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LA GIUSTIZIA DOGMATICA

23.02.1998

Con una sterminata intervista al Corriere delle sera, il pm Gherardo Colombo ha comunicato all’opinione pubblica alcune sue convinzioni, relative in primo luogo a un sistema di filosofia politica, poi alla vicenda italiana del dopoguerra, e infine al modo in cui si sta realizzando la riforma costituzionale. Tutto si tiene. La concezione filosofico-politica del pm milanese, si è appreso, ruota intorno alla necessità che i confitti emergano, altrimenti la vita pubblica procede per compromessi opachi e «consociativi». La sua ricostruzione del dopoguerra è strutturata su un chiaro impianto cospirativo, che mette in fila il ruolo della mafia nello sbarco alleato, il caso Cirillo, i fondi neri dell’Iri, la P2: per giungere al giudizio che «negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti». Conclusione, dato che la pulizia giudiziaria non è stata completa, la Bicamerale e il Parlamento sono la sede di riforme ispirate da un grande «ricatto», e proprio quel ricatto può essere il vero fondamento della nuova Costituzione, in special modo riguardo alla giustizia. Le reazioni all’intervista del pm milanese sono state caratterizzate da un automatico sbigottimento. I presidenti delle Camere hanno reagito con durezza. Esponenti di quasi tutti i partiti hanno condannato senza riserve una sortita che delegittima in modo disastroso il Parlamento. Se si dovesse giudicare l’intervento del pm Colombo a partire dalla sua qualità «filosofica», ci sarebbe già molto da eccepire. Le sue considerazioni diagnostiche sono ultimative: «Io dico che nel metabolismo politico-sociale del Paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto ma intorno al compromesso». A prendere alla lettera queste parole, si sentirebbe l’urgenza di un’offensiva inquisitoria, di una furibonda ventata moralizzatrice. Ed è proprio ciò che Colombo auspica: «La strada da percorrere, a mio avviso, è un’altra: svelare tutti gli illeciti, indicare tutte le responsabilità. Solo così la nuova Costituzione non avrà come fondamento il ricatto». Sarebbe sin troppo facile impiccare il pm milanese alle sue parole. La sua illustrazione dell’esperienza democratica italiana è un calco disarmante di quelle «storie di sinistra» che hanno sempre attribuito ogni inciampo nello sviluppo politico e civile (come la lunga persistenza della Dc e l’insufficienza elettorale della sinistra) alle macchinazioni di poteri clandestini. Questo occultismo ossessivo è sempre stato la spiegazione succedanea alla mancata spiegazione dei processi socioeconomici e politici reali. Ma nelle espressioni di Colombo la propensione al teorema e al noir si unisce a una radicale, ultramoralistica, autenticamente giacobina fede dogmatica nella giustizia: una giustizia concepita come «sola igiene della politica». Viene da chiedersi se il magistrato Colombo ha effettivamente soppesato ogni parola, come riferisce l’autore dell’intervista, Giuseppe D’Avanzo; oppure se si è fatto catturare dall’incantesimo dei propri sociologismi. Perché se le avesse sviluppate un altro, non un magistrato-intellettuale come Colombo, non la punta di lancia del pool Mani pulite, non il rappresentante dell’accusa in un processo contro Silvio Berlusconi, analisi di questo tipo sarebbero state considerate delle suggestive, o delle bizzarre, a seconda dei punti di vista, provocazioni intellettuali. Anche se meno articolati rispetto alla capacità evocativa di Colombo, cultore e saggista della memoria, discorsi di questo tenore si sentono spesso in molti caffè. E allora, se non è vera un’ipotesi, subentra necessariamente l’altra. Se Colombo non si è fatto prendere la mano, vuole dire che ha deciso di tirare l’arma più micidiale che riteneva di avere. Che avrebbe deciso di fare volare gli stracci che coprono la tartufesca operazione di restaurazione che in questo momento viene praticata in sede parlamentare, rivelando il losco patto «consociativo» che lega, eh già, chi può legare: D’Alema e Berlusconi, no? E con loro tutti gli altri, ovviamente legati a un interesse inconfessabile, mettere in ginocchio la magistratura, «potere diffuso» che «può rompere in qualsiasi punto e imprevedibilmente il patto del silenzio, della complicità consociativa che il ricatto consiglia». Ma neanche questa ipotesi sembra realistica. Tanto più che alla fine dell’intervista Colombo nega recisamente che la riforma della giustizia possa avere effetti sul lavoro dei magistrati, almeno quelli del pool: «Le vicende e le soluzioni della Bicamerale (…) non hanno la capacità di influire sul nostro lavoro. Voglio dire che tutto ciò è assolutamente indifferente rispetto all’amministrazione della giustizia». E allora? Tanto rumore per nulla? No, da questi equivoci si potrebbe venire fuori soltanto con l’aiuto dello stesso Colombo. Il quale potrebbe riconoscere ad esempio che le sue dichiarazioni non volevano avere un effetto politico immediato, causale; e che le sue tesi sulla vicenda italiana erano dettate da un’intenzione, diciamo così, «accademica», di storico, di analista. Perché un mediocre interprete della storia d’Italia possiamo concedercelo; ma un magistrato, e quale magistrato, incapace di valutare l’eco delle proprie parole, che si propone come l’unico oppositore totale in quanto depositario vivente della verità e della giustizia, quello no, non ce lo possiamo permettere.

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