitana possiamo figurarci l’incombere della televisione, ragazzine che sognano una carriera da Ambra Angiolini e giovani maschi ancora addestrati a concepire il rapporto con le donne secondo codici atavici. I modelli comportamentali plasmati dalla pubblicità vengono poi mediati dall’ hard discount, merce povera per poveri che non hanno nessuna intenzione di rinunciare alle soddisfazioni del consumo vistoso, anche se con un packaging anonimo. Sarebbe questo un segmento sociale di sinistra? No, non tutto. Può essere appiattito in una condizione psicologica passiva, tramortito dalla pressione televisiva, ridotto alla subalternità in modo definitivo. Oppure alla ricerca di ribellioni clamorose e con un fondo nichilista. Ma senza distinzioni trancianti. Può considerare sostituibili, per dire, Alleanza nazionale e Rifondazione comunista, come non di rado succede nel Sud, se trova qualcosa che esaudisca il suo bisogno di tutela oppure rinnovi il suo desiderio di rivalsa. In modo analogo, negli interni borghesi si potrà trovare tanto l’ottimismo "azzurro", fede nel consumo e nel mercato, quanto il pessimismo politically correct di marca progressista. Nell’ insicurezza, appare fisiologico che si affermi tutto ciò che genera immobilità. Non sarà un caso se i ragazzi italiani rimangono in famiglia fino ai trent’ anni. Niente case, poco lavoro, scarsissima propensione al rischio. Ciò che colpisce è però ancora una volta una società a due facce, che miscela in modo caotico l’aspirazione al nuovo in tutte le sue forme e un’accettazione rassegnata dell’immutabilità. Non c’ è più immigrazione interna, non c’ è mobilità verso l’alto, i figli degli operai non riescono a fare il passo verso il ceto immediatamente superiore della scala sociale. La scuola ha cessato di essere un’agenzia di promozione sociale. E nella fase della denatalità, con l’invecchiamento della popolazione, è naturale che tenda a scattare il riflesso egoistico teso a difendere le posizioni acquisite e quindi a chiedere ordine magari senza legge. L’ aspetto più immediatamente visibile sembra dunque un conformismo affannoso. Può essere sintomatico di questa schizofrenia che si autocompensa l’atteggiamento verso la religione, e naturalmente verso il cattolicesimo e la Chiesa. Un sociologo torinese, Franco Garelli, ha mostrato che il cattolicesimo degli italiani è un’eco depotenziata dalla secolarizzazione, declinata in chiave sentimentale sul piano dell’adesione convenzionale ma caratterizzata da una spregiudicata flessibilità soggettiva per ciò che riguarda l’applicazione dei precetti religiosi. Ne deriva una religione fai-da-te che risulta rassicurante sul piano delle identità e che non implica l’interiorizzazione di criteri morali intransigenti. Credo in Dio, perché così fan tutti, ma su preservativi e pillole faccio ovviamente a modo mio. Fa eccezione il mondo del volontariato, in cui si colgono forme integrali di perseguimento dei valori scelti, ma che sembra esaurirsi in se stesso, senza esercitare un impatto politico sull’ ambiente esterno. Ma anche per altri aspetti più vistosi sembra difficile negare i sintomi di atomizzazione sociale. Le notti del sabato in discoteca, lo sballo, le corse sulla Tigra costituiscono un’espressione esplosiva di vitalità, ma anche la riduzione della sfera giovanile all’ ottundimento, senza alcuna proiezione collettiva. Lo schema di ciclico impegno / disimpegno, movimento pubblico e riflusso, descritto da Albert O. Hirschman, si è bloccato. Se rimane qualcosa del passato non è la lotta di classe, ma piuttosto, neanche troppo mascherata, l’invidia sociale, resa visibile dal mimetismo dei consumi bassi verso i modelli elevati. Per tutti gli anni Ottanta c’era stata la rincorsa di autoimmagini basate sulla competizione, ma in cui l’elemento materiale dell’economia si sublimava nelle astrazioni postmaterialiste della finanza: "I make money by money", faccio soldi con i soldi, diceva Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo. E in Italia si diffondeva l’aspettativa che potesse essere proprio il mercato a fungere da straordinario surrogato delle lotterie, dando vita a una sorta di scommessa collettiva sulla borsa e sui fondi di investimento. Era il periodo in cui si poteva davvero pensare che il miglior rimedio contro la povertà fosse la ricchezza. Dopo che l’illusione del capitalismo di massa si è volatilizzata, la leggerezza non è più un valore: tornano in primo piano dati duri, consistenti, pesanti. L’impresa, il potere dei poteri forti, la tenace persistenza degli establishment, lo stile granducale dell’entourage Fiat. Potrebbe esserci sotto la sensazione che qualcuno ci dovrà salvare dall’ incertezza, e questo qualcuno non sarà la politica, ma qualcosa percepito come sostanzialmente immutabile, non scalfibile. Fino a ieri c’era l’aspettativa che il cambiamento politico avrebbe smobilizzato le energie e le risorse prima sequestrate dal breznevismo Italian style. Oggi si intravede la malcelata speranza che siano gli strati impermeabili della collettività ad assicurare un lembo o uno straccio di futuro praticabile. Ciò ha un prezzo, naturalmente, ed è un prezzo elevato. Perché se il conflitto si inabissa attraverso mille rivoli carsici, se diventa pura connotazione psicologica individuale, questa è la condizione migliore per garantire una continuità al ribasso, sostanzialmente regressiva. Già adesso dopo il patto sociale stipulato sotto gli auspici di Amato e Ciampi, a causa dell’inflazione crescente si registra una perdita secca di benessere dei ceti operai e del lavoro dipendente. Unito all’ aggressione che la tecnologia conduce verso i colletti bianchi, ciò potrebbe preludere all’ irrigidimento della stratificazione per classi. Mentre Romano Prodi predica il modello tedesco della società integrata, il caotico Duemila italiano potrebbe ricalcare molto più facilmente lo schema inglese, in cui lo smantellamento degli ammortizzatori sociali approfondisce e sclerotizza le distanze di classe. Per le élite dotate di potere ciò farebbe echeggiare il suono gratificante della restaurazione; per tutti gli altri, in una collettività senza scheletro, resa amorfa politicamente e inquieta economicamente, significherebbe l’annuncio di un terzo millennio in cui ognuno combatterà a muso duro la sua guerra privata per qualche briciola.

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