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L’OMBRA DEL CASO MORO

26.01.1998

Sembra che talvolta nella vicenda italiana scatti come una maledizione l’istante in cui un individuo deve scegliere fra la propria salvezza personale e il sistema di lealtà in cui era inserito. Ieri è stato il caso di Giuseppe Soffiantini, i cui sequestratori hanno fatto giungere al Tg5 non uno soltanto, ma contemporaneamente due messaggi. Il primo messaggio, brutale, consisteva nel lembo dell’orecchio destro del rapito. Il secondo messaggio va letto nelle parole scritte da Soffiantini. Dalle quali si capisce che il sequestrato chiede alla sua famiglia di pagare il riscatto abbandonando ogni esitazione e superando gli ostacoli frapposti dalle autorità investigative, dai magistrati, insomma dalle istituzioni. Fino a minacciare di «chiedere i danni» a chi ha impedito la sua liberazione. Non è la prima volta che accade. Vent’anni fa toccò in sorte ad Aldo Moro. Anche allora si crearono due fronti contrapposti, quello della fermezza e quello della trattativa; le lettere consegnate ai giornali diventarono gli strumenti con cui l’uomo politico cercava di impostare la trattativa per la propria salvezza, mentre i suoi sequestratori cercavano di manipolare l’informazione a proprio vantaggio. Se spogliamo i due casi di ogni connotato politico, rimane soltanto il dilemma di un essere umano che si trova al centro di un tragico conflitto fra la regola e l’eccezione. La regola esige il rispetto della legge, che impone il divieto di trattare con i sequestratori. L’eccezione implica il sopravvento di un impulso di umanità. Un punto d’incontro sembra impossibile. Tuttavia è il caso di valutare attentamente i due messaggi di ieri. Perché l’uno è certamente rivolto ai famigliari, affinché si diano da fare alla svelta. Mentre l’altro è rivolto all’opinione pubblica, serve a suscitare ondate di emotività. Ancora una volta, non c’è soluzione di continuità fra il privato e il pubblico, cioè il politico. E ancora una volta i sequestratori lo hanno intuito. Bisogna vedere se lo hanno compreso le istituzioni. Sappiamo tutti che l’effetto dissuasivo della legislazione sui sequestri di persona è garantito soltanto dalla regolarità con cui la legge viene applicata. Ma fino a un limite di umanità e di ragionevolezza. Soffiantini parla di ipocrisia: diciamo che non di rado la fermezza ostentata non ha nascosto la cedevolezza clandestina, e l’arrendevolezza sottaciuta ha mitigato uno scacco insostenibile. Sui sequestri di persona abbiamo già rischiato qualche mese fa di vedere nascere in politica il partito della trattativa: e allora, vale davvero la pena considerare equivalenti il privato e il pubblico, fino a provocare un cortocircuito di sfiducia nelle istituzioni? È ancora il caso di praticare su Soffiantini e la sua famiglia quell’accanimento giuridico che sembra avere già valicato da tempo la soglia di ciò che è umano, ragionevole e comprensibile sotto il profilo pubblico, cioè politico?

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