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La politica degli abbracci

06/06/2002

Scena prima: in una conferenza stampa all’Eliseo, chiedono al presidente George Bush qual è il migliore alleato degli Stati Uniti. E Bush, simulando una cordialità ilare anche se non particolarmente convincente, emette un gridolino («Jacques!»), indicando uno Chirac un po’ compiaciuto e un po’ diffidente. Jacques, cioè monsieur Chirac, e non la Francia, non i francesi. Va da sé che la politica internazionale è diventata meno formale e più diretta: i summit come il G8 e i vertici europei favoriscono atteggiamenti inediti rispetto alle liturgie protocollari del passato. Silvio Berlusconi può dare un tocco di classe ai vertici europei esibendo le corna nelle foto ufficiali, ma non è nel torto quando parla di un clima di «cordialità, di simpatia, di amicizia» che può crearsi fra i leader mondiali. I capi di Stato e di governo non hanno più fra di loro le barriere ideologiche: la regola secondo cui le democrazie non si fanno le guerre, al massimo qualche dispetto, vale sempre di più, e nel teatro diplomatico il rapporto personale assume un ruolo cruciale. Scena seconda: non si riesce ad accendere la tv senza vedere il presidente del Consiglio italiano. Una presenza "normale", data la situazione di controllo mediatico vigente. Meno normale, o almeno più originale, è la permanente esibizione personalistica di Berlusconi, con la rivendicazione di primari successi nel pianeta. Il capo del governo si propone come il soggetto politico che ha condotto Bush e Putin a un accordo storico, e rivendica per l’Italia un ruolo di primissimo piano nell’arena mondiale. L’identificazione fra le proprie doti di leader e il ruolo da protagonista del paese è evidente, e viene sottolineata di continuo, in modo enfatico. Non è in certo modo irritante questa personalizzazione estrema della politica, che passa da accenni di goliardia alle pacche sulle spalle, dall’amicizia plateale all’euforia coatta da meeting? In tempi meno compagnoni, le élite politiche erano legittimate da meccanismi complessi, e la leadership incarnava una visione proposta da un partito o da una coalizione di forze coerenti. Soprattutto in Europa, anche le personalità più forti si proponevano come una sintesi: De Gaulle era la Francia dell’orgoglio nazionale, Adenauer riassumeva il pensiero cattolico social-liberale, Kohl era la forza rassicurante della Germania popolar-conservatrice. Oggi la personalizzazione non è più semplicemente uno strumento per esaltare una posizione politica, quanto piuttosto il surrogato di una politica assente o vuota. Per questo gli abbracci camerateschi e le risate conviviali fra i leader europei e mondiali hanno il tono noioso di una nuova ufficialità. Ma non c’è solo l’irritazione per l’allegria forzata. Dopo la catastrofe socialista alle elezioni presidenziali, diversi intellettuali francesi hanno criticato il sistema istituzionale del loro paese. Se infatti la costituzione repubblicana, ritagliata sulla figura dominante di De Gaulle, porta allo scontro fra candidati grigi, incapaci di esporre un programma politico qualificante e di offrire una "vision" per la società nel suo insieme, il confronto politico avverrà fra lobby partitiche unificate dagli interessi (quando va peggio, emergeranno pulsioni xenofobe e di chiusura antieuropea). Per l’Italia la situazione non è né diversa né migliore. La personalizzazione delle leadership ha fatto da surrogato per un certo tempo all’azione dei grandi partiti scomparsi, ma alla fine a dominare il campo è rimasta soltanto la personalità del Padrone d’Italia. Tutt’intorno, il deserto politico. E, nell’opposizione, non s’è ancora capito se si stia cercando un carisma personale di sinistra, o una proposta politica effettivamente competitiva.

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