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L’EUROPA COME CAMPO DI BATTAGLIA

07.01.1998

L’Unione europea ha la caratteristica infallibile di apparire un congegno perfetto quando c’è bonaccia e di tramutarsi in un campo di battaglia non appena il mare si increspa. Ieri il commissario europeo Emma Bonino ha ricordato piuttosto aspramente che l’Italia «chiama l’Europa solo quando abbiamo dei problemi», siano le quote latte, gli albanesi o i curdi. Il fatto è che l’arrivo dei curdi appare sotto fisionomie diverse a seconda del punto da cui lo si guarda. Per gli italiani è una delle consuete emergenze, prima sottovalutate, poi nevrotizzate, infine proiettate su una dimensione superiore e più ampia, quella europea, come per sgravarsi la coscienza e demandare ad altri le soluzioni. Per i tedeschi, o almeno per il ministro degli interni Manfred Kanther, le emergenze italiane sono la conferma della fragilità dell’Unione, della inquietante permeabilità dei confini meridionali e dell’inaffidabilità dell’Italia come sottoscrittrice di ogni tipo di trattati. Seguono inevitabili consultazioni telefoniche di Kohl con Prodi e Jospin. Ma ha ragione la Bonino, il problema non sono i curdi, non c’è un’invasione, non siamo di fronte a un esodo biblico. C’è piuttosto una questione di affidabilità europea, sulla quale noi tradizionalmente siamo piuttosto scoperti, e di fiducia nei partner europei, sulla quale sono invece i tedeschi a mostrare sospettosità e retropensieri molto più eloquenti delle dichiarazioni ufficiali. Alla diffidenza tedesca non porranno rimedio le assicurazioni di Veltroni secondo cui l’Italia «non è un paese di passaggio»: si capisce benissimo che ciò che i tedeschi temono è proprio il lassismo italiano per profughi che comunque se ne andranno a Nord. Ma il codice di affidabilità europea dovrebbe funzionare a trecentosessanta gradi. Sarà pure lecito ricordare che il nostro paese ha raggiunto un risultato, con l’abbattimento del deficit pubblico, che assume un profilo «storico». Sarà il 2,7 per cento sul Pil, sarà un decimale in più: resta il fatto che l’Italia ha conseguito un risultato che anche i più ottimisti giudicavano molto problematico, mentre la Germania, secondo l’istituto berlinese di ricerca Diw, sfora il parametro e non di un’inezia (3,3 per cento). Chi pensa che l’obiettivo del fabbisogno al 3 per cento sia stato ottenuto soprattutto con artifici contabili, non dovrebbe dimenticare che la Germania si è inventata una finanza creativa molto italian style (rivalutazione delle riserve auree, vendita delle riserve petrolifere, non ripianamento dei debiti degli ospedali). Chi sostiene che il risanamento della finanza pubblica italiana è riuscito in termini di grandezze macroeconomiche ma è fallito sulle riforme strutturali del welfare, dovrebbe tuttavia mettere sull’altro piatto della bilancia che la prestazione complessiva del paese è stata stupefacente. Non è accaduto molte volte infatti che l’Italia si vedesse indicare da un governo un obiettivo preciso, e su questo obiettivo sia riuscita a convergere con puntualità ed efficacia. La società del nostro paese si è accollata un peso fiscale più elevato, ha pagato senza proteste l’Eurotassa, ha mantenuto competitività industriale, e adesso sembra finalmente avere acchiappato la scia della ripresa economica. In altri momenti si sarebbe evocato lo Stellone, o la capacità di alcuni segmenti della collettività di supplire alle deficienze di altri. Ma adesso sembra più appropriato parlare di uno sforzo condiviso e guidato, di cui sono state consapevoli le élites ma anche, si direbbe, la società italiana nel suo insieme, capace di spremere le proprie risorse in modo inaspettato. Osservando allora la prestazione tedesca sui conti pubblici, sarà elegante non fare ironie su quel virgola 3 di eccesso, e nemmeno cedere alla tentazione di ricordare gli arricciamenti di naso di politici e banchieri a proposito del miracolo contabile italiano e della sua qualità. Sarà meglio riflettere piuttosto sulle difficoltà che un grande paese europeo si trova ad affrontare per ristrutturare il suo modello politico-economico, e assimilare l’idea che la partita europea non si vince pretendendo di giocare in proprio. Non c’è più spazio per i provincialismi, non si può – di nuovo ha ragione la Bonino – «essere un paese che subisce con entusiasmo ciò che succede ma difficilmente sa usare le procedure nei tempi e nei luoghi appropriati». Tutto vero, a patto però che le critiche e i confronti avvengano su un piano di parità e di imparzialità effettiva: perché non è bene che qualcuno risulti meno europeo di altri rispetto ai curdi, ma nemmeno che qualcun altro si consideri più europeo degli altri malgrado il livello del deficit.

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