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L’Italia al tempo degli 883

11/05/2000

Uno arriva alla Marton, la società di produzione di Claudio Cecchetto situata nella perife- ria di Milano, in una villa patrizia che è tutta un tripudio del postmoderno, tra affreschi e maxischermi, stucchi ottocenteschi e divani in acciaio, e pensa: qui dobbiamo essere nel pieno della nuova tendenza. E se il trend è: soldi, consumo, tecnologia, immagine, new economy, tombola del centrodestra, allora per deduzione Massimo "Max" Pezzali, voce e anima degli 883, potrebbe essere l’aedo pop dell’Italia di Forza Italia. «Ma figurarsi», si schermisce lui. «Come faccio a simpatizzare per Berlusconi? Oltretutto sono disperatamente interista…». Timido, un po’ teso: e si capisce allora perché quasi si strangolava dall’emozione quando è finito sul palcoscenico di "Francamente me ne infischio" a cantare "Ciao ragazzi" con Adriano Celentano, la passione di suo padre (e il papà, in quel momento lì, ha capito che il ragazzo ne aveva fatta, di strada). Non strizza più gli occhi perché nel settembre scorso si è fatto il laser, che gli ha tolto cinque-sei diottrie di miopia, «una roba che, giuro, cambia la vita». Dopo di che il trentatreenne Pezzali è tornato ingrassato di quattro o cinque chili dalle 20 date del tour italiano del suo gruppo. Il tour è stato il solito successo. Grandi città e provincia, palazzetti con 4 mila paganti al colpo. Nord e Sud, pubblico giovanissimo accompagnato dai genitori, ma anche trenta-trentacinquenni un po’ ritardatari che ormai non si vergognano più della "Weltanschauung" di Max, perché «ci hanno sdoganati». Adesso, dopo una dieta rigorosa, gli 883 sono in attesa di ripartire, a metà maggio, per una serie di concerti promozionali in Germania, «dalla Baviera in su», dato che la loro nuova casa discografica (la Wea) è convinta di poter trasmettere la sindrome 883 in tutta Europa, dopo che loro hanno sbancato in Italia a suon di cinque milioni di dischi venduti e alla faccia dei critici che facevano le smorfie solo a sentirli nominare. A vederlo, Pezzali non sembra uno che si sia montato la testa. Si è concesso una Audi TT, un coupé da 70 milioni, ma niente di più. Continua ad abitare a Torre d’Isola, un piccolo comune a due passi da Pavia, proprio nel parco del Ticino, in un complesso edilizio semipopolare insieme con i genitori. «Dev’essere la mentalità ereditata dalla mia famiglia. Prudenza, pochi esibizionismi. Mi ripeto sempre: potrà anche arrivare il periodo di magra, in cui non venderò più lo straccio di un disco e mi guarderanno con compatimento. Ma almeno non avrò fatto il fenomeno, quello che fa il divo coglione». Tanto per dire, i suoi genitori hanno ancora il negozio con l’insegna "Fioraio" nel centro di Pavia. Classica famiglia della provincia bianca: il padre che lavora fin da adolescente e che a un certo punto si mette in proprio sperandi di non affogare nei debiti; la madre, figlia di un coltivatore diretto, che faceva la segretaria a farmacologia, e poi è entrata anche lei nel negozio di famiglia. Cattolici, democristiani, poi attratti dalla Lega, e infine diffidenti verso Berlusconi, storcendo il naso perché il cavaliere si presenta come il campione dei piccoli commercianti, ma loro lo percepiscono come quello delle grandi catene commerciali, che i piccoli alla fine li frega. Dalle benedettine a Vasco Figlio unico, Max ha tutte le caratteristiche per essere un perfetto esempio di italiano post: del post-dopoguerra, del post-Sessantotto, del post-Settantasette, della post-politica. Elementari dalle benedettine: «Ricordo il giorno del rapimento di Moro, l’atmosfera luttuosa, con le suore che si aggiravano con addosso l’espressione fisica della tragedia. Eravamo bambini, mica sgamati come adesso, ci fece un’impressione terribile». Poi il liceo scientifico al Copernico, meno esclusivo del Taramelli, «un asilo da cretini» con professori in costante complesso di inferiorità e quindi più feroci: ogni anno una sofferenza atroce con la matematica e anche una bocciatura in terza. L’iscrizione a Scienze politiche, con un unico esame in Sociologia. Infine, scoraggiato dall’insuperabile esame di Statistica fino a farsi venire l’esaurimento nervoso e dire addio all’Alma Mater. A raccontare come ha cominciato a fare musica non ci si crede. Con un suo amico e compagno di banco, l’extrabiondo Mauro Repetto, e grazie alle mance natalizie derivanti dalla distribuzione dei fiori per le feste, si erano comprati le prime tastiere e la batteria elettronica della Roland. Max fanatico per la voce calda dei Wall of Voodoo di Stan Ridgeway, Repetto più mercantile, Duran Duran e dance nera. Bisogna dire subito che il biondo Repetto, a Pasqua del 1994, se ne sarebbe filato in California a inseguire una sua avventura cinematografica; poi a New York, e adesso è a Parigi, ha fatto la guida turistica, lavora a Eurodisney, scrive sceneggiature, fa l’impresario, insomma, è uno che ha rinunciato con un’alzata di spalle al mucchio di soldi chiamato 883. Devono essere passati due anni dall’ultima telefonata. Ma agli inizi, seconda metà degli anni Ottanta, i due erano inseparabili. E senza sapere niente di musica, si erano subito messi a fare canzoni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non come i loro coetanei, che di solito tentano l’avanguardia, l’house, l’acid, la techno, la jungle, tutta roba inascoltabile: «Macché: primo, facevamo musica per imparare a usare tastiere e computer; secondo, a me è sempre piaciuto fare canzoni, fatte e finite, perché nel mio genoma dev’esserci ben piantata la melodia italiana. Mi piace Vasco Rossi, Eugenio Finardi per cui ho fatto quasi una malattia al tempo dei movimentismi e dei primi centri sociali, il De Gregori di "Rimmel", il Battisti ermetico che faceva sperimentazioni con anni di anticipo sugli altri. E così dopo un paio di rap piuttosto artefatti ho messo giù "Come mai", una canzone maledettamente romantica». Già: quella che a distanza di anni sarebbe risultata un successo delirante con le ragazzine che si fanno venire le lacrime agli occhi non appena Max attacca: «Le notti non finiscono all’alba sulla via…». Sembrerebbe il ritratto tipico del conformismo nazionale. «Vero fino a un certo punto. Perché come per tutti, a un certo punto, è scattata la rivolta generazionale. Rispetto ai miei genitori, e alla loro mentalità secondo cui non cambia mai niente, ogni cosa si ridimensiona e alla fine tutto torna sempre uguale, malgrado i computer e l’Euroflora che va online, io non avrò una grande coscienza politica ma mi sembra di sentire ancora l’eco di un’idea secondo cui qualche cosa può essere cambiato. Sono ingenuo? Ma no, sono una via di mezzo. Sono ancora condizionato dalla mia formazione cattolica, sono un po’ centrista, un po’ di sinistra moderata». Da Marx al punk Dunque dove sareb- be la famosa rivolta? «È arrivata prima: avevo 14 anni, leggevo "Frigidaire", ero innamorato di Andrea Pazienza e di quella banda lì. Nello stesso tempo avevo cominciato a frequentare il circolo operaio di "Lotta comunista" che come livello iniziatico sembrava Dianetics, virato sul marxismo-leninismo e sulla militanza di sinistra. Una sinistra molto vecchia, molto sospettosa. Ti guardavano storto solo perché eri giovane. Riuscivano ancora, all’inizio degli anni Ottanta, a portare l’eskimo. Chissà dove lo compravano. Poi c’è stata l’epoca del punk, in cui invece grazie al cielo c’era pochissima teoria: ero il classico miope con fondi di bottiglia davanti agli occhi, e quindi fare il punk voleva dire affermare una personalità. Si andava a Milano, al Virus, e a Piacenza, e soprattutto a Bologna, che era la capitale morale del movimento. Ma anche a Pavia, ad esempio per la performance dei Chelsea Hotel, quattro gatti a vederli, con il cantante che prese a tagliuzzarsi le vene e venne portato via dalla Croce verde… Un paio di volte, per curiosità, sono anche andato a vedere che cosa facevano quelli del Fronte della gioventù, ma era solo un trip per cui uno si alzava fascista la mattina e al pomeriggio decideva di fare il nazi, e io ho detto questi sono fuori come un balcone, e me ne sono andato senza salutare». Il fatto è che il mondo vitale di Pezzali è rimasto quello di sempre, della provincia, del bar Dante fuori dalla cinta muraria, e con i tavolini d’estate, immortalato in alcune canzoni come "La dura legge del gol", "La regola dell’Amico", "Rotta per casa di Dio", frequentato con gli amici di sempre. Ovvero Francesco Bertolotti, alias "Cisco", coscienza storico-critica del bar, tornitore in un’azienda meccanica di Binasco. Oppure "Apo", cioè Claudio Apone, contabile in un’agenzia di assicurazioni, e "Yeye", diploma di geometra, una storia di sette anni di tossicodipendenza risolti con una radicale terapia in comunità, accolto dagli altri come un trionfatore, uno che ce l’ha fatta, una vita ricostruita nel settore agricolo. A parte il bar, Max si alza alle dieci e mezzo, e lavora a casa con le sue tastiere nella sua stanza. In studio di registrazione, a Bresate, gli danno una mano gli altri componenti della factory 883, Pier Paolo Peroni (amico di Jovanotti, ex programmatore di Radio DeeJay) e Marco Guarnerio (fonico-arrangiatore), mentre il pallidissimo Cecchetto, quello che li ha tolti dall’anonimato chiamandoli dopo avere sentito una loro cassetta, è lo stratega, quello che sovrintende alle operazioni complessive, dal packaging al lancio. Perché gli 883 sono effettivamente un prodotto industriale, rivolto al mercato: con l’aggiunta di un atteggiamento scanzonato, da buona compagnia, che riesce a frullare insieme il professionismo con il dilettantismo, il calcio con l’immaginario giapponese. Dalla discoteca allo stadio Con il risultato che pezzali, men- tre prima era considerato trash puro, è stato recuperato. "Famiglia cristiana" ha scritto che la sua ultima prova, "Grazie mille", contiene un senso quasi religioso della vita. E lui sembra fare di tutto per confermare l’idea di essere uno dei tanti che però parla a nome di tutti. Il figlio di una provincia lombarda che si rivolge a una provincia italiana apparentemente eterna: «Anche in questi tempi di New economy, io, che pure sono curiosissimo, e ho cominciato a trafficare con Internet sei anni fa, mi rendo conto che in provincia tutto arriva filtrato e come in ritardo. Il mio timore è che la provincia e la metropoli si stiano allontanando, altro che omologazione. Di fronte a Tokyo, a New York, noi restiamo sempre dei ragazzi italiani, che hanno paura a entrare in un locale, che sentono la distanza». Perché in provincia si guarda con diffidenza alle novità. La depositaria ideologica di famiglia, cioè la mamma, ha come dogma che le cose si ridimensionano sempre. Lui tradurrebbe: «Stessa storia, stesso posto, stesso bar», come il libro che ha scritto. Trading online? Ma neanche a parlarne. Il mattone. I bot. Avventure nisba. Quando il Nasdaq collassa, la mamma, che ha rifiutato con una smorfia le proposte di investimento azionario della banca locale, lo prende in giro: «Eh, Massimo, t’è vist i tecnologici? T’è vist el to Internet?». Lui scrolla le spalle. Non sembrerebbe assatanato di danaro. È solo uno che ce l’ha fatta, anche se in un settore improbabile. «Sono sempre quello che è cresciuto a pane e fumetti, i Supereroi, Alan Ford di Magnus & Bunker, e anche Tex Willer e Zagor, fino a Dylan Dog di Tiziano Sclavi, che oltretutto è di Broni, proprio qui dietro casa. "Hanno ucciso l’uomo ragno", o "Nord Sud Ovest Est" nascono proprio dai fumetti». E naturalmente quello che andava per discoteche, dove lui ha imparato a fare il sociologo sul campo, a osservare le coppie che «si baciano come nei film, poi si tradiscono dopo un’ora» ("Nella notte"): «C’erano due discoteche, a Pavia, il Docking per i fighetti, e il Celebrità, poi ribattezzato Matisse, più girato sul rock. Ci si andava un paio di volte la settimana. La discoteca era il luogo in cui entravi in contatto con la città, perché venivano quelli di Milano, o per meglio dire dell’hinterland, a farti concorrenza con le tipe. Uno scontro fra provinciali. In ogni caso la discoteca era anche un luogo che veniva interpretato come un palcoscenico. Capirai, in provincia ci si conosce tutti, tutti sanno che fai la parrucchiera o il meccanico, eppure tu vai nel locale e fai la divina o il dark». Cultura? «Tutte le mattine il "Corriere", la "Provincia pavese" e naturalmente la "Gazza", perché il calcio è la mia antropologia. Libri, pochi. Mi piacciono gli spaccati storici. Impazzito per "Fatherland" di Robert Harris, cioè di un’idea di storia parallela, di che cosa poteva succedere se Hitler avesse vinto la guerra. Romanzi ancora meno, l’ultimo che ho letto è il "Bastogne" di Enrico Brizzi. Molto Bukowski, a suo tempo, e molto Stephen King, anche adesso». Ultimamente lo sguardo fenomenologico di Pezzali ha lasciato il campo a una vena più intimista. Le canzoni sono diventate più romantiche: «Ma è anche per reazione a tutto l’insieme dei fallimenti amorosi che si vedono in giro. Adesso, quando qualcuno che conosciamo si sposa, si aprono subito le scommesse. Tempo quattro mesi e quella torna a dormire dai suoi. E grande soddisfazione cinica quando accade davvero. Fatto sta che nel mio giro non conosco nessuno, dico nessuno, il cui matrimonio sia durato più di tre anni. Non c’è più il problema della sopravvivenza, l’idea che il matrimonio era un un progetto di vita. Si riconosce che ci si è rotti le palle, e via». Al punto che l’ideologia di famiglia, che prima faceva regolarmente la classica domanda «quand’è che ti sposi, Massimo», adesso si è rassegnata alla sua vita più o meno da single, sospirando «eh, chissà, forse fai bene, con le ragazze che ci sono in giro oggi…». Così lui si è fabbricato una specie di rimpianto morale per la coppia stabile, un affetto quando vede due dei vecchi tempi insieme col bambino: «Perché penso che sarebbe bello, o che poteva essere bello, e che al loro posto potevo esserci io. Una miscela di nostalgia e di disincanto: «Dettata anche dal fatto che sento molto il problema della velocità del cambiamento, e dell’adeguatezza del mio cervello ad assimilarla. Siamo cresciuti in un’epoca in cui la carta geografica non cambiava mai, e in Italia cambiavano i governi ogni tre mesi ma la sostanza no, restava uguale: in fondo era rassicurante». Quando la vita era più facile, ha scritto in una canzone che si chiama "Gli anni". Mentre adesso? «Adesso, eh, adesso è tutto diverso».

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