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Il potere esclusivo di grazia

05-06 2004

Come numerose iniziative che scaldano il clima politico, investono le massime istituzioni, accalorano opinionisti e opinioni, salvo poi scivolare silenziosamente nel nulla, anche l’iniziativa di Marco Pannella per il ripristino del potere di grazia come prerogativa assoluta del presidente della Repubblica si è dissolta. Qui non si vuole prendere in esame il ruolo di Pannella, né giudicare se il «satyagraha», gandhiano e non violento, riassunto fisicamente e simbolicamente nello sciopero della fame e della sete, avesse un significato politico laterale, ossia dovesse essere considerato una manovra implicitamente a favore della liberazione dal carcere di Adriano Sofri. A volerla considerare in modo distaccato, occorrerebbe riconoscere innanzitutto che l’iniziativa di Pannella aveva effettivamente buttato per aria la politica. Nella sua prosa, riportata sul giornale diretto da Giuliano Ferrara, «Il Foglio», Carlo Azeglio Ciampi è diventato il «principe prigioniero», a cui una corte ignava impedirebbe di esercitare la potestà costituzionale. Ha chiesto di fatto le dimissioni del massimo giurista del Quirinale, Gaetano Gifuni, liquidandolo con un giudizio senza appello: «Non credo che tu possa ritenerti la persona meglio adatta per servire i dettati della Costituzione e le scelte conseguenti del presidente». Ha messo in mezzo un Berlusconi a sua volta impacciato, che già era stato brutalizzato da Giuliano Ferrara («si è consumata un’amicizia») dopo la bocciatura della legge Boato, un dispositivo per riattribuire in modo esclusivo al Quirinale il potere di grazia. Berlusconi ha dovuto promettere per iscritto che «l’orologio» del ripristino costituzionale sarebbe ripartito. Ciò ha proiettato nel conflitto la Casa delle libertà, con gli alleati che sono insorti contro qualsiasi provvedimento potenzialmente a favore di esponenti del «terrorismo », con il ministro del Welfare Roberto Maroni in prima fila, mentre un altro ministro, Maurizio Gasparri, non ha esitato a opporre il veto preventivo a un’eventuale decisione di Ciampi a favore di detenuti in odore di eccellenza. Ma, almeno fin qui, questa sarebbe dialettica, scontro pubblico di opinioni. Tuttavia, di fronte alla generale acquiescenza con cui è stato accolto un concetto certamente discutibile come il potere esclusivo presidenziale, sarebbe stata utile una riflessione proprio sull’istituto stesso. Secondo il leader radicale, si sarebbe trattato di una battaglia per ripristinare la legalità, vulnerata già due anni fa dal mancato plenum alla Corte costituzionale (ciò che indusse Pannella a un primo clamoroso satyagraha, reso teatrale e drammatico dalla ripresa televisiva che lo inquadrò mentre beveva la propria urina per ripristinare l’equilibrio idrico compromesso gravemente dallo sciopero) e che oggi sarebbe inficiata in modo altrettanto insopportabile da una prassi che ha reso «duale», ossia ripartito fra il capo dello Stato e il ministro della giustizia, il potere di grazia. Pannella ha negato ostinatamente che si trattasse di un caso particolare, di un provvedimento ad personam. In una lettera a Carlo Azeglio Ciampi pubblicata sul «Foglio» del 7 aprile, dopo 60 ore di sciopero della sete, mentre il «collegio medico » sulle pagine di quel quotidiano segnalava ogni giorno la disidratazione, i rischi per il cuore e «l’ipotensione ortostatica», ha sottolineato con forza un concetto generale: in gioco non c’è il «problema specifico di questa o quella concessione di grazia, ma il recupero della legalità costituzionale ». Un succinto manifesto legalitario, pubblicato per giorni sul «Foglio» esordiva così: «Ci fidiamo di Marco Pannella e della sua storia di difensore battagliero e irriducibile della legge e del diritto» (le firme erano nell’ordine di Pierluigi Battista, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Angelo Panebianco, a cui se ne sarebbero aggiunte in breve altre decine, di intellettuali, registi cinematografici, cantanti, showmen, da Pippo Baudo a Milva, da Carlo Ginzburg a Bernardo Bertolucci). Si è assistito insomma alla trasformazione di un caso costituzionale perlomeno dubbio in un dogma legalitario. Secondo Pannella, il potere presidenziale di grazia, secondo l’articolo 87 della Costituzione, costituisce un «gioiello giuridico, che ci giungeva da millenni». Sull’argomento citava la «dottrina» e schiere di giuristi favorevoli alla sua interpretazione. Ma proprio questo è il punto. Qual è il fondamento secondo cui al presidente della Repubblica, e soltanto a lui, spetterebbe il potere di grazia? A leggere ingenuamente la Costituzione sembra tutto chiarissimo. L’articolo 87 dice semplicemente che il capo dello Stato «può concedere la grazia e commutare le pene». L’articolo 88 aggiunge: «Nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. L’articolo 90 chiarisce infine che il capo dello Stato «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». A chi non fa parte della comunità giuridica il significato degli articoli costituzionali sembra inoppugnabile. La concessione della grazia è un atto delicatissimo, che «altera» il tragitto della pena, e che in vari casi può avere implicazioni politiche di alta intensità. Pensiamo ad esempio a un’eventuale clemenza verso persone che si fossero rese colpevoli di delitti «politici »: ad esempio, membri di organizzazioni terroristiche, non importa se di sinistra o di destra. Non c’è dubbio che, in certe occasioni, la grazia o la commutazione di pena avrebbe echi e riflessi politicamente rilevanti, e difficilmente potrebbe essere ricondotta esclusivamente a un percorso etico personale del condannato, alla maturazione della sua coscienza, alla denuncia e alla rinuncia esplicita del proprio passato. Bene, in tal caso ci troveremmo di fronte a una decisione politica, assunta da un’istituzione, il presidente della Repubblica, che la carta costituzionale definisce politicamente irresponsabile. È vero che Pannella ha citato spesso l’articolo 681 del codice di procedura penale, che autorizzerebbe il motu proprio presidenziale. Ma, per l’appunto, c’è pena e pena, e c’è grazia e grazia. È possibile che la grazia a un ergastolano comune, una volta accertato proceduralmente il suo riscatto civile e morale, sia qualcosa che non rileva sul piano politico, in quanto investe una sfera prevalentemente individuale e personale. La grazia a un ex terrorista, invece, può essere un provvedimento che interviene nel sentire della collettività, divide l’opinione pubblica, crea separazioni e opinioni contrastanti in Parlamento, può portare alla formazione di due «partiti», uno pro e uno contro. Insomma, è un atto politico. Si tratterebbe quindi di capire come sia possibile che a una sola persona sia affidata una potestà perfettamente discrezionale. La decisione di concedere la grazia dipende da un giudizio, e ogni giudizio comprende un quoziente ineludibile di discrezionalità. Il nostro sistema istituzionale non contiene criteri che affidino a una singola persona un potere politicamente arbitrario. Sarà un limite del sistema. Esisteranno personalità carismatiche, talenti morali e giuridici in grado di risolvere con sapienza salomonica, e comunque con intelligenza e comprensione superiori, le questioni più difficili. Sovrano, ce lo ricordiamo, è chi decide nello stato di eccezione. Ma fuori dal contesto schmittiano, nella normalità costituzionale, c’è anche chi potrebbe sentirsi rassicurato dall’idea che ai vertici delle istituzioni non vengano prese decisioni prive di contrappesi e non garantite dalla condivisione; vale a dire dalla consapevolezza che non esiste un «sovrano» autorizzato a usare il suo scettro e a dirimere con l’arbitrio casi giuridici estremamente complicati, talora circondati da un alone di emotività, non di rado sostenuti dalle opposte parti con uno spirito di faziosità evidente. La democrazia vive di casi limite. Non è il caso naturalmente di Ciampi, il cui equilibrio, va da sé, non è in discussione: ma la gamma dei casi limite possibili è infinita: se il re si ammala, o si indebolisce psichicamente, nessuno negherà che è conveniente e utile la controassicurazione di una doppia interpretazione; se il sovrano è politicamente o culturalmente orientato, ci vuole qualcuno che si assuma la sua stessa responsabilità, o che eventualmente la contraddica. Altrimenti tutta la traiettoria che comprende la formazione della modernità giuridica e costituzionale, a partire dalla separazione dei poteri, parrebbe non essere servita a nulla: e tutto questo nel nome di un principio, l’esclusività presidenziale del potere di grazia, che assumerebbe il carattere vagamente incongruo di un residuo medievale, al tempo in cui i re regnavano, governavano, ed erano ritenuti capaci di rimedi taumaturgici.

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